2.5 ● IL PROBLEMA E' TUO, NON MIO

54 9 53
                                    

Il bentornato di fangirl consistette in occhiatacce mute.

Non capivo il perché, visto che dei due chi aveva sofferto di nostalgia fino a suonare per notti intere non era certo lei, che si era fatta comprare una maglietta extra large degli 'Y●EL●L' da mia madre mentre io non c'ero.

Si era presentata a tavola coperta da quel capo in cotone bianco, il collo largo che lasciava trasparire il reggiseno a fiori e un paio di pantaloncini beige al ginocchio, così aderenti che mi fecero pregare ogni dio in cielo e in terra che non si piegasse. L'immagine di EL. Il suo corpo. L'immagine di EL sul suo corpo. L'inferno e il paradiso mescolati insieme.

«Fortuna che sei tornato. Devi accompagnarmi a scuola.» Esordì con voce stridula, trascinò la sedia fuori dal tavolo e ci si mise sopra senza grazia. Il seno diede un piccolo contraccolpo.

Mi sedetti di fronte a lei, fissai un pensile dietro i suoi capelli, non sapevo dove guardare. I suoi occhi mi avrebbero tolto qualsiasi parola di bocca, la piega del petto non mi avrebbe fatto ragionare. «Mi sembra che l'autobus vada più che bene. In più niente ti impedisce di prendere la patente, ora.»

Si spostò i capelli e raddrizzò le spalle. «Dana Harris, la piovra, mi vuole accompagnare a scuola e a casa. Non so più come dirgli di no.»

Trattenni uno scatto e mi morsi per un momento la lingua; non volevo permettermi di mostrare quanto ero infastidito da quel cretino.

Non ne ebbi bisogno: la testa di Sharon, alla mia sinistra scattò nella sua direzione. «Chi è questo?» strinse il tovagliolo.

«Uno che vorrei buttare giù dal... Da non so nemmeno io cosa.» Fangirl gesticolò indicando per aria.

La madre prese fiato e aprì di nuovo la bocca, il campanello di casa la interruppe, qualunque cosa volesse dire.

Mi fermai con la forchetta in mano, mentre i miei, alla mia destra, si guardarono.

«Stai aspettando qualcuno, Jennifer?» chiese Sharon sospetta.

Per una volta non potevo che darle ragione: la domanda rimase sospesa per aria, tra gli sguardi miei, di mio padre e di mia madre che si rimpallavano una domanda muta.

Il campanello si fece più insistente. Mi alzai dalla tavola. «Ho capito chi è. Vado io.»

Juno mi seguì e si fermò sull'uscio della cucina.

Aprii la porta di casa e davanti c'era lui, con i suoi capelli biondo ossigenato e il solito sorriso da schiaffi tempestato di lentiggini. «Salve, disturbo?» Nate fece dei gesti strani imitando il Genio della lampada di Alladdin. La maglietta del giorno diceva "puoi iniziare a pregare".

«Hai mangiato per strada o ti vuoi accomodare?»

Sorrise, la sua mano mi arrivò al centro del petto e mi spinse indietro. «Sì, grazie!»

«Nate!» Da dietro arrivò lo sgraziato battere dei talloni di Juno sul pavimento. Feci appena in tempo a spostarmi che lei gli saltò al collo, un salto niente male, si aggrappò con le gambe ai suoi fianchi, e iniziò a ridere.

Qualcosa mi si strinse nel petto: li osservai abbracciati. Quello che mi si mosse dentro non era la stessa cosa di quel Harris che la infastidiva.

Nate era sempre stato mio fratello, fangirl si era messa tra lui e me e si era presa una fetta di quell'esclusività che mai avrei immaginato che qualcuno potesse portarmi via.

Loro due in poco tempo avevano formato un legame molto simile a quello che avevamo io e lui: parlavano di cose dalle quali ero escluso e l'idea di non essere unico mi stava facendo male, nel profondo. Non ero solo io, era tutto me.

Pink SapphireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora