HIGH TREASON

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Hanna

Erano passati due giorni dalla morte di mio figlio, e il mondo sembrava essersi spento insieme a lui. Non c’era più luce, né calore. Ogni respiro che facevo era come un pugnale che mi trafiggeva il petto. Mi sentivo vuota, persa, come se una parte di me fosse stata strappata via per sempre.

Tenevo in braccio la mia bambina, Lidia, l’unica cosa che mi impediva di crollare del tutto. La sua pelle era morbida, calda, e il suo respiro leggero contro il mio collo mi dava un minimo di conforto, un’ancora a cui aggrapparmi mentre tutto il resto mi scivolava tra le dita. Guardavo fuori dalla finestra. La pioggia cadeva incessante, un velo grigio che copriva il mondo. L’inverno stava arrivando, dopo tutto, portando con sé un freddo che non era solo esterno, ma che sentivo dentro le ossa, dentro l’anima.

Baciai delicatamente la testa di Lidia, inspirando il suo profumo dolce, un ricordo che volevo imprimere nella mia memoria. Poi, con una lentezza quasi rituale, la posai nella sua culla. Si agitò per un attimo, ma poi si calmò, il suo sonno innocente un contrasto straziante con il caos dentro di me.

Francesca era rimasta al palazzo. Mi chiedevo cosa pensasse, se sentisse il peso di questa perdita come lo sentivo io. Ma non avevo la forza di chiederglielo, di affrontarla. Francesco… lui non mi parlava più di tanto. Le sue parole, quando arrivavano, erano brevi, spezzate, come se anche lui fosse intrappolato in un dolore che non riusciva a esprimere. Lo vedevo nei suoi occhi, nei suoi gesti, ma era distante, irraggiungibile.

Mi chiedevo se fosse colpa mia. Se avessi fatto qualcosa di sbagliato, se avessi potuto fare di più. La colpa mi divorava, un veleno che si diffondeva lentamente, insidiosamente.

Mi girai lentamente, il cuore stretto da un dolore sordo che non mi lasciava tregua. La baia era lì, in piedi accanto alla culla di Lidia, la sua figura un'ombra familiare in una stanza che sembrava sempre più vuota. Francesco l'aveva voluta. Lontana da me, lontana dal mio tocco, dai miei abbracci. Una decisione che non avevo potuto contrastare, nonostante ogni fibra del mio essere urlasse contro quell'ingiustizia.

Lei mi guardò e sorrise. Un sorriso gentile, compassionevole, come se potesse comprendere il peso che portavo sulle spalle. Come se potesse guarire le mie ferite con una sola espressione. Non poteva. Nessuno poteva.

Mi avvicinai, i piedi pesanti come piombo, ogni passo una sfida contro il vuoto che mi divorava. Mi chinai verso di lei, le parole affiorarono prima che potessi fermarle. «Se mi succederà qualcosa,» dissi, la voce un sussurro spezzato, «prendetevi cura di lei.»

La baia annuì, il sorriso ancora sulle labbra. «Certo, mia signora.»

La guardai, cercando qualcosa nei suoi occhi. Promesse. Verità. Speranza. Ma tutto ciò che vidi fu il riflesso della mia stessa disperazione.

Lidia dormiva, ignara del caos che la circondava, del gelo che avanzava nelle nostre vite. La osservai, così piccola, così fragile. La mia bambina. Il mio cuore. Ma ora, così lontana da me.

Mi ritrassi, le mani tremanti. Non c'era più niente da dire. Nulla che potesse cambiare ciò che era già stato deciso. Eppure, dentro di me, qualcosa si spezzò ancora una volta. Una crepa profonda, incolmabile. La stessa crepa che ormai si allargava sempre di più, consumandomi.

Nella stanza entrò il mio consigliere, il suo volto era teso, la voce ferma. «Maestà, dobbiamo andare.»

Rimasi immobile per un momento, il mio sguardo fisso sul piccolo corpo di Lidia, che sembrava ancora più fragile sotto la luce tenue della stanza. La mia mano tremante sfiorò la sua guancia morbida. Era calda, viva, ma ogni parte di me si sentiva morta.

Francy- la maledizione dell'imperatrice Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora