1.46 ● NON MI SENTIVO IN COLPA

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Per tutto il tragitto di ritorno, fissò la strada fuori dal finestrino. Di tanto in tanto, partiva un singhiozzo convulso.

«Meriteresti una ramanzina per quello che hai fatto.» eruppi, senza molta convinzione. «Vorrei che non credessi sempre a tutto quello che scrive EL.»

Attesi in silenzio. Non avevo molto coraggio né ci credevo molto, in quello che le avevo appena detto. Sarei stato un ipocrita: io avevo fatto ben di peggio, Nathan lo sapeva e mi aveva fermato molto spesso. «Lo sai che quella canzone non parla di spogliarsi davvero?» mi sforzai di far uscire qualcosa dalla mia testa.

Lei non reagì, se non con un sospiro.

Arrivati a casa, l'accompagnai in camera. «Forse è il caso che tu faccia una doccia.»

Si diresse avvilita verso il bagno.

Non uscii dalla sua camera ma frugai nei suoi cassetti. Oltre a un paio di mutandine e un reggiseno, tirai fuori dei jeans e un maglione, di quelli che le aveva mandato il padre, e appoggiai tutto sul letto.

Mi misi a sedere sul divano, dando le spalle al bagno. Quando la porta si aprì, evitai di girarmi.

«Che ci fai ancora qui?» domandò.

«Scusami, mi sono permesso di prepararti dei vestiti puliti sul letto.» rimasi immobile rigido sul divano dandole le spalle.

«Grazie.» Mormorò.

Guardavo di fronte a me lo schermo del televisore. Era spento e rifletteva la sua figura alle mie spalle. Piano l'immagine sullo schermo scuro lasciò scivolare l'accappatoio, subito chiusi gli occhi. Strinsi le mani sulle ginocchia e trattenni il respiro.

Che stronzo che sono.

Eppure, non mi sentivo in colpa per ciò che avevo visto, anche se era solo un'ombra vaga. Il lieve riflesso danzava davanti alle mie palpebre e faticavo a rallentare i battiti del mio cuore, ma per una volta dovetti ringraziare EL. La sua voce intonò una delle canzoni degli 'Y●EL●L', e tanto mi bastò per farmi saltare i nervi e recuperare me stesso.

Riaprii gli occhi. Il riflesso si era rivestito.

Mi alzai dal divano e la squadrai. Passo dopo passo le arrivai davanti, infilai un dito in un passante dei jeans, e la tirai vicino a me.

Alzò la testa, gli occhi spalancati e le labbra morbide socchiuse. Il mio cuore aveva ripreso la sua folle corsa a un rock convulso.

Gettai uno sguardo all'orlo dei pantaloni. «Guarda.»

Abbassò gli occhi sullo spazio che si era venuto a creare tra i jeans e i suoi fianchi. «Mi vanno larghi.» Sussurrò piano, non nascondendo una punta di meraviglia.

«Mmmh.» Annuii serio. «Forse, mangiare strano non è poi così male, no?» La punzecchiai. «Davvero vuoi tornare a Seattle e mangiare quello che capita?»

Alzò la testa e i suoi occhi si riempirono di lacrime mentre mi guardava. «Sì, sì, voglio tornare a Seattle. Voglio parlare con papà.» singhiozzò.

L'attimo dopo, la lasciai andare e indietreggiai sconfitto.

Mi sorpassò andando verso il divano e vi si accoccolò stringendo un cuscino. «Gli ho telefonato e scritto.» Scosse la testa «Non mi risponde. Non lavora dove credevo. Voglio parlare col mio papà. Lui invece sembra che mi ha dimenticato»

Mi appoggiai all'armadio vicino, il cuore non aveva smesso di martellarmi in petto, ma l'emozione era diversa. Ero smarrito.

Vuole parlare di nuovo con suo padre? Vuole davvero tornare a Seattle?

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