Capitolo 30
Stuart Anderson aprì gli occhi e fu trafitto da una lama arroventata proprio nel centro del cranio. Riabbassò le palpebre, respirò lentamente e a fondo e, con uno sforzo immenso, si alzò. Colpì con un ginocchio il volante, imprecò e scivolò sul sedile del passeggero.
Riaprì gli occhi, con cautela. Il mal di testa era sordo e insistente, devastante. Aveva lo stomaco in subbuglio e tutto il corpo gli doleva, non tanto per la posizione scomoda della notte – oramai vi era abituato – quanto per la palpabile tensione nervosa. Aveva avuto incubi assurdi e spaventosi, ma per fortuna non ne ricordava neanche uno; sapeva, però, che erano stati terrificanti. La sbronza della sera precedente l'aveva distrutto.
Guardò l'orologio: quasi le dieci di mattina. Non aveva voglia di fare colazione. In realtà non aveva voglia di niente, soltanto di tornare a dormire e, magari, ascoltare un po' di musica. Afferrò il giubbotto, il suo vecchio e malandato zaino e scese dall'auto.
Il cielo era di un uniforme grigio perla, un colore solido e triste. Scendeva un nevischio simile a pioggia o una pioggia simile a neve – Stu non riuscì a definirlo – e il vento era debole e freddo. Per strada non c'era nessuno e molte delle finestre del complesso residenziale di Blake Avenue erano rischiarate da nastri luccicanti o colorati. C'erano serie di luminarie ai balconi e quando Stu si avventurò nel cuore di Brownsville vide che tutto il quartiere, nonostante la povertà, era addobbato e scintillante di luci bianche e variopinte. In qualche giardino condominiale, vide alberi di Natale adorni, renne, finti pupazzi di neve e Babbi Natale ancorati a terra col loro viso rubicondo e il sorriso bonario.
Stuart notò solo in quel momento che era arrivato Natale. Durante l'ultimo mese non aveva posto attenzione ai preparativi né aveva visto il palese– a volte pacchiano – spirito natalizio che incombeva sulla città. Non ci aveva fatto caso o forse non gli interessava o magari non voleva che arrivasse davvero quel giorno. Aveva sempre avuto un rifiuto categorico per il Natale, ma trascorrerlo da solo era la cosa più squallida e triste che potesse concepire.
Percorrendo Osborn Street si fermò. Al primo piano di una lunga serie di costruzioni popolari, tutte identiche, v'era una finestra dalle tende aperte. Nel soggiorno – modesto a quanto riusciva a vedere Stu dabbasso – v'erano tre bambini di colore che ridevano e gridavano felici. La più piccola sembrava non superare i due anni e mezzo, la più grande sfiorava i sei. Gli adulti ridevano con loro e dall'abitazione sgorgava l'eco di musiche natalizie.
Stuart provò una straziante fitta d'invidia, un sentimento che non gli era mai appartenuto prima. Avrebbe voluto fare un balzo all'indietro nel tempo, non aver mai lasciato né New Houlka né la squallida contea di Chickasaw, avrebbe voluto trascorrere quella giornata coi suoi genitori, scambiare qualche regalo banale, assieme a due chiacchiere e una bottiglia di vino acquistata per l'occasione. Manon poteva né voleva rendere vana quella sorta di sacrificio cui si era immolato – i pasti saltati, le notti trascorse in auto, il freddo sedimentato nelle ossa – e inoltre non avrebbe avuto il coraggio di ammettere, davanti a suo padre, la sconfitta che aveva subìto.
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Figlio dell'amore e dell'odio
General FictionStuart Anderson vive a New Houlka, una piccola città del Mississippi. È un ragazzo solitario, che soffre di depressione a causa del bullismo subito durante il periodo scolastico. Nonostante tutto, cerca comunque di occupare il giusto posto nella so...