Capitolo 5 - La Giustizia degli Indegni

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Una settimana era trascorsa come in un sogno sospeso, dove ogni momento pareva scivolare senza lasciare traccia, eppure, sotto la superficie, un'inquietudine costante pulsava, appena percepibile. Yue aveva fatto del suo meglio per tornare alla routine. Il lavoro con i bambini dell'asilo era forse l'unico aspetto in cui riusciva ancora a trovare una parvenza di pace; piccoli visi sorridenti, manine che si tendevano fiduciose verso di lei, tutto così normale, quasi a ricordarle che esisteva una vita ancora sua.

Eppure, quel senso di osservazione, di occhi non visibili ma presenti, si faceva sempre più pressante. A volte le sembrava che il suo nome riecheggiasse nei corridoi vuoti, altre volte si scopriva a girarsi all'improvviso, come se qualcuno fosse proprio dietro di lei. Ma alla fine di ogni giornata, sola nel suo appartamento, Yue si sforzava di convincersi che era solo la paura a farle brutti scherzi.

Finché, un giorno, tornando a casa dopo il lavoro, l'aria in strada sembrava più cupa, più fredda del solito. E appena raggiunse la porta di casa, qualcosa di oscuro e sinistro le serrò lo stomaco: una lettera greca, Ω, troneggiava sopra il legno della sua porta, in vernice nera, fresca e minacciosa.

Da quel giorno, Yue iniziò a notare cambiamenti sottili ma inquietanti. I suoi vicini, che prima le rivolgevano sempre un sorriso o almeno un cenno, ora la evitavano, abbassando lo sguardo o girando l'angolo appena la vedevano. Le parole mormorate a mezza voce, i bisbigli che cessavano appena passava accanto, divennero una costante. Si sentiva come un peso, una presenza sgradita, ed era come se quella lettera tracciata sulla sua porta avesse segnato un confine invisibile attorno a lei, un avvertimento che nessuno osava sfidare.

In pochi giorni, le voci avevano fatto il giro di tutto il quartiere, e infine erano giunte anche al suo lavoro. La chiamata della preside la colse impreparata, una richiesta improvvisa di parlarle in privato. Yue si sedette di fronte alla donna, sentendo la gola serrarsi.

La preside la guardava con dispiacere. "Yue," iniziò, quasi come se ogni parola le pesasse. "Sai quanto teniamo a te qui. Ma... ci sono state delle lamentele. Alcuni genitori si sono detti preoccupati e, come puoi immaginare, ho il dovere di tutelare gli altri insegnanti e la scuola."

Yue non riuscì a replicare subito. La notizia la colpì come un colpo al petto, togliendole il respiro. Il suo lavoro, quel rifugio insperato e forzato ma che era divenuto la sua unica stabilità, le stava sfuggendo dalle mani. I visi dei suoi alunni le balenavano davanti agli occhi: piccoli, inconsapevoli, ignari del motivo per cui non l'avrebbero più vista.

"Capisco," riuscì a dire infine, sebbene la sua voce fosse quasi un sussurro. La preside la guardò con sincera pena, ma Yue sentì la frattura aprirsi ancora di più dentro di lei. Sarebbe andata via senza una spiegazione, senza un saluto, senza una chiusura per sé o per quei bambini che, inaspettatamente, avevano iniziato a significare qualcosa.

Quando tornò al suo appartamento, sentiva di non appartenere più neanche lì. La sua padrona di casa, che un tempo la salutava cordialmente, ora a malapena le rivolgeva la parola, e quando lo faceva, ogni frase era carica di allusioni. "Una giovane donna sola in questi tempi," diceva, scuotendo la testa, "avrebbe bisogno di un posto dove nessuno venga a creare... problemi."

Yue percepiva il disprezzo sotto ogni parola, il messaggio nemmeno troppo velato: non era più la benvenuta.

Poi, una notte, mentre giaceva a letto con il respiro trattenuto e la mente in un turbinio di pensieri, udì qualcosa. Uno scricchiolio, il suono soffocato di qualcuno che si muoveva fuori dalla sua porta. L'istinto le diceva che non era uno dei vicini; chiunque fosse, si muoveva troppo silenziosamente, come se cercasse di non farsi scoprire. Sentì un tonfo appena percettibile, e poi un tentativo di girare la maniglia, come se qualcuno stesse cercando di entrare.

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