-ombre nel sonno-

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"Vieni, tesoro, corri!" disse mia madre, accogliendomi a braccia aperte. Il suo sorriso brillava come il sole, illuminando ogni angolo della piccola stanza dipinta di rosa. La luce del giorno filtrava attraverso la finestra, e i raggi caldi del sole inondavano la camera, avvolgendola in un’aura accogliente e familiare, come se fosse un rifugio sicuro, un luogo in cui nulla di brutto potesse mai accadere.

Senza esitazione, corsi verso di lei, lanciandomi in quell’abbraccio che aspettavo da così tanto tempo. Sentii il suo calore avvolgermi, e per un attimo il mondo sembrò fermarsi. Stringevo mia madre come se temessi che, lasciandola andare, quel momento perfetto potesse svanire nel nulla. La sua pelle profumava di casa, di un ricordo felice che non volevo mai più lasciare andare.

Ma, all'improvviso, qualcosa cambiò. L'abbraccio si sciolse, e lei si allontanò leggermente, fissandomi con occhi che non riconoscevo più. Il suo volto, che prima era raggiante, si fece scuro, teso. Avvicinò il viso al mio in modo improvviso, così tanto che potevo sentire il suo respiro caldo sulle guance. Il suo sguardo, che un attimo prima era colmo d'amore, ora era penetrante, quasi minaccioso, come se stesse cercando di scavare dentro di me. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato nei suoi occhi. Erano pieni di rabbia.

Le sue labbra si mossero lentamente, sussurrando parole che non riuscivo a comprendere. Il suo tono era basso, così rauco che sembrava più un sibilo, e io non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Ma poi, all’improvviso, la sua voce esplose, diventando tagliente come un coltello.

"È tutta colpa tua, Ivy. Sei un errore!" urlò con una furia che non avevo mai visto prima.

La sua voce rimbombava nella stanza, trasformando quel luogo accogliente in una prigione di paura. I miei occhi si riempirono di lacrime e sentii un nodo stringermi la gola. Iniziai a piangere, un pianto disperato, colmo di una sofferenza che non avrei mai immaginato. Ogni singhiozzo sembrava lacerarmi il petto, e il dolore era insopportabile.

Ma il suo volto si contorse ancora di più, la rabbia nei suoi occhi si moltiplicò. Poi tutto cambiò di nuovo. La stanza rosa svanì, e mi ritrovai sott'acqua, con le mani di mia madre che spingevano la mia testa verso il fondo. L’acqua era gelida, e ogni respiro che cercavo di prendere era soffocato da un’ondata di terrore. Lottavo, cercando di liberarmi, ma era come se la forza mi abbandonasse. L’acqua mi entrava nei polmoni, bruciando. Il mio respiro si fece sempre più corto, la vista si annebbiava, e sentii il freddo avvolgermi come una morsa implacabile. Poi, buio.

Mi svegliai di colpo, il cuore che batteva furiosamente nel petto. Il mio corpo era fradicio di sudore, il respiro ancora affannoso come se fossi appena riemersa da quell’acqua gelida. Attorno a me c’erano i medici, il loro viso preoccupato. Sentivo il bip del monitor accanto a me, quel suono incessante che misurava il ritmo del mio cuore impazzito. I loro occhi mi scrutavano con attenzione, come se temessero che potessi svanire da un momento all'altro.

Mi guardai attorno, cercando di distinguere realtà e sogno, ma l’incubo sembrava ancora così vivido, così reale. Ero davvero sveglia? O ero ancora prigioniera di quella giornata senza fine?
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Una volta che i medici si furono allontanati, la stanza sembrò avvolta in un silenzio quasi surreale. Le luci soffuse dell’ospedale rendevano tutto freddo e impersonale, ma accanto a me c'era ancora quella dolce signora. Tina, così la chiamavano, mi stava accanto con uno sguardo pieno di calore e preoccupazione, come se volesse proteggermi da tutti i fantasmi che popolavano il mio mondo interiore.Avevo appena avuto quel terribile incubo, e il mio cuore batteva ancora all'impazzata.

Il sogno era stato così vivido che faticavo a distinguere la paura vissuta nel sogno dalla realtà. Tremavo leggermente, e quando lei mi strinse in un abbraccio, tutto sembrò un po' meno opprimente. Il suo abbraccio era avvolgente, materno, come se volesse cancellare ogni paura con la sua sola presenza.Ma chi era veramente questa donna che mi stava così vicina, proprio in uno dei momenti più difficili della mia vita? Mi aveva salvato, mi stava consolando...

ma non sapevo nulla di lei. Il suo volto, il suo calore, mi erano familiari ormai, ma le domande mi si affollavano nella mente. Chi era? Perché si preoccupava così tanto per me? Da dove proveniva?
E, soprattutto, perché continuava a rimanere al mio fianco?Mi accorsi di non sapere neanche il suo nome.

L'imbarazzo mi si fece strada nel petto, ma dovevo chiederlo. Era la prima volta che prendevo l'iniziativa di parlare, e la mia voce uscì debole e incerta."C-come ti chiami?" balbettai, abbassando lo sguardo mentre sentivo un nodo formarsi nella gola.

Non era facile per me fare domande, non lo era mai stato, ma in quel momento desideravo davvero conoscerla, capirla.Lei sorrise, un sorriso dolce e rassicurante che illuminò il suo viso segnato da una lieve stanchezza. Era un sorriso che trasmetteva un calore autentico, come se fosse felice che le avessi parlato.

"Tina, tesoro... mi chiamo Tina," disse con una voce calma e gentile, posando la mano delicatamente sul mio braccio come per darmi ancora più conforto. "Non vedevo l'ora che me lo chiedessi, sai?" aggiunse, e nei suoi occhi brillò una luce di emozione, come se quel semplice gesto, quella domanda, avesse per lei un significato speciale.Sentii una strana sensazione di calore riempirmi il petto.

Forse non ero così sola come pensavo. Anche se tutto il mondo sembrava essere contro di me, in quel momento c’era lei, Tina, con il suo sorriso dolce e le sue mani che mi stringevano con la delicatezza che solo una madre o una persona davvero affezionata può avere. Non sapevo ancora che ruolo avrebbe giocato nella mia vita, ma una cosa era certa: Tina non era lì per caso.
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Tina era davanti a me, ma non riuscivo a concentrarmi sul suo volto come facevo di solito. Adesso c'era qualcosa di diverso. Le sue sopracciglia erano corrugate, il viso tirato, come se ogni parola che avrebbe detto fosse pesante da pronunciare. Le rughe che comparivano attorno ai suoi occhi e alla bocca sembravano gridare il peso della preoccupazione. Mi fissava, quasi implorando il mio silenzioso consenso prima di rivelare qualcosa di doloroso, qualcosa che anche lei forse avrebbe voluto evitare di dire.

"Tesoro…" La sua voce tremava leggermente, come una foglia sospesa nel vento, incerta su dove cadere.

Un minuto di silenzio seguì, ma per me sembrò un'eternità. Un silenzio pesante, soffocante, che riempiva l'aria con una tensione che potevo quasi toccare.

"Tua mamma…"

Le sue parole si interruppero di nuovo. Era come se non trovasse il coraggio di proseguire, eppure io dentro di me già sapevo cosa stava per dire. Era una consapevolezza amara, cresciuta piano dentro di me, da quel momento in cui mi aveva lasciata lì, sola, nell'auto cocente, senza nemmeno voltarsi indietro. E ora, anche la sua assenza all'ospedale parlava più forte di qualsiasi parola.

Non servivano altre spiegazioni. Il silenzio di Tina diceva già tutto. Ero già preparata al peggio, come se dentro di me avessi costruito un muro di ghiaccio, per proteggermi da ciò che sapevo stava per arrivare.

"Non sappiamo dove sia finita…" Tina finalmente completò la frase, la voce rotta da una stanchezza profonda, "…quindi, per il momento, verrai a casa con me."

Mi aspettavo che le parole mi colpissero come un pugno, che mi schiacciassero sotto il peso della realtà. Ma non sentii nulla. Nessun dolore, nessuna paura. Solo un vuoto freddo. Quella donna, mia madre, non era più nulla per me. L'avevo già persa molto prima che Tina lo dicesse.

Tina sorrise, un sorriso forzato, pieno di compassione. Non era un sorriso di gioia, ma uno di quelli che si fanno per cercare di alleviare il dolore altrui, anche quando non ci riescono. Lo vidi nei suoi occhi: sapeva quanto fosse difficile, quanto fosse ingiusto per me. Ma quel sorriso non riusciva a raggiungere il fondo della mia anima. Era come un raggio di sole in un giorno nuvoloso, troppo debole per scaldarmi.

Lei si avvicinò e mi accarezzò la testa, con un gesto delicato e materno. Poi mi strinse in un abbraccio. Non piansi, non lottai contro l'abbraccio. Ero come una bambola di pezza tra le sue braccia, vuota e immobile, mentre tutto ciò che sentivo dentro era solo un gelo profondo, un senso di abbandono che sembrava troppo vasto per essere compreso.

Quando Tina si alzò per uscire dalla stanza e firmare le carte della mia dimissione, il vuoto si allargò di nuovo. Restai lì, sola, a fissare il soffitto bianco dell’ospedale. Le pareti sembravano chiudersi lentamente su di me, schiacciandomi con il loro silenzio. E in quel silenzio, la mia mente correva, chiedendosi perché la vita fosse così crudele. Perché una bambina di sette anni doveva sopportare così tanto dolore?

Ma non trovai risposte. Solo il silenzio e quel vuoto che mi accompagnavano, inseparabili, ovunque andassi.

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