Capitolo 1

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Le prime luci dell’alba entravano dalla finestra, e la musica della città più famosa di tutti i tempi si diffondeva nelle case, come la migliore sveglia di sempre: New York, conosciuta anche come la Grande Mela. La voce severa di mia madre percorse tutto il corridoio fino alla mia stanza: «Lidya, svegliati, forza! Non vorrai fare di nuovo tardi!» Sempre la stessa canzone. Mi alzo con calma e mi vesto: metto un top nero, dei jeans neri strappati e una giacca di pelle sopra. Raccolgo i miei lunghi capelli neri con ciocche rosse in una coda alta, lasciando cadere in avanti due ciuffi. Infilo le scarpe Adidas nere e mi dirigo verso la cucina. Entrai e la prima cosa che vidi fu mia madre che cucinava. Pensavo stesse per piovere; non era da lei mettersi ai fornelli. «Penso che pioverà. Da quando cucini, se non ti piace?» lei si gira e mi guarda con un sorriso: «Oggi avevo voglia di mettermi all’opera». Scioccata dal suo comportamento improvviso, mangio velocemente e vado verso la porta, pronta a scappare da ciò che avevo visto. Vedo papà che si prepara per andare a lavoro: «Papà, io sto andando». Mentre si sistema le scarpe, mi rivolge un sorriso: «Buona giornata a te, tesoro. Si sempre la prima». Gli sorrido: «Certo, papà, come sempre».

Attraverso la soglia della porta di casa e, nel chiudere, sento il rumore di una macchina con la radio che riproduce le canzoni di Taylor Swift a tutto volume. «Sali su, ragazza, forza!» Quella voce energica e allegra che ti fa sorridere non poteva appartenere che a una persona: era Lexie, la mia migliore amica. Aveva sempre un sorriso solare quando veniva a prendermi, e la sua energia contagiava anche me. Mi dirigo verso la sua macchina, una Fiat Tipo Hatchback Cross nera, un regalo di Natale dei suoi genitori. Io, invece, volevo comprarmi un’auto tutta mia.


Salgo in macchina e partiamo. «Il tuo modo di iniziare la giornata non cambierà mai!» le dico ridendo. «Siamo a New York, ragazza. C’è sempre musica la mattina e tu, mia cara, lo sai bene». Mi guarda con l’espressione di chi sa cosa ho combinato la sera precedente. Ero andata nella discoteca più famosa di New York, avevo bevuto un bicchiere e poi, insieme a Lexie, avevamo cantato a squarciagola fino a perdere tutta l’energia. Alla fine della serata, nessuno si reggeva in piedi e abbiamo dovuto chiamare un taxi. Lexie aveva esagerato con l’alcol e continuava a vomitare accanto a un cestino, mentre io ero ancora un po’ lucida, avendo bevuto solo due bicchieri. 
Mentre la aiutavo, arrivò il taxi e, una volta arrivate a casa, non potevamo fare a meno di ridere per la serata assurda che avevamo passato. Dovevo lavarmi la faccia, bere tanta acqua e andare a dormire se volevo reggermi in piedi. Sapevo bene l’effetto che mi faceva la musica, perché quando mi svegliai sentivo ancora le canzoni nella testa. «Non smettevi di vomitare tutta la sera!» scoppiammo entrambe a ridere. «Ok, hai vinto, ci ho messo anche il mio!» disse continuando a ridere mentre ci dirigevamo all’università.

Tra una chiacchierata e l’altra, arriviamo all’ingresso della Golden Academy, l’università più famosa di New York. Solo in pochi se la potevano permettere, e tutti cercavano di farne parte. Io ero riuscita a entrare grazie a mio padre, che aveva investito molti fondi per renderla la scuola più prestigiosa della città. «Ogni giorno è sempre la stessa storia», mi diressi stanca morta per la serata precedente. «La prima della classe non sarà più la prima se non è sveglia, è solo la stanchezza della discoteca», disse scendendo dalla macchina e rivolgendomi un sorriso di supporto. Ricambio il suo sorriso mentre ci dirigiamo all’entrata. «Mi serviranno almeno due caffè per svegliarmi, altrimenti non seguirò nulla delle lezioni». Camminiamo fino alla nostra aula, con i banchi disposti ad arco. Ci sediamo al quinto arco e cominciamo a sistemare le nostre cose. Ogni mattina c’era un gran caos in aula: persone che ballavano, altri che cantavano e alcuni che chiacchieravano di quello che avevano fatto il giorno prima. In quel momento entra il professore: «D’accordo, ragazzi, smettetela di parlare, è ora di fare lezione!» Le risate cessarono, così come le chiacchiere.

La lezione fu lunga e pesante; la gente sbadigliava, probabilmente ancora con i postumi della sbornia. Lexie non faceva altro che guardare un ragazzo davanti a noi, Liam, molto popolare nella nostra università. Era alto e biondo, con due occhi verdi smeraldo, indossava una maglietta nera, jeans blu e scarpe nere. Era sempre attaccato al telefono e, nonostante non seguisse nemmeno un briciolo delle lezioni, in qualche modo superava ogni verifica senza problemi. «È una meraviglia della natura. L’unico problema è che nessuno sa se è single oppure no», mormorò sottovoce mentre lo guardava con la testa appoggiata sul banco, con un’espressione innamorata.
«Sei sempre la solita. Quando ti deciderai a parlargli? Di questo passo te lo farai scappare», le dissi, dandole un colpetto sul braccio scherzando. Lei mi guardò con una faccia di chi non voleva certo farselo scappare. «Pensi che io sia così stupida da farmelo scappare?» disse guardandomi. Faccio finta di pensare: «Forse un po’, visto che non ti sei ancora dichiarata». Lei mi colpì e scoppiammo a ridere così forte che tutta la classe ci sentì. «Signorina Miller, signorina Darsha, volete condividere con la classe cosa vi fa tanto ridere?» ci chiese il professore con uno sguardo serio. Cerchiamo di riprendere il controllo, trattenendo le risate e tornando ai libri.

La giornata trascorse così velocemente che non me ne accorsi nemmeno. Ero stanca ed esausta e non vedevo l’ora di tornare a casa e bere una bella cioccolata calda sul divano, davanti alla TV, per rivedere per la ventesima volta The Vampire Diaries. Dovetti tornare a casa a piedi, dato che Lexie dovette andare via prima per una visita dal dottore. Camminai ascoltando le canzoni dei CNCO. Mentre camminavo, vidi una volante della polizia che pattugliava le strade e intravidi una figura alta con capelli neri e muscoloso. Non so per quanto tempo lo guardai, ma sicuramente molto, perché non notai le sei chiamate perse di mio padre. Quando ritornai in me, ricominciai a camminare e provai a richiamarlo, ma scattò subito la segreteria. Rimasi stupita, perché di solito rispondeva subito, ma non ci diedi peso e continuai a camminare verso casa.

Arrivai a casa, inserii la chiave nella serratura, entrai e appoggiai lo zaino all’entrata. Mi diressi verso la stanza dei miei per incontrare papà e chiedergli perché mi avesse chiamata. «Papà, sono a casa. Mi avevi chiamato?» dissi aprendo la porta della stanza, ma quello che vidi non era quello che mi aspettavo. «Papà…» Vidi mio padre che giaceva morto nel letto. Le gambe mi tremavano, così come la voce, e le lacrime iniziarono a scendere dai miei occhi alla vista del sangue di mio padre che sporcava le lenzuola. Il cuore batteva così forte che potevo sentirlo esplodere nel petto. «PAPÀ!!» fu tutto ciò che riuscì a dire urlando, ferma lì sulla porta, tremando come una foglia, con il fiato corto; ero paralizzata dal terrore.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 21 ⏰

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