Stavo seduta su quell'orribile panca, in una stretta e ovattata sala d'attesa, ormai da più o meno tre ore. Fissavo il vuoto, come si fa in queste situazioni, quando l'unica cosa che puoi riuscire a fare è pregare il Dio di cui tutti parlano e a cui, io, non avevo mai dato troppa importanza. Non ricordavo nemmeno come fossi arrivata lì, di preciso. Avevo corso in preda alle lacrime , dopo essere letteralmente scappata da casa di Jamie, il quale aveva capito tutto da un solo sguardo e aveva cercato di fermare Hendrik, visibilmente apprensivo nei miei confronti.
Come era possibile che non potessi avere nemmeno un attimo di pace, in questa vita?
Mia madre aveva riattaccato subito dopo avermi riferito la notizia. Si era allontanata dall'ospedale prima del mio arrivo e non era più tornata. Guardai l'orologio, vedendo scorrere il tempo secondo dopo secondo, restando completamente inerme. L'una del mattino.
Era il 29 Febbraio quando a mio zio venne diagnosticata una fibrosi polmonare idiopatica. O almeno, così credevo.
Un'infermiera mi spiegò le origini rare di questa malattia, la quale colpisce solitamente gli anziani e riempie i polmoni di tessuto fibroso, impedendo al paziente di respirare. Non vi era una cura, a quanto pareva, ma solo un processo di rallentamento. Ricordo di aver cominciato a tremare e a fissare quella donna in preda al panico. Non piangevo mai in pubblico e non intendevo farlo in quel momento, ma non ero forte. Non potevo nemmeno lontanamente illudermi di esserlo.
Mi pregò più volte di tornare a casa, in attesa di notizie, come avevano fatto i miei. Ma come potevo? Ero sul punto di perdere la mia unica fonte di luce in mezzo a quel pozzo oscuro che era la mia vita. Non avrei mai potuto. Perfino mio padre, che era suo fratello, se ne era letteralmente disinteressato. Soltanto pura strafottenza.
Mia madre, poi, che mi aveva chiamato perché obbligata e, anche in quel momento, non aveva perso occasione per sgridarmi, senza mostrare un filo di dolore per ciò che era appena accaduto, in quella voce fredda e dura come marmo. E dico marmo, perché quello può solo rompersi e non essere sciolto, a differenza del ghiaccio.
Mi alzai dalla panca quando, verso le tre del mattino, spostarono le tendine che coprivano la piccola cornice di vetro della porta della sala operatoria, dalla quale, adesso, potevo vedere mio zio. Stava lì, con gli occhi chiusi e dormiva. Era più vecchio di quanto dimostrasse, anche se vecchio non era decisamente la parola più appropriata. Era attraente, alto e il suo fisico non era per niente male. Aveva la barba scura molto curata, dello stesso colore dei suoi corti capelli riccioluti, molto contrastanti con la sua pelle pallida, che in quel momento sembrava addirittura giallastra. Era costantemente alla ricerca dell'amore, ma a quanto pareva non aveva mai bussato alla sua porta, non ancora. Cominciava a credere che non esistesse. Avevo sempre pensato che forse era lui a dover bussare alla porta di qualcun altro. Ripensai a quello che aveva detto Hendrik, di come l'amore si potesse comprare. Di come io stessi per farmi comprare. In realtà la storia era andata diversamente. Pier era un ragazzo tre mesi più grande di me, lo avevo conosciuto un anno prima e mi era piaciuto da subito. Ci eravamo messi insieme solo qualche settimana prima che facessi diciassette anni. Era un ragazzo carino, dai capelli neri e gli occhi altrettanto scuri. Era leggermente più alto di me, solo di qualche centimetro. Odiava la palestra e lo sport, ma amava seguirlo. Aveva quel modo di fare divertente, simpatico. Ed era ricco. A me non importava, ma ai miei... Poteva solo fare piacere. Si vestiva sempre di marca, cosa che purtroppo dovevo sopportare, ma per il resto eravamo uguali. In ogni caso andò avanti per un po', poi mi tradì. Fu lui a dirmelo, spontaneamente. Purtroppo credevo di amarlo. Mi fece talmente male da non riuscire a perdonarlo, perché se mi avesse amato a sua volta non sarebbe successo. In ogni caso, aveva provato a trovare questa maschera di cui Hendrik parlava. Una maschera artigianale che avrei dovuto mettere per una festa a casa sua, se avessi deciso di perdonarlo. Ricordo ancora la faccia di tutti quando gli lanciai la confezione italiana ancora sigillata, dopo che ebbe insistito tante di quelle volte. Non ero un carattere semplice e non ero mai stata tanto fortunata in queste cose. Ma una cosa era certa: Hendrik non aveva capito niente.
Tornando a io zio, invece, in quanto a comportamenti, avrebbe potuto essere migliore di entrambi i miei genitori fusi insieme. Era il migliore amico perfetto, il padre perfetto, l'uomo perfetto, nonostante i suoi difetti. Ma pur sempre un uomo e, come tale, non era invulnerabile.
Quando finalmente, alle luci dell'alba, il dottore decise, evidentemente, di avermi torturato abbastanza per i suoi gusti, e mi permise di entrare, lui si era appena svegliato. Lo chiamavo per nome, dato la differenza d'età.
-"Ehi Dylan"-
-"Ehi, che ore sono?"- Disse, stordito dal sonno.
-"Quasi le sei."- Risposi quieta.
-"Cosa è successo?"- A quella domanda non seppi rispondere in modo dettagliato, i miei mi avevano detto ben poco.
-"Okay..."-Inspirai profondamente -"Hai... Una fibrosi polmonare, idiopatica. Sì, cioè, è una rara malattia che..."- Parlavo molto velocemente, in preda al nervosismo. Ero seduta su una sedia, accanto al suo letto.
-"Ro'..."-
-"Sì, insomma... È difficile da dire ma sono così contenta che tu sia vivo. In sostanza mi hanno spiegato e..."-
-"Liine..."-
-"Uff, è che mi dispiace tanto e sono nervosa e ti chiedo scusa perchè..."- Continuavo a parlare ripetutamente, sembrava quasi che unissi la fine di una parola con l'inizio di quella successiva.
-"Roheline, ascoltami"- Mi bloccò di colpo. Lo guardai confusa, i suoi occhi castani erano tanto tristi quanto esasperati, anche se fermi e decisi: sicuri. -"Io lo sapevo già."-
-"Cosa?"- Non riuscivo a capire.
-"Io lo sapevo."- Mi rivolse un flebile sorriso dall'aria rassicurante. Non funzionava.
-"Sapevi? Sapevi... Cosa? Ma di che parli?"- Ci volle qualche istante prima che assimilai il colpo.
-"Sapevo tutto. Tutto. Da due mesi."- Lo guardai incredula e sembrò agitarsi. -"Andiamo, non guardarmi così...Come potevo dirtelo? Guardati, hai pianto tutta la notte e non hai chiuso occhio. Come pensi che avrei trovato il coraggio, conoscendoti..."-
-"Era meglio che venissi a sapere che eri morto, vero? E che la causa non era un infarto, improvviso, assolutamente no, ma una malattia di cui tutti erano a conoscenza tranne me! Avrei potuto perderti, senza abbracciarti, senza dirti quanto ti voglio bene, per l'ultima volta. Ed era questo che volevi? Come pensi che mi sarei sentita?!"- Ero furiosa, potevo capire l'espressione che stavo assumendo notando quella che adesso aveva lui, per riflesso. Ero ferita e lui preoccupato, si proibì di guardarmi ancora, abbassando lo sguardo sulle sue mani, per poi spostarlo sulle mie.
-"Lo so, ho sbagliato."- Mi alzai di scattò, avevo bisogno di sgranchirmi le gambe, quando qualcosa cadde dalla tasca posteriore dei miei jeans, facendo un frastuono metallico, appena toccò il pavimento. Sbuffai, e mi voltai, chinandomi per raccogliere l'oggetto, ormai aperto a causa della caduta. Era lo stesso oggetto che avrei dovuto restituire a Jamie, la sera prima. Sistemai dentro tutte le foto sparse sul parquet color noce. Quando mi alzai Dylan mi stava fissando perplesso.
-"Cosa c'è?"-
-"Come l'hai avuta?"-
-"Mh..."-
-"Roheline, io quella scatola l'ho già vista."-*Autore*
TAN TAN TAAAAN.
Fatemi sapere come sempre cosa ne pensate e ringrazio tutti coloro che si impegnano a leggere e ad apprezzare ciò che scrivo.
A presto!
Xoxo
#Roowolf
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Non sono l'eccezione dei libri. {In Correzione}
AcakRoheline Petrov, 17 anni. Vive a Tallinn, capitale dell'Estonia, sotto la responsabilità di una madre dittatoriale e di un padre perennemente assente. In un gelido pomeriggio d'inverno, però, il ritrovamento di qualcosa potrà cambiarle la vita. " L...