Il campionato

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Difendevamo i colori dell’ Intero, una piccola frazione nerazzura.
Poche anime, ma tanto tifo.
Giocavamo sempre un uovo in meno, che tanto la frittata era sempre fratta. Ci avevano fatto a pezzettini già da un pezzo, anche quella volta!
Difatti, perdemmo anche l’ ultima di partita, capitolammo sia di 5 lunghezze che di tre larghezze.

Eravamo una squadra senza identità né radici.
Detto tra le righe, una squallida squadretta.
Ci muovevamo compasso lento e compassati:
che compassione,
vederci scendere  in campo!
Era come se stessimo
andando al patibolo,
quasi un martirio predestinato.

Non avevamo schemi e malgrado fossimo fermi sulle gambe,   
eravamo sì dei blocchi, ma di cemento. Non avevamo idee, né ideali, né tesi,
né pratica, né teoria e manco  teoremi.

Non mantenevamo le distanze.
Non prendevamo mai le misure. Andavamo a spanne e presto in panne, in quanto non avevamo un vero centro, un baricentro e neanche un centrocampo;
non vedevamo mai la sfera, forse perché avevamo il fiato e il raggio corto.
Sembrava magica come una palla di cristallo,
volava sempre verso la nostra porta.
Ce l’ avevano sempre gli altri,
per noi la sfera era un miraggio
al quadrato.  

Non avevamo le basi, non eravamo all'altezza e si sa che senza  base per altezza non vai da nessuna parte perché il risultato finale è sempre un'area di rigore intasata 
di avversari e di palloni da raccogliere
in fondo al sacco.

La nostra linea  difensiva
era una linea spezzata
quasi curva sulle ginocchia.

Ricordo che giocavamo a rombo,  
ma non facevamo mai quadrato.
Non eravamo abbastanza fluidi e con quella bassa  densità di gioco,
era difficile fare volume attorno alla sfera e, dunque,
senza pressing né pressione,
si sa, è  davvero dura toglierla dai piedi dell’  avversario:
cala la tensione, la corrente, la concentrazione.
Insomma calano tutte le grandezze fisiche e derivate e, a noi, calavamo sempre le mutande.

Riconquistare la palla era dunque
un’  impresa impossibile, un vero problema, ma senza alcun dato,
dato che non sapevamo né correre né giocare.
La nostra area di rigore sembrava
la superficie terrestre:
non sembravano infatti undici, parevano  milioni e ci accerchiavano
da tutte le parti.
Pareva un accampamento:
noi tiravamo a campare, loro tiravano come pazzi.
Un tiro dietro l’ altro. Un tiro al bersaglio e uno al poligono.
Sparavano da tutti i lati.
Un tiro ciascuno ed alla fine segnavano tutti, tiravano di tutto persino
dagli spalti, soprattutto uova fresche, frutta e verdura.

E il rettangolo di gioco si trasformava presto nel triangolo della morte, la nostra, tant’è  che scendevamo in campo già in bermuda, perché annegavamo sotto i colpi delle loro parabole  e il risultato era una eca-tombola e ogni pallottola  faceva centro e presto cinquina. Finivamo così
dalla casella alla brace
come uova al tegamino;
ogni partita aveva l’ esito scontato:
l’ unica incognita era quanti gol avremmo preso, ma i nostri avversari difficilmente facevano sconti e alla fine il saldo in passivo era sempre molto pesante.

L’ unico punto che strappammo, ricordo, che fu quello di penalizzazione, datoci per la manifesta inferiorità, a fine campionato.
Chiudemmo la classifica con un mesto -1 e fu, a nostro modo,
come una piccola vittoria,
perché ci permise di scrollarci di dosso quel maledetto zero cosmico e assoluto che eravamo
quando scendevamo  in campo
con un uovo in meno.

Un uovo in menoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora