La Dispettosa

113 24 99
                                    

"Wendy sarà felice di vederti!", sta dicendo mia madre.

"Wendy è a Venezia?"

Non posso non sorridere, mentre mia madre risponde che appena ha saputo del mio arrivo ha preso l'aereo e si è precipitata qui, anche se odia volare. Wendy... quando ero piccola era la nostra stramba vicina di casa. Aveva già quasi sessant'anni allora, e vestiva come una gitana, i capelli grigi portati sempre sciolti e con una ciocca colorata sul fianco destro. Ogni volta cambiava colore, perché "la vita, mia cara Queen, non è mai uguale". Wendy le raccontava storie, miti e leggende. Faceva tintinnare i braccialetti mentre si toglieva i capelli dagli occhi. Qualche anno fa è dovuta tornare a Londra dalla figlia, perché non più completamente autosufficiente. Sono felice di vederla, anche se ho paura di osservare i segni che il tempo ha lasciato su di lei.

Non che abbia paura della vecchiaia (o della morte). Ma ho paura di perdere un'altra amica.

Senza volerlo sospiro.

"Lo so tesoro", mi dice la mia accompagnatrice, stringendo leggermente la mia mano.

Mia madre. Quanto ho desiderato che non ci fosse? Ricordo il giorno in cui papà è morto. Così, improvvisamente, mentre stavamo correggendo un compito di matematica. Lui era il mio eroe. Riusciva a farmi piacere anche una materia che consideravo noiosa, mostrandomi come tutto era intrecciato ai numeri: la musica, l'arte, la bellezza. Ma da quel giorno molta bellezza era morta con lui. E io, che avevo solo dodici anni, ho incolpato mia mamma per non essere morta al suo posto.

Forse, se fosse accaduto il contrario, avrei incolpato lui per non essere morto al posto di lei. Solo da grande ho capito che la vita è così. Dà e prende, vivi e muori, corri e ti fermi. Ma sempre, comunque, anche quando non vuoi... cambi.

"Grazie per essere venuta, mamma", dico, a bassa voce.

"Grazie per essere tornata, tesoro", mi risponde.

Continuiamo la nostra passeggiata in silenzio, sottobraccio, mentre mi guardo intorno. Venezia è come la ricordavo. Stanca e bellissima. Una comitiva di turisti si avvinghia alle panchine, mentre la guida, visibilmente provata, cerca di attirare nuovamente la loro attenzione, raccontando aneddoti che non sembrano interessare a nessuno tranne che a lei. Le vetrine con le maschere sembrano essersi moltiplicate, così come i negozi di souvenir.

Una ragazza si muove tra la gente, a testa alta e con un sorriso gentile. Indossa un corpetto su una camicia rossa coi volant e un tutù dello stesso colore, scarpe con tacco altissimo e zeppa, trucco dark e capelli tinti di rosa, acconciati in una treccia stupenda. Le sorrido, quando i nostri sguardi si incrociano. Alcuni le lanciano occhiate stupite o di disapprovazione, ma lei continua per la sua strada.

Non posso fare a meno di pensare all'incoerenza umana. Per tutta la vita, una delle cose che desideriamo disperatamente è essere visti. Vogliamo essere unici, essere notati, desideriamo che le persone si ricordino di noi. Allo stesso tempo però, ci sentiamo al sicuro confusi tra la folla. Uniformi. Invisibili. Perché se mi vedi mentre sono invisibile, se nonostante tutto mi noti, allora vuol dire che sono davvero qualcuno, vuol dire che esisto. Forse per quello le persone odiano chi è diverso. Attira l'attenzione. E quindi riduce le possibilità di essere visti.

Passiamo sopra un ponte piccolo, mentre ci dirigiamo verso San Marco. Riconosco quel ponte e faccio segno a mia mamma di fermarsi. Scruto il canale sotto di me e la vedo.

"C'è ancora!"

"Cosa?"

Indico la piccola barca, sorridendo. Il nome è mezzo scrostato, ma si legge ancora bene. "La Dispettosa".

Mia mamma inarca un sopracciglio. Non posso evitare di scoppiare a ridere. Quando ero ragazzina mi ero arrampicata dal ponte al terrazzo della casa adiacente, disabitata probabilmente da secoli, fino a raggiungere la barca. Era una delle tante volte che ero scappata di notte. Mi ero portata merendine e coca cola e avevo passato lì qualche ora, per poi tornare nella mia stanza.

"Ricordi", rispondo alla sua domanda inespressa. "A proposito", continuo, anche se in realtà non c'entra nulla, "domani arriva Silver."

"Qui a Venezia? Silver?"

"Ah-a."

Silver, il mio migliore amico. Ci siamo conosciuti otto anni fa a New York, durante una sfilata. Lui era all'ultimo anno di College, e io facevo la cameriera (cosa che mia madre non ha mai approvato). Chiacchieravamo tutte le sere, finché lui non ha iniziato ad accompagnarmi a casa ogni sera, a fine turno (cosa che mia madre ha sempre approvato).

"Beh finalmente lo conosco di persona e non più solo in videochiamata!"

Noto un leggero tono di rimprovero nella sua voce. O forse sono i miei sensi di colpa. Sono andata via non appena ho compiuto diciott'anni, prendendo come scusa quello che era successo con Paolo, ma la verità era che volevo sparire... e l'ho fatto per quasi undici anni.

"Avevo bisogno di trovarmi, mamma", le dico.

"Non ti ho chiesto nulla", mi risponde.

Accidenti, perché è sempre così difficile con lei?

QUEEN - Figlia del ChaosDove le storie prendono vita. Scoprilo ora