Prologo.

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Era buio.

Buio: come un cielo senza stelle.

C'erano dei tubi arrugginiti, degli oggetti astratti che non riusciva a mettere a fuoco.

Non vedeva nitido.

Era sempre così, durante una visione.

Piccoli frammenti.

Spezzoni di scene che doveva ricomporre, a cui doveva dare un significato.

Era tutto a chiazze, come quando guardi il sole troppo a lungo e poi hai bisogno di un attimo per tornare a vedere normalmente.

C'era un pavimento sporco, grumi di polvere. Roba che ti faceva venire la tosse solo a pensarci.

E poi la vide.

Una mano che si muoveva, una mano bloccata da una manetta che la legava al bracciolo di una sedia.

Una sedia ricoperta di spine.

Vide un corpo che si dimenava.

Delle spalle ricoperte di lividi.

Una bocca che urlava ma da cui non usciva alcun suono.

Un viso graffiato, ferito.

Degli occhi iniettati di sangue.

Un corpo che si fletteva.

Che si arrendeva al dolore.

Delle mani che si stringevano in pugni.

Delle catene che bloccavano dei piedi.

Era tutto così confuso ma allo stesso tempo tutto così dannatamente chiaro.

Un urlo straziante immobilizzò tutto ciò che non fosse lei.

L'artefice di quell'urlo.

Lydia.

Com'è possibile che da labbra così rosee possa venir fuori una simile agonia?

Quando il corpo della ragazza smise di contrarsi, la sua mente si azionò e iniziò a realizzare ciò che aveva appena visto.

Disse qualcosa di appena udibile.

Un sussurro.

Un nome.

«Stiles»

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