Sequel, Parte 8.

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Quando ti chiedono 'hai paura della morte?', è facile rispondere di no. È facile dire che no, che non ci pensi, che la vita è troppo piena per fermarsi a riflettere su ciò che potrebbe venire dopo. Anche io lo dicevo, convinta che la mia vita fosse un eterno sprint, che ogni giorno fosse solo un'altra sfida da superare, un'altra vittoria da conquistare. La morte era sempre qualcosa di lontano, quasi irreale.

Ma ora, ora che la sento vicina, capisco quanto fosse una risposta vuota. Perché sì, adesso ho paura. Non è la paura di scomparire, ma di perdere tutto ciò che ho vissuto, tutto ciò che amo. Ho paura di lasciare dietro di me persone, sogni, parole non dette e gesti incompiuti. Ho paura di non aver ringraziato abbastanza chi ha creduto in me, di non aver amato con tutta la forza che avrei voluto. Di non aver vissuto ogni singolo istante per quello che valeva.

Se c’è una cosa che impari quando ti trovi al confine, è che non importa quanto hai ottenuto, ma chi ti ha accompagnato lungo la strada. E adesso tutto quello che vorrei è avere un altro istante, un altro respiro, un altro momento per poter dire loro che li amo, per dimostrare che ogni attimo è stato importante, che ogni sorriso e ogni abbraccio ha significato il mondo per me.

Quindi sì, ora so cosa significa avere paura della morte. Ma non perché temo di lasciare la vita… temo di lasciare tutto ciò che mi ha resa viva.

Mentre questo pensiero si radica nel profondo, sento qualcosa cambiare. È un fremito, una scossa tenue, quasi impercettibile, come un soffio di vita che si fa strada lentamente. È difficile descriverlo: non è il battito accelerato di un cuore in corsa, né il respiro affannoso della paura. È un calore che si diffonde, come se un filo invisibile mi stesse tirando indietro, verso la luce, verso la realtà.
"Aspettate," il dottore interrompe, alzando una mano con il fiatone, lo sguardo fisso su di me. "I polmoni… ha un polmone collassato," dice, togliendosi rapidamente lo stetoscopio mentre si guarda intorno, cercando tra il personale l’attrezzatura necessaria. Per un attimo, ogni cosa sembra bloccarsi. Tutti trattengono il fiato, come se il mio prossimo respiro fosse l’unica cosa che conta.

Il dottore, con il volto segnato dalla tensione, si fa da parte per coordinare la procedura. "Preparate il drenaggio toracico," ordina con voce ferma ma frettolosa, indicando al team come posizionarmi per liberare il polmone dalla pressione che lo ha schiacciato. La squadra si muove velocemente: un’infermiera prepara il catetere toracico, un’altra monitora i miei segni vitali, e un giovane medico si avvicina con l’ago, pronto a intervenire.

Mi sembra di galleggiare su un confine, come se stessi osservando da fuori. Sento una voce lontana, che si avvicina e si allontana, come un’eco. “Non mollare, Isabel. Devi farcela,” sembra sussurrarmi qualcuno, e vorrei rispondere, dire che sto cercando di farcela, che non voglio arrendermi, ma sono bloccata. Non posso muovere le labbra, non posso rispondere. Eppure, in qualche modo, sento ogni parola come un’ancora a cui mi aggrappo disperatamente.

I medici procedono con la massima concentrazione. Un dottore tiene ferma la mia spalla, mentre un altro mi pratica un’incisione sul lato del torace e inserisce il tubo drenante per far uscire l’aria intrappolata. Percepisco una pressione profonda, e un dolore sordo che riemerge, quasi come un richiamo alla vita, come se il mio stesso corpo cercasse di ricordarmi di lottare.

Dopo qualche istante, che sembra un’eternità, il bip del monitor si regolarizza, i miei battiti si stabilizzano. E poi finalmente, un respiro. Debole, incerto, ma reale. L’aria ritorna nei polmoni, e lentamente sento il mio petto sollevarsi. La mia coscienza si aggrappa a quel respiro, si avvicina alla superficie.

Il dottore si stacca da me, i suoi occhi lucidi di sollievo, e la squadra medica lascia andare un sospiro collettivo. “Stabile,” annuncia, con un sorriso tirato, “Isabel è stabile.”

Non riesco a smettere di amarti - Dusan VlahovicDove le storie prendono vita. Scoprilo ora