04. Adam

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Se c'era una cosa che odiavo era il traffico alle sette e mezzo di mattina. Già quella si prospettava come una pessima giornata, ci mancava solo che arrivassi tardi a scuola e perdessi l'ora di letteratura. Anzi, a dirla tutta non mi sarebbe dispiaciuto poi così tanto, solo che il professore aveva un modo tutto suo di vendicarsi per ritardi o per i compiti non consegnati: quando ti mandava alla lavagna, e sapevi che sarebbe successo di lì a poco, ti avrebbe fatto domande impossibili e sarebbe stato tremendamente restio a darti la sufficienza.
Tamburellai nervosamente sul volante sperando che quel dannato semaforo diventasse verde. Avrei tanto voluto sapere chi era il genio che aveva deciso di mettere così tanti semafori di fila in un'unica strada. Probabilmente qualcuno che guidava poco. Oppure avevano semplicemente tirato a sorte. Ero più propenso per la seconda ipotesi.
Quando finalmente l'auto davanti a me decise che la luce del semaforo era abbastanza verde e ripartì, ero piuttosto sicuro che sarei arrivato come minimo con mezz'ora di ritardo. Tutto per colpa della sveglia che non era suonata, di Cora che mi aveva assillato finché non le avevo dato da mangiare, della scomparsa del libro di storia, e a mia madre che si raccomandava di non andare troppo veloce. E poi il giorno dopo sarei dovuto andare a quella stupida festa con Michael. L'idea non mi entusiasmava, non sapevo neanche io il perché, solo avrei preferito evitare di andarci. Però gli avevo promesso che ci sarei stato, non potevo tirarmi indietro all'ultimo minuto. O forse sì?

Alla fine ero riuscito ad entrare in classe un attimo prima del suono della campanella, risparmiandomi un brutto voto assicurato. Non avevo idea di come avevo fatto ad arrivare in orario, probabilmente era stata tutta fortuna combinata all'infrazione del limite di velocità. In più dovevo aver evitato qualche segnale di stop e ignorato qualche semaforo.
Il professore, dopo averci fatto correggere gli esercizi per casa, si era seduto dietro alla cattedra e ci guardava con quei suoi occhi grigi. La sua espressione ricordava quella di un avvoltoio che sta per tuffarsi in picchiata sulla preda.
«Vi ho riportato le verifiche.» Annunciò dopo qualche secondo di tensione.
Nella classe si diffuse un mormorio nervoso: conoscendolo, i voti non sarebbero stati un granché. Per nessuno.
Sospirai pensando a quanto avrei dovuto studiare se avessi preso un'insufficienza: non avevo voglia di farlo e non credo l'avrei mai avuta.
Il prof chiamò uno studente della prima fila, che si avvicinò titubante alla cattedra. L'insegnate lo studiò per un attimo prima di mettergli in mano dei fogli.
«Consegnali.» Disse secco prima di infilarsi gli occhiali e mettersi a leggere un documento.
Il ragazzo sbatté le palpebre per poi cominciare a distribuire i compiti. Quando si avvicinò al banco di Michael, il mio migliore amico quasi gli strappò la verifica di mano anche se poi distolse lo sguardo e la tese verso di me.
«Guarda tu, io non ho il coraggio di farlo.» Disse con fare esageratamente teatrale.
Alzai un sopracciglio, un po' interdetto, ma non feci commenti. Diedi un'occhiata al foglio e annuii appena. «Non è così male, dai.»
Si ostinava a non guardare. «Dimmi il voto, Meyers.»
«D +.» Risposi.
Si voltò verso di me con un'espressione incredula sul viso. «Sul serio? È un voto in più rispetto all'altra volta!»
«Uh, complimenti.» Commentai.
Lui abbassò gli occhi per un attimo e fece una smorfia contrariata. «Beh, non tutti possono essere dei geni, sai?»
Inclinai appena la testa di lato, confuso, poi seguii la direzione del suo sguardo: sul mio banco c'era il mio compito, un'A - campeggiava su un angolo subito sopra la firma del professore. «Oh...» Mormorai.
Michael incrociò le braccia al petto guardandomi con aria critica. «Già. Sarà la quarta questo mese: mi spieghi come diavolo fai?»
«Non lo so, te l'ho già detto un sacco di volte.» Replicai.
Si appoggiò con la schiena alla sedia. «I tuoi saranno felici, mmh?»
«Credo di sì. I tuoi invece come l'hanno persa la F della settimana scorsa?» Chiesi osservandolo.
Arricciò il naso. «Questo è un tasto dolente amico. Ho dovuto pregarli in ginocchio per farmi dare il permesso per domani. E vogliono che prenda ripetizioni.»
«Di che materia?» Domandai.
Ci pensò su per un attimo. «Uhm... Tutte più o meno.»
Spalancai gli occhi. «Come farai a passare? È vero che è solo il primo semestre, ma... Così tanti debiti sono praticamente impossibili da recuperare.»
Ghignò divertito. «Tu sottovaluti il mio potere.»
«Oppure sei tu che ti sopravvaluti, ci hai mai pensato?» Gli feci notare.
Si strinse nelle spalle. «In ogni caso sono migliorato in letteratura, è un bel traguardo.»
«Non è ancora sufficiente però. Non pienamente almeno.» Ribattei.
Si sporse verso di me. «Sei pessimista Adam Meyers. Molto, molto pessimista.»

Non riuscivo a credere che mi avesse convinto ad accompagnarlo da sua nonna che, per un qualche strano motivo, abitava praticamente in mezzo ai boschi. E non parlo di una casa in periferia, no, proprio una villa in stile vittoriano in mezzo ad una foresta.
Suo marito era stato un uomo d'affari molto, molto ricco e un amante dello sfarzo. Quando era morto, tutti i suoi soldi e i suoi possedimenti erano passati alla moglie, che aveva deciso di averne abbastanza dell'aria di città e si era trasferita nel bosco.
Quando avevo chiesto a Michael perché dovesse andare da lei, si era limitato a stringersi nelle spalle dicendo che era il compromesso che aveva raggiunto con i suoi genitori: se avesse passato la serata con sua nonna sarebbe potuto andare alla festa di sabato.
«Per una festa ti chiudi in una casa in mezzo al niente? Che, per inciso, è uguale identica a quelle dove nei film muoiono tutti.» Avevo commentato.
Lui però era stato irremovibile: voleva andare a quella stupida festa in tutti i modi. Avevo deciso di accontentarlo anche per rimandare lo studio delle dieci pagine di scienze che mi aspettavano appena fossi tornato a casa.
La villa di sua nonna era circondata da una siepe scura e fitta e l'unica entrata al cortile -perché sì, c'era anche un cortile enorme- era costituita da un grosso cancello in ferro battuto che sembrava piuttosto minaccioso.
Fermai l'auto lì davanti e osservai la casa. «Uhm... Allora ci vediamo domani. Se sarai ancora vivo.»
Mi guardò con aria contrariata. «Ah-ah, molto divertente sì. E, ripeto, sei pessimista.»
Alzai le mani in segno di resa. «Ehi, dico solo la verità. Insomma, non sembra un posto molto accogliente. E poi deve costare una fortuna tra affitto, bollette e simili, no?»
Scrollò le spalle. «E io che ne so? Comunque questa casa appartiene alla mia famiglia da un sacco. Mia nonna ne ha preso possesso perché odia la città, ma quando... uh, quando passerà a miglior vita sai che feste pazzesche ci si possono fare?»
«Pensi solo a quello tu?» Domandai.
«Beh, sì. Sai, io guardo avanti.» Dichiarò. «E dovresti farlo anche tu.»
«Lo terrò a mente.» Promisi senza pensarlo veramente.
«A domani allora. E tieniti pronto, ci saranno un sacco di belle ragazze.» Aggiunse con un sorrisetto ad increspargli le labbra.
«Immagino... A domani.» Risposi.
Mi fece un cenno d'assenso prima di scendere dalla macchina e chiudere lo sportello. Gli lanciai un'ultima occhiata prima di imboccare la strada sterrata che portava alla tangenziale.
Una cosa tipica di Seattle è il clima non proprio favorevole. E come potrebbe essere altrimenti visto che si trova praticamente all'estremo nord degli Stati Uniti? Quando si avvicinava l'inverno faceva buio in fretta e la temperatura calava di diversi gradi.
Accesi il riscaldamento dell'auto maledicendomi per non aver preso una felpa quella mattina: a volte mia madre aveva ragione quando mi diceva di fare qualcosa.
La strada era praticamente deserta ma, d'altra parte, chi è così pazzo da andare in mezzo ad un bosco alle sette di sera? Sarebbe stato strano anche in altri orari, però in quel momento mi sembravo parecchio fuori posto. Mi morsi il labbro tamburellando distrattamente sul volante. In quel punto non prendeva neanche la radio, era praticamente sperduto, lontano anni luce dalla civiltà. O forse stavo esagerando io? A volte avevo il vizio di divagare un po' troppo.
Lanciai un'occhiata fuori dal finestrino senza prestare veramente attenzione a quello che vedevo, anche perché c'erano solo alberi, abeti e pini, che costeggiavano tutta la strada. Formavano un fitto muro verde scuro che non sembrava molto ospitale.
Lei sbucò fuori dal nulla cogliendomi completamente di sorpresa. Non so nemmeno io come feci a non prenderla in pieno. Inchiodai in qualche modo, il muso dell'auto che con ogni probabilità le sfiorava le gambe.
Mi ritrovai con il fiato corto, i muscoli in tensione e lo sguardo puntato sul volante. Sbattei le palpebre e alzai gli occhi incontrando i suoi che mi studiavano con rabbia più che evidente. "Perché diavolo è arrabbiata?", pensai ritrovando la lucidità. Anzi, più che rabbiosa sembrava infastidita, come se avessi interrotto qualcosa di importante. Ma cosa poteva fare di così importante in mezzo ad un bosco?
Scesi dall'auto lasciando lo sportello aperto e feci qualche passo verso la ragazza che mi stava davanti. Non era minimamente intimidita, né scossa o qualunque cosa dovrebbe essere qualcuno che è stato quasi investito. Teneva la testa alta con il mento sollevato in segno di sfida. Aveva i pungi stretti così tanto che le nocche le erano diventate bianche. Questo e la mascella serrata tradivano una certa tensione.
Indossava dei jeans un po' sbiaditi, una maglietta grigia, un cardigan rosso scuro di lana piuttosto pesante e degli anfibi neri. Aveva i capelli molto lunghi, castani e leggermente ondulati, lasciati sciolti sulle spalle. Alcune ciocche le incorniciavano il viso ammorbidendo gli zigomi. I suoi occhi erano di un marrone intenso ed uniforme. Nel complesso il suo viso era carino, dai tratti morbidi e... dolci, in un certo senso.
«Stai bene?» Riuscii a chiedere.
«Perché non dovrei?» Replicò lanciandomi un'occhiata sprezzante.
Rimasi interdetto per un attimo, confuso e sorpreso. «Forse perché ti ho quasi investito? Non mi sembra una cosa da niente.»
Alzò gli occhi al cielo. «Sì, sto bene. Contento?»
«Non è una questione di felicità, okay? Ci è mancato poco perché ti mettessi sotto, sono preoccupato per te.» Sbottai.
Lei non si scompose minimamente. «Non so se l'hai notato, ma non ci conosciamo neanche.»
La osservai meglio: c'era qualcosa di lievemente familiare in lei, come se l'avessi già vista da qualche parte, magari solo di sfuggita. «Sì, invece. Tu vieni nella mia stessa scuola, giusto? Terzo anno anche tu.»
Si strinse nelle spalle. «E allora?»
Parlare con lei mi lasciava a bocca aperta: sembrava che non le importasse di niente né di nessuno, nemmeno di se stessa. E pareva avercela con il mondo. «Lascia perdere... Sei sicura di stare bene? Non vuoi, che so, sederti o... bere qualcosa?» Tirai fuori le prime idee che mi vennero in mente, anche se lasciavano un po' a desiderare.
«Sto benissimo. E no, non voglio assolutamente niente. Puoi anche andartene per quel che m'importa.» Ribatté.
«Quindi dovrei lasciarti in mezzo ad un bosco? Di sera? Da sola?» Ero incredulo: ma che aveva in testa? Aria?
«Sì, esatto. Non è difficile da capire.» Confermo inclinando leggermente la testa di lato.
«No, ma... Non ha senso. Che diavolo ci fai qui, in mezzo ad una foresta?» Domandai studiandola: era tranquilla, magari giusto un po' tesa, ma niente di che. Sembrava a proprio agio, infastidita dalla mia presenza, però comunque sicura di sé.
«Non sono affari tuoi, chiaro?» Ringhiò facendosi improvvisamente aggressiva.
Era scattata sulla difensiva senza un motivo apparente, come se avessi toccato un punto scoperto. Stava fuggendo? Aveva fatto qualcosa di sbagliato o illegale? Era semplicemente una pazza scappata da un manicomio?
«Okay. Lascia almeno che ti riaccompagni a casa.» Proposi cercando di usare un tono accondiscendente, calmo.
Un sorrisetto beffardo le incurvò le labbra. «Perché dovresti?»
«Perché è pericoloso stare in mezzo ad una foresta, sai? Sì, insomma, ci sono animali feroci, fa freddo... non è sicuro.» Spiegarlo mi sembrava inutile, però non volevo darle contro in modo troppo aperto.
«Tecnicamente io sono in mezzo ad una strada che è in mezzo ad un bosco.» Mi fece notare inarcando le sopracciglia e inclinando la testa di lato.
«Rimane sempre un posto pericoloso. Senti, non farò domande, dimmi solo dove devi andare e ti ci porto. Ovviamente se non devi uscire dalla città.» Replicai.
«Vuoi fare una buona azione, mmh? Beh, mi dispiace, ma no. Sto benissimo qui dove sono.» Rispose.
«Non voglio fare l'eroe della situazione, ma non me la sento di lasciarti qui da sola.» Ammisi.
Incrociò le braccia al petto. «Qual è la parte che non capisci di "vattene, non voglio niente"?»
«Non riesco a trovarci un senso, okay? Perché sei in mezzo ad un bosco, tanto per cominciare? E per quale motivo vuoi rimanerci?» Domandai al limite dell'esasperazione.
Serrò la mascella e vidi i suoi occhi farsi più cupi. «Non sono affari che ti riguardano, te l'ho già detto. Quindi sparisci.»
Pensai di star sognando. E avevo validi motivi per esserne convito: era impossibile che una ragazza fosse così determinata a voler rimanere in una foresta. «Almeno puoi darmi una spiegazione valida?»
Mi guardò male. «No. Perché dovrei farlo? Quello che faccio della mia vita non ti riguarda.»
«Vuoi startene da sola in mezzo al nulla? Bene, perfetto. Divertiti.» Sbottai.
«Finalmente l'hai capito...» Borbottò a mezza voce.
Mi voltai, salii in auto e sbattei lo sportello. Avevo il fiato corto, di nuovo, e mi tremavano le mani. Sospirai e le chiusi a pugno cercando di calmarmi: in pochi minuti quella ragazza era riuscita ad esasperarmi e farmi arrabbiare dicendo sì e no dieci parole, visto che il concetto era sempre lo stesso.
Afferrai il voltante cercando di convincermi che era la cosa non proprio giusta ma neanche così sbagliata da fare. Purtroppo, c'era una parte di me che non era sicura e mi impediva di andarmene.
Abbassai il finestrino e richiamai la ragazza che, nel frattempo, stavo cominciando ad allontanarsi. «Ehi, senti, sei proprio sicura di non volere un passaggio?»
Qualcosa mi diceva che se non l'avessi portata da qualche parte al sicuro non sarei stato in pace con me stesso. Ed era una cosa estremamente fastidiosa.
Mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla. Sembrava sorpresa e decisamente più rilassata. Era piuttosto lunatica, cambiava umore ogni cinque secondi. «Che ore sono?»
Rimasi incantato a guardarla per un attimo prima di riscuotermi, prendere il cellulare dalla tasca dei jeans e controllare l'orario. «Le sette e un quarto.»
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Uh... Forse uno strappo potrebbe farmi comodo. Forse.»
Mi sentii più tranquillo per un qualche strano motivo. «Beh, io sono disponibile.»
"Non è che abbia molta scelta, sai? Ci sei solo tu...", mi fece notare una vocina dentro di me. Socchiuse appena gli occhi studiandomi.
«D'accordo.» Cedette dopo qualche secondo di esitazione. Si avvicinò di qualche passo fino a trovarsi a meno di un metro dall'auto. «Certo che sei insistente, eh?»
Sorrisi senza neanche rendermene conto. «È nella mia natura, non posso farci niente.»
Aggrottò la fronte e inclinò appena la testa di lato prima di fare il giro della macchina. La sentii borbottare qualcosa riguardo il sarcasmo e i ragazzi mentre apriva lo sportello sul lato passeggero e si sedeva accanto a me.
«Dove abiti?» Chiesi osservandola: teneva la testa leggermente china, i capelli le ricadevano ai lati del viso nascondendolo, si torturava le mani in grembo e aveva le spalle appena incurvate.
Alzò lo sguardo verso di me. Sembrava essere diventata improvvisamente tesa, quasi come un animale messo all'angolo. Poi si rilassò e fece un respiro profondo. Dentro di me la definii l'incarnazione della parola "lunatico".
«Pike Street, numero 22.» Sussurrò mordendosi il labbro.
«Okay. Non è lontano da dove sto io.» Dissi annuendo.
Mi guardò per un attimo. «Bene.»
Misi in moto l'auto e partii. Cercai di concentrarmi il più possibile su quello che stavo facendo, nonostante la presenza della ragazza mi distraesse abbastanza. Nessuno di noi disse una parola finché rimanemmo in tangenziale. Lei si era messa ad guardare il paesaggio fuori dal finestrino con aria assorta e sembrava essersi dimenticata della mia esistenza. Io mi stavo imponendo di mantenere lo sguardo fisso sulla strada anche se avrei preferito cercare di capire cosa ci faceva lei in mezzo ad un bosco.
Quando entrammo in autostrada trovai il coraggio di parlare: «Comunque, io sono Adam.»
Le lanciai un'occhiata veloce e per un secondo incrocia i suoi occhi marroni, sospettosi ma anche interessati.
Si infilò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Io sono Scarlett.»





SPAZIO AUTRICE: Finalmente Scarlett e Adam si sono incontrati. In modo un po' strano, ma l'hanno fatto. Lei si è messa subito sulla difensiva, com'è abituata a fare quando qualcosa non va come previsto. Adam, invece, è incuriosito da questa ragazza così lunatica e misteriosa. Entrambi sono rimasti colpiti l'uno dall'altro, e questo potrebbe complicare le cose.Volevo avvisarvi che starò via dal 28 luglio al 16 agosto: non riuscirò ad aggiornare in questi giorni, ma vedrò di farlo appena torno. 

Detto questo, vi ringrazio ancora per l'entusiasmo che dimostrate nel seguire questa storia.

TimeFlies

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