Se mi chiedessero di fare l'esempio di un luogo desolante non esiterei un secondo a rispondere "il mio ufficio". È buio, isolato e trascurato: la metafora incarnata di come si sta per alcuni periodi più o meno lunghi durante il dottorato. Se uno guarda nei cassetti o fruga nell'armadio trova oggetti che fanno pensare che chi stava lì prima di lui sia fuggito all'improvviso da qualche guerra o cataclisma. Un elenco lontanissimo dall'essere esaustivo: una bambola inquietante nascosta in una tazza, una bottiglia di amaro, una confezione di tè scaduta pochi giorni dopo il mio inizio del dottorato, tazzine sporche, appunti di corsi universitari accaduti vent'anni prima. Se non avessi visto sparire tutti i miei vecchi compagni di ufficio in un modo molto simile, con le todo list scritte sui post-it appiccicati ai monitor spenti (chissà se le hanno fatte quelle cose alla fine), penserei di essere in un set post-apocalittico.
E invece è semplicemente quello che succede a tutti i posti brutti: maltrattati e poi lasciati soli. Anch'io ho contribuito. Per esempio, non mi sono mai preoccupato di guardare dentro l'armadio prima che qualcuno mi dicesse che lì dentro c'era del liquore e altra roba stramba. Il fatto è che a me la bruttezza non dà fastidio se resta chiusa fuori, se non interferisce con il binario del da farsi. Pensavo fosse un pregio, ho scoperto che è un problema.
Qualche settimana fa ho avuto l'opportunità di cambiare ufficio per trasferirmi in un posto molto più bello, decisamente più luminoso e pieno di gente. Non ci sono andato. Forse mi sono affezionato a questo posto dove sto oppure non mi sembrava giusto lasciarlo come l'ho trovato. Probabilmente voglio soltanto provare qualcosa di diverso rispetto a quando vado a sbattere contro i muri delle cose che non cambiano: non scappare, non lasciarmi dietro porte chiuse e un nuovo passato pieno di macerie.
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Sedici
Randomnon un progetto, né un format ma un esercizio: una manciata di parole, tutti i 16 del mese