7. LOVE BET

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Tate

Le ragazze. Dovevo stare alla larga da quegli esseri perfidi dalle unghie lunghe e gli occhi da cerbiatto.

La mia vita non mi permetteva di perdere tempo in smancerie e cose da relazioni. Avevo troppe cose a cui pensare; tra la disintossicazione dall'alcol e la mia famiglia, non sapevo più dove mettere le mani.

Come diceva Ethan: dovevo appendere il cazzo al chiodo. Sembrava facile, detto da uno che non lo conficcava in una ragazza da anni.

Per quelli come me, l'amore non era contemplato, ammesso che esistesse davvero. Non me lo ero mai domandando. Sinceramente, non me ne fregava un cazzo.

I miei genitori non erano stati un bell'esempio. Né per me né per il resto della mia famiglia. Erano degli schizzati che mi avevano trasmesso solo delle schifosissime dipendenze e un mucchio di debiti che dovevo saldare a mie spese.

Da bambino nessuno si era preso cura di me. Erano più i giorni in cui dovevo arrangiarmi con i pochi penny rimasti nel barattolo all'entrata di casa, che quelli in cui mia madre riusciva a farmi una schifosa tazza di cereali prima di andare a scuola.

A soli dieci anni, da solo, avevo dovuto imparare a lavare i miei vestiti, anche ripararmi le scarpe quando si rovinavano e non potevo permettermene un paio nuovo.

Se mia madre era davvero pessima nel suo ruolo, mio padre invece era il peggio del peggio. Nascere nel Bronx non era un buon motivo per giustificarsi, ma quel quartiere aveva fatto a pezzi mio padre che continuava a indebitarsi tra scommesse e bevute lasciate appese al bar all'angolo con la casa dei Perkins.

Quei maledetti non facevano altro che chiamarmi quando lo trovavano a pisciare sulle loro piante il venerdì sera. Avevo per fino registrato il loro numero, giusto per non rispondere più alle loro chiamate del cazzo.

Gli eventi più terrificanti però, non erano legati alle sue risse nei bar o alle botte che incassava per strada dagli strozzini.

L'uragano, l'onda di tempesta che si abbatteva sulla nostra casa, arrivava quando meno ce lo aspettavamo. Quando la sera mi rannicchiavo nel mio letto e guardavo mia sorella gemella girarsi più volte nel suo, dall'altra parte della stanza.

Non sapeva mai cosa aspettarsi. La notte, la porta d'entrata si apriva, mio padre camminava fino al piano di sopra con passi lenti e il nostro respiro si sincronizzava.

Fingevo di dormire. Così faceva anche mia sorella, Billie, ma il suo tremore era così forte, a causa della paura, che il più delle volte non riusciva nemmeno a stare ferma.

Odiavo tutto di quella casa. Per fino l'odore di whisky e sigarette in cui ero nato non sembrava più appartenermi, ma non c'era niente di più orribile del guardare l'uomo che avrebbe dovuto proteggerci, afferrare sua figlia per i capelli e scaricare su di lei ogni suo problema.

Da piccolo non capivo. Non le vedevo certe cose o proprio non riuscivo a metabolizzarle nel mio cervello, ma crescendo, più in fretta degli altri, avevo iniziato a comprendere il perché fosse così.

Billie era l'esatta copia di mia madre, ovvero la puttana che gli preparava il caffè ogni mattina. Colei che lui stesso obbligava a prostituirsi solo per guadagnare altri soldi per le sue birre.

Mi sentivo impotente il più delle volte in cui le serate tempestose si abbattevano su mia sorella. Sembrava un circolo vizioso al quale non avrei mai potuto mettere fine.

Saliva le scale, apriva la porta e io mi beccavo subito uno schiaffo per aver tentato di ostacolare la sua ennesima violenza su di lei.

Billie non era altro che la sua valvola di sfogo. Un'inutile bambina, futura donna, che avrebbe solo svuotato le sue stupide tasche già bucate.

FALLENDove le storie prendono vita. Scoprilo ora