AVVERTENZE: il raiting della storia è rosso non perché ci saranno scene di sesso, quanto per i temi trattati, come avrete avuto modo di capire dall'introduzione della storia. Non so bene cosa stia facendo, anzi lo so, ma non so se ne sarò all'altezza. Ma una cosa è certa. Non tenterò in alcun modo di rendere la cosa meno tragica di quanto è stata. È uno dei capitoli, se non IL capitolo, che più mi sta a cuore, della storia. Spero solamente di esserne all'altezza e spero, come sempre, che il messaggio finale che voglio donare, tramite queste mie storie, possa essere recepito. In caso contrario, mi scuso con voi, con tutta me stessa. Tenterò di metterci il massimo, davvero. Tenterò di metterci l'anima, come faccio sempre quando tratto tematiche simili.
Chiunque sia sensibile a questi temi è invitato a non leggere, davvero. Non ho ancora ben chiaro l'andamento, nello specifico, di ogni singolo capitolo, ma in linea generale ho uno schema ben preciso da seguire. Non so se ci saranno descrizioni cruente o semplici accenni, non so dirvelo da adesso. E non voglio che qualcuno possa sentirsi inferiore solo perché non è in grado di leggere certe storie, perché io stessa convivo con lo stesso problema. Ho letto libri che riguardavano questo tema, ma non riesco a leggere altri libri con altre tematiche attuali. Non credo sia un limite, non credo sia un qualcosa di cui vergognarsi. È una parte di noi e va bene così, davvero. Grazie a tutti, anticipatamente, per l'attenzione.
31 Agosto 1939
Inserisco la chiave nella serratura, aprendo la porta svogliatamente mentre un sospiro abbandona le mie labbra. Non mi sono nemmeno presa il disturbo di cambiarmi, tanto in questo quartiere non saprebbero riconoscere il giorno dalla notte, figurarsi se presterebbero attenzione ad una divisa. Entro nell'ingresso di questo buco che certa gente si permette di definire casa, situato in una delle periferie più ghettizzate di Berlino. Le mie mani subito corrono all'interruttore, nel vano tentativo di portare un po' di luce in questa lurida topaia. Fantastico, hanno staccato di nuovo la corrente.
Lascio andare un altro sospiro frustrato, per poi muovermi verso una delle finestre e aprirla, i miei occhi che saettano tra i volti di quei tossicodipendenti che sono costretta a vedere ogni giorno. Infine, il mio sguardo si posa su di uno in particolare. Sogghigno brevemente.
«Eirik!» urlo, mentre il mio sorriso si allarga di più, alla vista del brivido che lo ha scosso.
Lo vedo voltarsi lentamente verso di me, gli occhi folli attraversati da un lampo di lucidità e paura.
«Scharführer¹...è...è tornata» balbetta, mentre arranca verso il mio balcone.
«Avevi qualche dubbio, razza di idiota?»
«No, certo che no. Lei è così... forte».
«Risparmiati certe scenate, Eirik, o potrei decidere di spararti in questo preciso istante- lo vedo deglutire e spostare lo sguardo verso la mia cintura, dove pende la pistola- E noi non vogliamo che succeda, vero, Eirik?»
«Ce-certo che no, Scharführer. Co-cosa desidera da me?»
«Il solito, Eirik. Portami una birra ghiacciata e vedi di correre, questa volta! Fammi trovare anche solo una goccia sulla bottiglia e giuro che ti sparo in mezzo alle gambe. Intesi?»
«Va-vado subito!»
«Sarà meglio per te» gli sussurro, mentre lo vedo correre via.
Mi lascio andare ad una risata, prima di allontanarmi dal balcone e dirigermi verso il bagno.
Mi spoglio dell'uniforme polacca, per poi lanciarla da qualche parte nella stanza. Diamine, posso sentire la puzza di quei cani anche sulla mia pelle. Che possano marcire all'inferno, quei bastardi.
Entro nella doccia, rilassandomi al tocco gentile dell'acqua sul mio corpo, non curandomi della sua freddezza. Prima o poi, tutto questo cambierà. Prima o poi, avrò finalmente un posto che potrò chiamare casa e non dovrò accontentarmi di un monolocale malandato.
Mentre sono immersa nei miei pensieri, sento dei rumori provenire da fuori la porta. Apro di scatto gli occhi, mentre prendo la pistola che avevo precedentemente lasciato dietro il gabinetto. Lascio scorrere l'acqua, mentre esco, senza nemmeno curarmi di vestirmi. Arrivata alla porta, la spalanco con una spallata, la pistola tesa davanti a me, pronta a sparare a chiunque abbia osato avventurarsi in casa mia.
L'uomo di fronte a me urla dallo spavento, le braccia in alto, in segno di resa, mentre le gambe gli tremano vistosamente.
Sospiro seccata, abbassando la pistola.
«Eirik. Chi diamine ti ha dato il permesso di entrare, razza di idiota?» gli urlo contro.
«M-mi perdoni, Scharführer, ma l-lei non rispondeva e la birra...»
Eirik interrompe il suo farneticare, senza motivo apparente. Poi, dopo qualche secondo, noto i suoi pantaloni bagnarsi. Rido a quella visione, cosciente dell'umiliazione che gli sto infliggendo.
«Ma guardati, Eirik, ancora devo spararti tra le gambe e già perdi».
L'uomo non parla, continuando a tremare davanti a me, per la vergogna e per la paura che ancora gli scorre nelle vene.
«Quantomeno hai avuto la decenza di non far cadere la mia birra. Ora sparisci» gli dico, avvicinandomi e strappandogli la bottiglia dalle mani, per poi prenderne un lungo sorso.
Mi accorgo che Eirik è rimasto fermo e solo in quel momento noto che i suoi occhi stanno vagando liberamente sul mio corpo nudo. Senza esitazione, porto la canna della mia pistola sotto il suo mento, costringendolo ad alzare lo sguardo e ad incrociare i miei occhi.
«Cos'hai da guardare, feccia umana? Nemmeno ti funziona, l'amico lì sotto- posso sentire il tremore del suo corpo tramite la pistola che stringo nella mano- Per tua fortuna, la birra è ghiacciata al punto giusto. Te lo dico per la seconda volta, dopodiché non esiterò a spararti e dovresti anche ringraziarmi, perché ti libererei da un'esistenza del tutto inutile, verme. Sparisci dalla mia vista».
E mentre riporto la bottiglia alle mie labbra, lo vedo correre via. Una smorfia contrariata si dipinge sul mio volto a quella reazione. Ho sempre odiato gli uomini senza spina dorsale, quelli incapaci di resistere e di lottare ma capaci solo di abbassare la testa e sottostare. Sbatto con rabbia la porta, prima di poggiare la birra sul tavolino e dirigermi nel bagno, per chiudere il getto di acqua. Apro uno dei cassetti di un mobile di legno consumato, da cui prendo un pantalone nero e una canotta bianca, per poi indossarli. Sto per tornare nel salone a godermi la birra, quando il mio sguardo si posa sulla divisa abbandonata per terra, quella riportante i colori della Polonia. L'ennesima smorfia si impossessa del mio volto. Non posso credere che mi abbiano realmente costretta a indossare quegli stracci. Sospiro, pensando che il fine ha certamente giustificato i mezzi, ma che devo ugualmente trovare il modo di sbarazzarmene, prima che qualcuno se ne accorga. E non ho alcuna intenzione di morire per colpa di un idiota che va girovagando per casa mia.
Torno nel salone, per godermi finalmente la mia birra, comodamente seduta sul divano. Chiudo per un attimo gli occhi, mentre le immagini di quanto è avvenuto mi passano velocemente davanti agli occhi. La divisa polacca, l'assalto alla stazione radio. I colpi sparati a vuoto, il sabotaggio, l'aggressione. E poi l'uccisione di quei prigionieri deportati dai campi di concentramento e vestiti con uniformi polacche, per rendere il tutto più vero dinanzi agli occhi del mondo. Un brivido di pura eccitazione mi attraversa la spina dorsale al pensiero della carneficina che abbiamo attuato. Il momento migliore della giornata. Un sorriso compare sulle mie labbra al solo ripensarci.
Volgo lo sguardo verso il balcone. La luce si sta affievolendo, segno che il sole ha cominciato la sua calata. Mi alzo dal mio divano, abbandonando la bottiglia vuota sul tavolino, mentre mi dirigo nell'unico bar presente nel quartiere, l'unico dotato di una radio.
Appena entro nel locale, il mormorio tipico di questi luoghi cessa, lasciando spazio ad un innaturale silenzio. Sorrido, nell'ammirare l'effetto che la mia sola presenza ha su questi luridi esseri, dopodiché mi dirigo al bancone, per prendere posto sullo sgabello vicino alla radio, senza nemmeno dovermi preoccupare di trovarlo occupato. So che quel posto è mio di diritto, così come lo sa chiunque abbia avuto la malaugurata idea di provare ad occuparlo. Arrivata allo sgabello, valuto la qualità della pelle che lo riveste, per vedere se qualcuno l'ha usato, rovinandolo. Fortunatamente, è esattamente come l'avevo lasciato, non vi è alcun segno di usura. Sorrido, mentre prendo posto.
«Ottimo lavoro, Georg» dico, rivolgendomi all'uomo che riveste il ruolo di barista.
Sogghigno, nel vederlo sobbalzare, nonostante le sue spalle larghe, i suoi capelli così chiari da rasentare il bianco e i suoi occhi così cerulei da richiamare un cielo limpido che, da troppo tempo, non fa visita a questo quartiere. Amo l'effetto che ho sugli uomini, quel brivido di terrore che li pervade quando pronuncio il loro nome. Me ne inebrio ogni volta, assaporando ogni singola goccia del loro sudore freddo come il più prelibato dei nettari, drogandomi della loro paura.
«Dovere, Scharführer» mi risponde semplicemente, tenendo lo sguardo basso.
I miei occhi si scuriscono, nell'udire quelle parole, mentre un lampo di genuina ira li attraversa. La mano corre al calcio della pistola che, con un movimento fluido quanto deciso, porto all'altezza del collo di Georg, esattamente sotto il suo mento.
«Non dovere, lurido leccapiedi. Tutto ciò che fai per me, lo fai per piacere. Mi sono spiegata, Georg?»
E, ancora una volta, posso sentire il tremore di un uomo tramite il freddo metallo che mi collega a lui.
«Ce-certo, Scharführer. È solo piacere, solo piacere».
«Allora immagino che sarà un piacere anche offrirmi una bella birra ghiacciata, vero?»
«Certamente, Scharführer».
Rido, nel vederlo allontanarsi rapidamente, pronto ad eseguire il mio ordine. Rimasta sola, mi impossesso della piccola radio posta nell'angolo del bancone. Senza curarmi della volontà dei clienti del locale, cambio la frequenza, prima sintonizzata su una stazione di musica scadente, per portarmi a quella adibita alla divulgazione delle notizie.
Georg ritorna, portandomi la mia bottiglia, ma non lo degno nemmeno di uno sguardo, i miei occhi fissi su un punto indefinito della parete, mentre le mie orecchie ascoltano attentamente la voce stridula e metallica che esce dalla radio.
«...l'attacco è stato perpetuato da un gruppo di insorti polacchi. La stazione di Gleiwitz è stata presa d'assalto alle ore 20. Gli insorti sono stati ricacciati oltre il confine dagli agenti del posto di polizia frontiera. Nello scontro a fuoco, alcuni degli insorti sono rimasti feriti mortalmente...»
Un sorriso soddisfatto si allarga sul mio volto, mentre spengo la radio. Posso sentire gli occhi di tutta questa melma puntati sulla mia schiena, sguardi pieni di scetticismo, diffidenza e paura. Il mio sorriso si trasforma in una fragorosa risata, una risata all'apparenza folle e priva di qualsiasi senso. Non posso crederci, il suo piano è davvero riuscito. Eccolo, il nostro casus belli. Finalmente, possiamo dare il via alla guerra. Continuando a ridere, mi alzo dal mio posto, la birra ancora abbandonata sul bancone, senza che io l'abbia nemmeno sfiorata, e mi dirigo verso l'uscita.
Sento l'adrenalina scorrermi nelle vene al pensiero di star vivendo uno dei giorni più significativi di questo periodo, di aver preso parte ad una delle azioni più determinanti. L'incidente di Gleiwitz² diverrà uno dei capitoli più importanti della storia di questo secolo, un capitolo che io ho aiutato a scrivere.
Ma, per il momento, l'incidente di Gleiwitz ha un solo significato, per me. Un solo sapore.
Il sapore della rivincita.
10 marzo 1943
La guerra imperversava ormai da tempo, sul fronte sovietico. Dopo una prima ritirata, finalmente è giunto il tempo di contrattaccare. E di vincere. Dopotutto, è quello che siamo. Macchine da guerra efficienti, accuratamente addestrate per poter sbaragliare qualsiasi difesa, qualsiasi nemico, qualsiasi resistenza. La sconfitta, nel nostro vocabolario, nel nostro codice e nella nostra essenza, non è conclamata. Vincere, è il nostro fine. Vincere, è la nostra gloria. Noi siamo i padroni di questo mondo, di questa terra. E chiunque si opponga a questa realtà, verrà punito con la morte. In fondo, chi meglio di noi potrebbe guidare questo mondo? Siamo la razza ariana, la razza perfetta, il frutto di secoli di evoluzione. La sconfitta non è conclamata, non può essere conclamata. Siamo esseri perfetti, ineguagliabili. Invincibili.
I nostri carri armati avanzano, distruggendo tutto ciò che trovano dinanzi al loro cammino. Non l'avevi previsto, vero, Stalin? Ci davi già per spacciati, ti proclamavi già vincitore. Lo senti, adesso, l'odore del sangue dei tuoi uomini? Ecco il sacrificio che noi offriamo alla guerra, perché essa possa compiersi per mano nostra. Perché la sua affermazione avvenga per mano nostra.
Impugno il mio K98, pronta ad uscire dal carro armato e prendere parte ai combattimenti che si stanno svolgendo in strada.
«Dove pensi di andare, Swan?»
Ovviamente. Dovevo immaginarmelo che l'idiota di turno avrebbe avuto da ridire.
«Cosa diavolo vuoi, Gosbert?» chiedo, senza nemmeno voltarmi a guardare il mio interlocutore.
«Sapere cosa hai intenzione di fare».
Lascio pendere il K98 al mio fianco, voltandomi per affrontare colui che dovrebbe essere un mio compagno. L'unico motivo per cui non l'ho fatto ancora fuori è che indossiamo la stessa divisa.
«Non devo renderne conto a te, Gosbert».
«Weisser per te, Swan».
«Non sei un mio superiore, Gosbert. Sono un SS-Oberst-Grupperführer³ esattamente come te. Non ti devo alcun rispetto. Ma dal momento che mi sembri più interessato al tuo titolo che alla battaglia, perché non resti qui mentre ti mostro come si vince una guerra?»
E senza attendere risposta, lo supero, dirigendomi verso l'uscita del carro armato, per potermi unire a chi già sta combattendo tra le strade.
«Questa tua insubordinazione non rimarrà impunita tanto a lungo, Swan».
Mi volto a guardarlo un'ultima volta, già a metà della scala.
«Sto tremando di paura, Gosbert» e detto ciò, esco definitivamente.
Appena i miei piedi toccano il suolo, subito la situazione si fa più chiara ai miei occhi. I sovietici si trovano in grande difficoltà, costretti ad indietreggiare dalla forza dei nostri schieramenti. A quanto pare, nella città non è rimasta che la Terza Armata corazzata. Senza alcuna esitazione, impugno il mio K98 e mi getto nella mischia, sparando a qualsiasi sovietico si trovi sul mio percorso. Non ho neanche bisogno di accertarmi della loro morte, dal momento che il mio nome ha assunto grande fama proprio grazie alla mia mira. Ed è proprio grazie ad essa, in fondo, che ho potuto conquistare il grado di SS-Oberst-Grupperführer.
Combatto per ore, tra le schiere di semplici soldati, finché non vedo Gosbert avanzare verso di me, nella sua uniforme grigia, con quel suo portamento da superiore, i suoi capelli neri rasati ai lati e i suoi occhi chiari, così chiari da rasentare quasi il biancore del ghiaccio antartico.
La canna del mio K98 è ancora puntata sulla glabella del sovietico che giace ai miei piedi, ferito prima che io sopraggiungessi. Attendo l'arrivo di Gosbert, seguendo ogni suo movimento, sicura dei miei riflessi e dei miei sensi che, sono certa, mi saprebbero avvertire di una possibile reazione da parte del mio prigioniero.
«Swan, devi rientrare» mi dice, una volta giunto.
«Per quale motivo?»
«C'è una missiva a tuo nome».
Continuiamo a guardarci in silenzio, come due animali che si studiano, cercando di prevedere l'uno il prossimo attacco dell'altra. Senza distogliere lo sguardo, premo il grilletto, il sangue che va ad imbrattare la mia uniforme, così come la sua. Faccio scivolare nuovamente il K98 lungo il mio fianco, prima di superarlo.
«Spero che tutto questo non abbia a che fare con te, Gosbert. O il prossimo cervello che farò saltare in aria sarà il tuo».
Gosbert ride, rimanendo fermo nella sua posizione.
«Sto tremando di paura, Emma».
Evito la sua provocazione, continuando a camminare, finché non ritorno nel carro. Qui, un soldato semplice, mi porge la missiva.
La apro, i miei occhi che si muovono veloci tra le poche lettere riportate sopra, dopodiché il mio sguardo fermo e glaciale si posa su un punto imprecisato, mentre le mie mani stracciano l'esile foglio riportante l'ordine di rientro.
Che tu sia maledetto, Gosbert. Che i sovietici riescano ad ammazzarti e che il tuo corpo sia divorato dai loro cani.
25 marzo 1943
Guardo la porta di legno massiccio. Sulla targa è ancora riportato il nome della famiglia che l'abitava. Con un gesto veloce, lascio che le chiavi graffino la targa dorata, cancellando quel nome alla mia vista, dopodiché apro la porta, pronta a vedere quella che, da questo momento, diverrà la mia casa. Accendo l'interruttore posto all'ingresso, lieta di notare che circola ancora corrente. Chiudo la porta con un calcio, dandomi un veloce sguardo intorno. L'abitazione sembra essere stata progettata con grande cura e attenzione. Le pareti sono di un bianco perlato, che cambia sfumature a seconda dell'illuminazione della stanza. Mi avvicino ad uno dei mobili, facendo passare le mie dita callose sulla superficie. Legno di pura quercia. I soliti ebrei, perfezionisti in tutto, ladri di beni che non gli spettano. Entro nel salone, il mio sguardo si fissa sull'enorme divano posto al centro della stanza. Senza pensarci oltre, mi siedo su di esso, poggiando gli stivali sporchi di fango sul tavolino basso, interamente intagliato a mano. Appoggio la testa sulla spalliera del divano, chiudendo gli occhi e rilassandomi per la prima volta dopo mesi di tensioni, di allerta costante e di combattimenti.
Penso che potrei anche abituarmi a questa vita.
27 dicembre 1943
Arbeit macht frei
Il lavoro rende liberi.
Sono ferma dinanzi all'entrata di Auschwitz, i miei occhi che percorrono le lettere che compongono quella scritta. La b di Arbeit è capovolta, ma probabilmente a nessuno importa. Dopotutto, il significato non muta. La condanna non muta.
Credo che se mi fossi trovata dinanzi a questo campo in un altro periodo, in un altro tempo, in un'altra età, sarei rimasta piacevolmente sorpresa dinanzi alla constatazione di quanto crudele e meschino possa essere l'animo umano di fronte al suo prossimo. Ma ormai sono abituata a cose ben peggiori, ad atti ben più meschini. In fondo, la mia stessa anima si è macchiata di quelle azioni. Nonostante questo, i miei occhi non riescono a staccarsi da quella scritta, ripercorrendo la forma di ogni singola lettera più e più volte, come a volermi imprimere nella mente la loro geometria. Geniale. Sottile e letale umiliazione. Semplicemente geniale. Anelare alla libertà lavorando per coloro che impugnano le catene della tua prigionia.
Sento dei passi veloci correre verso di me.
«Capitano!»
Mi volto verso il soldato semplice, vestito con la tipica uniforme grigia, i capelli rasati, gli occhi cerulei messi in risalto dal pallore della sua pelle.
«Cosa c'è?»
«È arrivato un nuovo carico».
Resto qualche secondo a guardare i suoi occhi. In essi posso leggere la determinazione, l'eccitazione di vestire una tale divisa, l'ebbrezza di esser padrone di innumerevoli vite. Questo ragazzo non è mai stato in guerra.
«Arrivo subito».
Il ragazzo inscena un mezzo saluto militare, prima di correre via.
I miei occhi tornano a posarsi sul cielo che sovrasta il campo. Mi ricorda il cielo che, ogni mattina, vedevo dalla finestra del mio appartamento in quella lontana periferia ghettizzata di Berlino. Un cielo sempre invisibile, coperto da coltri di fumo grigio.
Abbasso lo sguardo, incamminandomi verso la stazione ferroviaria, lì dove mi aspettano vagoni carichi di nuovi deportati. Quando arrivo sul luogo, noto che la maggior parte dei prigionieri è già in riga, i soldati che si affannano a separare gli uomini dalle donne. Le urla di dolore e di disperazione riempiono l'aria gelida di dicembre. Mi inebrio di questi suoni che si infrangono contro l'innaturale silenzio di morte che alberga in questo luogo, mentre il mio sguardo fermo vaga tra i volti straziati, umiliati, sfiniti di questa gente, di questo popolo. Esiste, forse, visione più leggiadra?
Continuo a camminare tra le infinte schiere, i miei passi scanditi da un ritmo regolare, in un'azione ormai automatica, insita in me a causa dei tanti anni trascorsi nelle SS, finché i miei occhi non si posano su di un volto. Arresto il mio avanzare, mentre il mio sguardo analizza la donna che ho di fronte. Altezza media, pelle leggermente olivastra, capelli scuri e ondulati, che presto verranno rasati. Ma è lo sguardo a colpirmi. Occhi di nera pece, brucianti come il più vivo carbone. Occhi pieni di determinazione, di forza, di vita. Occhi diversi da tutti quelli che ho incontrato nella mia vita. Lei è un'ebrea, una deportata, eppure sul suo volto non c'è traccia di paura o di rassegnazione. Tutt'altro. C'è coscienza, consapevolezza. Posso leggerlo nelle lievi rughe del suo volto, in quelle sue scure iridi, ma, nonostante questo, quella donna sembra ignorare la sua condizione, per protendersi in aiuto del prossimo, nel rendere quel loro dolore, che è anche il suo, più sopportabile.
Dopo qualche secondo, l'ebrea si volta verso di me, puntando il suo sguardo nel mio, con determinazione, con fierezza. Restiamo a guardarci, finché i miei passi non tornano a ripercorrere una strada già battuta. Vedo la scritta posta all'entrata del campo avvicinarsi sempre di più. Non ha importanza chi tu sia, ebrea. Non ha importanza quanta forza risieda nel tuo corpo. Chi giunge qui, non ha salvezza alcuna.
Poso di nuovo il mio sguardo sulle lettere battute.
Benvenuti ad Auschwitz, bestie.
Note
1-Scharführer=caposquadra nella gerarchia militare delle SS
2-Incidente di Gleiwitz= fu il finto attacco, inscenato contro la stazione radio tedesca di Gleiwitz (l'attuale Gliwice) il 31 agosto 1939, che costituì il casus belli del quale Adolf Hitler si servì per giustificare agli occhi dell'opinione pubblica tedesca l'invasione della Polonia da parte della Wehrmacht, dando inizio alla seconda guerra mondiale.
3-SS-Oberst-Gruppenführer=Comandante superiore di gruppo. È il grado massimo, dopo di questo vi sono solo le Reichsführer-SS che costituivano il corpo personale del Reich.
~Angolo Autrice~
Questo primo capitolo è solo di introduzione al personaggio di Emma. Giusto per soddisfare qualche curiosità, nel 1943 Emma ha 28 anni, quindi potete ben immaginare che la sua intera vita sia trascorsa in guerra e di come tutto questo possa averla influenzata. Sono cosciente che la mia descrizione forse è scialba e poco veritiera e di questo mi scuso, ma per la prima volta scrivo di un personaggio che mi è totalmente distante. Ho provato ad immedesimarmi il più possibile, ma so per certo che l'immedesimazione sola non basta. L'immaginazione non potrà mai sostituire l'esperienza. Ciononostante, ho cercato davvero di immaginare come si sarebbe comportato un soldato appartenente alla razza ariana, cresciuto nella convinzione di appartenere ad un'etnia superiore. Il salto temporale l'ho voluto così ampio perché fosse più palese il cambiamento di Emma. Non so se si sia avvertito tramite le mie parole, se mai vorreste commentare, mi farebbe piacere avere una vostra opinione su questo punto. Non ne chiedo mai, davvero, ma questa volta mi sento di farlo. Grazie alla vostra opinione, potrei crescere e comprendere gli errori commessi, per poter lavorare meglio a questa storia.
La scelta della prima persona, scelta azzardata e davvero difficile da gestire, me ne rendo conto, nasce proprio da questa volontà di rendere più tangibile il cambiamento di Emma, le sue emozioni, le sue sensazioni. Le frasi sono volutamente brevi, telegrafiche, come a voler rappresentare un modus vivendi di Emma stessa. Per lo stesso motivo, alcune descrizioni mancano del tutto o sono superficiali. C'è un piccolo pezzo di storia che vede Emma entrare in possesso di una casa appartenuta precedentemente ad una famiglia ebrea. In quel periodo, i beni ebrei erano del tutto confiscati e ridistribuiti tra la popolazione ariana, quindi volevo rendere presente anche questo aspetto, seppur in minima parte.
Volevo inoltre informarvi che, nei capitoli successivi, potrebbero esserci riferimenti a persone realmente esistite. In tal caso, ci sarà un piccolo spazio alla fine del capitolo per approfondire la vita di queste persone.
Detto questo, vi ringrazio a chiunque abbia letto, a chiunque mi abbia fatto dono del suo tempo. Grazie, davvero.
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L'orizzonte aldilà del filo-Ouat AU
FanfictionNon ha importanza chi tu sia, ebrea. Non ha importanza quanta forza risieda nel tuo corpo. Chi giunge qui, non ha salvezza alcuna. Poso di nuovo il mio sguardo sulle lettere battute. Benvenuti ad Auschwitz, bestie.