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Wilmington, 2000
Mi chiamo John Tyree.
Sono nato nel 1977 e sono cresciuto a Wilmington, nel North Carolina, una città fiera del suo grande porto e della sua lunga e gloriosa storia, ma che adesso dà piuttosto l'impressione di un posto venuto su a casaccio. Tempo splendido e spiagge perfette, Wilmington non era pronta a ricevere l'ondata di pensionati provenienti da nord in cerca di un luogo economico dove trasferirsi. La città sorge su una lingua di terra relativamente esigua, delimitata da un lato dal Cape Fear River e dall'altro dall'oceano. È tagliata in due dalla statale 17, che porta a Charleston e funge da corso principale. Quando ero bambino, mio padre e io impiegavamo dieci minuti per raggiungere Wrightsville Beach partendo dal centro, mentre oggi, specie nei fine settimana, quando i turisti arrivano in massa, ci si mette anche un'ora.
Wrightsville Beach si trova su un'isoletta appena al largo della costa ed è una delle spiagge più frequentate dello stato. Lì le abitazioni lungo le dune vengono affittate durante la stagione estiva a prezzi scandalosamente alti. Gli Outer Banks potranno avere anche un fascino più romantico, con la loro posizione isolata, i cavalli selvaggi eil ricordo del primo volo che rese celebri i fratelli Wright, ma credetemi, i villeggianti
preferiscono andare al mare là dove possono trovare un McDonald's o un Burger King per far felici i bambini, e un'ampia scelta di locali aperti la sera.
Come tutte le città, Wilmington ha zone ricche e povere, e dato che mio padre aveva uno dei lavori più stabili e sicuri al mondo - faceva il postino - noi stavamo bene. Non navigavamo nell'oro, ma ce la passavamo discretamente. Pur non essendo ricchi, abitavamo poco distante dai quartieri residenziali, e così ho potuto frequentare una buona scuola superiore. A differenza di quelle dei miei compagni, tuttavia, la nostra casa era piccola e malandata; una parte della veranda cominciava a cedere, ma il giardino era fantastico. Sul retro cresceva un'enorme quercia e, a otto anni, ci costruii sopra una casetta usando assi di legno prese da un cantiere. Mio padre non mi aiutò affatto (se fosse riuscito a colpire un chiodo con il martello, si sarebbe trattato certamente di un caso) e quella stessa estate imparai da solo a fare surf. Forse mi sarei dovuto accorgere già allora di quanto fossi diverso da papà, ma ciò dimostra come siano ingenui i bambini.
Noi due eravamo letteralmente agli antipodi. Lui era calmo e introspettivo, io ero sempre in movimento e odiavo stare da solo; mentre papà dava grande importanza all'istruzione, per me la scuola era un club ricreativo dove si potevano fare vari sport. Mio padre era di corporatura esile e tendeva a camminare strisciando i piedi; io saltellavo qua e là e gli chiedevo in continuazione di cronometrare il tempo che impiegavo ad arrivare alla fine dell'isolato e ritorno. In terza media ero diventato più alto di lui, e un anno dopo lo battevo senza fatica a braccio di ferro. Non ci somigliavamo nemmeno nei tratti. Mio
padre aveva capelli biondi, occhi nocciola e lentiggini, mentre io ero scuro di capelli e di occhi, e la mia carnagione olivastra si abbronzava facilmente. Alcuni vicini trovavano strana la nostra diversità, cosa comprensibile, considerando che mi aveva tirato su da solo. A volte li sentivo parlottare sul fatto che mia madre fosse scappata quando io non avevo nemmeno un anno. In seguito mi venne il sospetto che avesse conosciuto un altro, ma mio padre non me lo confermò mai. Mi spiegava soltanto che la mamma si era resa conto di aver commesso un errore a sposarsi così giovane, e che non si sentiva pronta a fare la madre. Non manifestava né disprezzo né rimpianto nei suoi confronti, ma si assicurava che la includessi sempre nelle mie preghiere. «Mi ricordi lei», diceva a volte. Fino a oggi non mi sono mai messo in contatto con mia mamma, né ho desiderio di farlo.
Credo che papà fosse felice, anche se non era tipo da manifestare le proprie emozioni. Abbracci e baci furono una rarità durante la mia infanzia e, quando me li offriva, mi sembravano sempre privi di slancio, come se lo facesse per dovere, e non spontaneamente. Capisco che mi voleva bene dal modo in cui si dedicava a me, ma ero nato quando lui aveva già quarantatre anni e penso che la sua indole fosse più quella di un monaco che di un padre. Era un uomo taciturno. Mi faceva pochissime domande e non si arrabbiava quasi mai, ma per contro non scherzava nemmeno. Era anche abitudinario. Tutti i santi giorni mi cucinava uova strapazzate, bacon e pane tostato per colazione, e tutte le sere ascoltava i miei racconti sulla scuola mentre serviva la cena che aveva preparato. Prenotava gli appuntamenti dal dentista con due mesi di anticipo e pagava le bollette il sabato; faceva il bucato la domenica pomeriggio e la mattina usciva sempre di casa
alle 7.35 in punto. Non aveva una vita sociale e svolgeva il suo lavoro in solitudine. Non frequentava nessuna donna, non giocava a poker con gli amici nel fine settimana; il telefono poteva restare muto per giorni e giorni. Quando l'apparecchio squillava, era qualcuno che aveva sbagliato numero, oppure che cercava di venderci qualcosa. So quanto dev'essere stato difficile per lui crescermi senza nessun aiuto, ma non si lamentò mai, neppure quando lo deludevo.
Trascorrevo per conto mio la maggior parte delle serate. Terminate le incombenze quotidiane, mio padre si ritirava nello studio. Le monete erano l'unica grande passione della sua vita. La sua massima aspirazione era starsene seduto a leggere la rivista di numismatica soprannominata Greysheet, alla ricerca del prossimo pezzo da aggiungere alla sua collezione. In realtà era stato mio nonno a iniziarla. Il suo eroe era un tale Louis Eliasberg, un finanziere di Baltimora che era riuscito a completare la raccolta di tutte le monete degli Stati Uniti, compresi i vari conii celebrativi e i marchi di zecca. Nel 1951, dopo la morte della moglie, il nonno si mise in testa di creare a propria volta una collezione assieme al figlio. Nel corso dell'estate lui e mio padre raggiungevano in treno le varie zecche, oppure visitavano le fiere di numismatica del Sudest. Con il passare degli anni strinsero rapporti con collezionisti di tutto il paese, e mio nonno spese un patrimonio per scambiare i pezzi e ampliare la collezione. Diversamente da Louis Eliasberg, tuttavia, non era ricco - aveva un emporio a Burgaw che fallì quando in città venne aperto un supermercato - e non ebbe mai la possibilità di eguagliarlo. Ciononostante, investiva tutti i risparmi in monete. Portava sempre la stessa giacca, non cambiò mai l'automobile e sono quasi sicuro che mio padre finì a lavorare in posta invece di andare all'università perché non era rimasto un centesimo per pagare i suoi studi dopo il diploma. Anche il vecchio era un tipo strambo, questo è sicuro. Tale padre, tale figlio, si dice. Quando morì, lasciò scritto nel testamento che la casa doveva essere messa in vendita, e che bisognava usare il ricavato per comprare altre monete, cosa che probabilmente papà avrebbe comunque fatto. La collezione aveva già un discreto valore nel momento in cui lui la ereditò. Quando poi ci fu la crescita dell'inflazione, e l'oro toccò gli 850 dollari l'oncia, valeva una piccola fortuna, che avrebbe permesso al mio frugale genitore di vivere comodamente di rendita. Ma né il nonno né papà si erano dedicati al collezionismo per denaro: semplicemente amavano il gusto della caccia e il legame che quell'interesse in comune creava tra di loro. C'era qualcosa di esaltante nel cercare a lungo e con foga una certa moneta, localizzarla e poi iniziare le trattative per acquistarla al giusto prezzo. A volte era abbordabile, altre no, ma ogni singolo pezzo aggiunto alla raccolta costituiva un tesoro. Mio padre sperava di condividere anche con me questa passione e lo spirito di sacrificio che richiedeva. Per ripararmi dal freddo d'inverno dovevo dormire sotto una montagna di coperte, e ogni anno ricevevo un unico paio di scarpe nuove; quanto ai vestiti, ricorrevo all'Esercito della Salvezza. Papà non possedeva neppure una macchina fotografica. L'unica foto che abbiamo venne scattata a una mostra numismatica ad Atlanta. Un mercante di monete ce la fece davanti al suo banco e ce la spedì. Per anni rimase in mostra sopra la scrivania nello studio. In quel ritratto, papà mi tiene un braccio sulla spalla ed entrambi siamo raggianti. Io ho in mano un Buffalo Nickel 1926-D in
condizioni perfette, che avevamo appena acquistato. Era un pezzo abbastanza raro e finimmo per mangiare fagioli e hot dog per un mese, visto che era costato più del previsto.
Ma i sacrifici non mi pesarono... almeno per un certo periodo. Avevo sei o sette anni quando papà cominciò a parlarmi di monete, trattandomi come un suo pari. Da bambino io mi beavo di quelle attenzioni, assorbendo tutte le informazioni che mi forniva. Dopo un po' ero in grado di dire quanti Saint-Gaudens doublé eagle fossero stati coniati nel 1927 rispetto al 1924 e perché un Barber Dime del 1895 battuto a New Orleans valesse dieci volte la medesima moneta coniata nello stesso anno a Filadelfia. Sono cose che non ho mai dimenticato. Ma a differenza di mio padre, in me la passione per il collezionismo si spense a poco a poco. Dopo aver passato per anni i fine settimana assieme a lui, volevo uscire con gli amici. Come tutti gli adolescenti iniziai a nutrire altri interessi: per gli sport, le ragazze, le automobili e la musica, e arrivato a quattordici anni trascorrevo ben poco tempo a casa. Anche il mio risentimento intanto cresceva. Gradualmente cominciai a notare le diversità tra il mio modo di vivere e quello dei miei coetanei. Mentre gli altri avevano i soldi per andare al cinema o comperarsi un paio di occhiali da sole alla moda, io raggranellavo degli spiccioli per prendere un hamburger da McDonald's. Molti di loro ricevettero in regalo un'auto per i sedici anni; mio padre mi diede invece un dollaro d'argento Morgan del 1883 coniato a Carson City. Nascondevamo con una coperta gli strappi nella fodera consunta del divano ed eravamo l'unica famiglia a non avere la televisione via cavo né un forno a microonde. Quando si ruppe il frigorifero, papà ne acquistò uno di seconda mano di un orripilante verde, che non c'entrava niente con la nostra cucina. Io mi vergognavo a invitare gli amici a casa, e incolpavo lui di questo. So che il mio era un atteggiamento meschino
-se fossi stato tanto preoccupato per il denaro, avrei potuto fare qualche lavoretto per procurarmelo - ma così era. Ero cieco e sordo, e anche se vi dicessi che rimpiango la mia immaturità di allora, non servirebbe a cambiare il passato.
Papà si rendeva conto che non comunicavamo più, ma non aveva idea di come rimediare. Ci provò nell'unico modo che conoscesse, quello che aveva imparato da suo padre. Parlava di monete - era il solo argomento che affrontasse con disinvoltura
- e continuava a prepararmi da mangiare, ma il nostro distacco non fece che aumentare. Nel frattempo mi allontanai pure dagli amici di sempre. Si erano divisi in gruppetti, principalmente sulla base dei film che sarebbero andati a vedere o della marca di magliette preferita, e io mi sentivo un emarginato. Al diavolo, pensai. Alle superiori c'è sempre spazio per tutti, e così mi misi a frequentare le persone sbagliate, quelle che non davano importanza a niente di niente e che mi portarono a fregarmene di tutto. Cominciai a saltare le lezioni e a fumare, e fui sospeso più volte perché avevo fatto a pugni.
Alla fine del secondo anno smisi di praticare gli sport. Fino a quel momento avevo giocato a football, a basket e avevo gareggiato nella corsa, ma anche quando mio padre la sera mi chiedeva di raccontargli com'era andata, si capiva che non era veramente interessato, poiché non se ne intendeva per nulla. Non aveva mai fatto parte di nessuna squadra. In quel periodo venne a vedermi giocare a basket una volta sola. Era seduto nelle gradinate, una strana figura pelata, con la giacca lisa e i calzini spaiati.
Pur non essendo obeso, i calzoni gli tiravano in vita facendolo sembrare incinto di tre mesi e io non avrei voluto avere niente a che fare con lui. La sua vista mi imbarazzava e, dopo la partita, lo evitai.
Nell'ultimo anno di scuola la mia ribellione raggiunse l'apice. Il mio rendimento era andato via via peggiorando, più per pigrizia e distrazione che per mancanza di intelligenza (almeno così mi piace pensare) e più di una volta papà mi aveva scoperto a rincasare di nascosto a notte fonda con l'alito che puzzava di alcol. Quando la polizia mi riaccompagnò a casa dopo avermi beccato a una festa dove giravano droga e alcolici, lui per punizione mi vietò di uscire la sera e io mi trasferii per un paio di settimane da un amico, dopo avergli risposto in malo modo. Al mio ritorno fece finta di niente; il mattino seguente la tavola era apparecchiata con uova strapazzate, pane tostato e bacon, come al solito. Fui promosso per il rotto della cuffia e ho il sospetto che la scuola mi avesse dato il diploma perché non vedeva l'ora di sbarazzarsi di me. Papà era preoccupato e a volte, con la sua tipica timidezza, affrontava la questione dell'università, ma io ormai avevo deciso di non andarci. Volevo un lavoro, una macchina e tutti quei beni materiali di cui avevo fatto a meno per diciotto anni. Non gli dissi niente fino all'estate dopo la maturità, e quando seppe che non avevo ancora fatto domanda per nessuna università, si chiuse a chiave nello studio e la mattina dopo a colazione non mi rivolse la parola. Più tardi quella sera tentò di coinvolgermi nell'ennesima conversazione sulle monete, come per recuperare l'affiatamento perduto.
«Ti ricordi di quella volta che andammo ad Atlanta e tu riuscisti a trovare il Buffalo Nickel che stavamo cercando da anni?» esordì. «Quello della foto? Non mi dimenticherò mai quanto eri entusiasta. Mi facevi pensare a me con mio padre.» Scossi la testa, frustrato. «Non ne posso più di sentire parlare di monete!» gli gridai. «Basta! Dovresti vendere quella maledetta collezione e dedicarti a qualcos'altro. Qualsiasi altra cosa.»
Non rispose, ma ancora oggi non ho dimenticato la sua espressione addolorata quando si voltò e si trascinò di nuovo mestamente nello studio. Lo avevo ferito e, sebbene mi ripetessi che non era stata mia intenzione, in fondo sapevo che era una bugia. Papà non accennò più alla sua collezione. Né lo feci io. Tra di noi si spalancò un baratro incolmabile che ci lasciò senza un argomento in comune. Pochi giorni dopo mi resi conto che anche l'unica nostra fotografia era sparita, come se temesse che persino il minimo accenno alle monete potesse offendermi. All'epoca, forse, sarebbe stato così, e l'eventualità che lui potesse averla buttata via non mi turbò affatto.
Da ragazzo non avevo mai neppure preso in considerazione l'idea di arruolarmi. Sebbene il North Carolina orientale sia una delle zone a più elevata concentrazione militare di tutto il paese - ci sono sette basi a poca distanza da Wilmington - avevo sempre pensato che quella fosse una carriera per perdenti. Chi poteva desiderare di trascorrere la vita a farsi dare ordini da un branco di esaltati con i capelli a spazzola? Io no di certo e, a parte i tizi del programma militare scolastico, neppure i miei compagni di scuola. Molti degli studenti migliori si iscrissero alla University of North Carolina o alla North Carolina State, mentre gli altri rimasero indietro, passando da un lavoro all'altro, bevendo birra e bighellonando in giro, e facendo di tutto per evitare qualunque cosa implicasse un briciolo di responsabilità.
Io appartenevo a questa seconda categoria. Nei due anni successivi feci un sacco di lavoretti, servendo ai tavoli della Outback Steakhouse, strappando biglietti nel cinema locale, caricando e scaricando scatoloni da Staples, cuocendo dolci alla Waffle House e facendo il commesso in un paio di negozi per turisti che vendevano souvenir. Spendevo fino all'ultimo centesimo, non mi illudevo di poter salire la scala gerarchica e finivo per farmi licenziare da tutti i posti. Per un po' non ci badai. Vivevo la mia vita, mi piaceva fare surf e dormire fino a tardi, e siccome abitavo ancora con mio padre, non dovevo preoccuparmi di pagare vitto, alloggio, assicurazioni o di costruirmi un futuro. E poi nessuno dei miei amici se la passava meglio. Non ricordo di essere stato particolarmente infelice, ma dopo un po' cominciai a stancarmi della situazione. A parte il surf- nel 1996 gli uragani Bertha e Fran che si abbatterono sulla costa provocarono alcune tra le onde migliori a memoria d'uomo - ero stufo di trascorrere il mio tempo libero da Leroy's. Mi rendevo conto che tutte le serate erano identiche. Bevevo un paio di birre, incontravo qualche conoscenza del liceo, mi chiedevano che cosa facessi, io rispondevo, loro mi raccontavano cosa stavano combinando, e non ci voleva un genio per capire che eravamo a bordo dell'espresso per il nulla. Anche se gli altri, a differenza di me, non abitavano più con i genitori, non credevo a una parola quando sostenevano di essere soddisfatti del loro lavoro come spazzini, o pulitori di vetri, o fattorini, perché sapevo benissimo che nessuna di quelle era l'occupazione che sognavano da ragazzi. Sarò stato svogliato a scuola, ma non ero stupido.
Durante quel periodo uscii con decine di ragazze. Da Leroy's non mancavano mai. In genere erano rapporti fugaci. Usavo le donne e mi lasciavo usare da loro, tenendo sempre ben nascosti i miei sentimenti. L'unica relazione che durò più di qualche mese fu con Lucy e per un breve periodo, prima dell'inevitabile separazione, credetti di essermi innamorato. Studiava alla University of North Carolina, aveva un anno più di me e dopo la laurea voleva andare a lavorare a New York. «Io ti voglio bene», mi disse l'ultima notte che passammo insieme, «però siamo troppo diversi. Potresti fare molto di più nella tua vita, ma per qualche motivo ti accontenti di galleggiare.» Esitò prima di continuare. «E soprattutto, non capisco che cosa provi veramente per me.» Sapevo che aveva ragione. Non le avevo mai detto quanto ci tenessi a lei. Poco tempo dopo partì senza nemmeno salutarmi. Un anno più tardi, dopo essermi fatto dare il suo numero di telefono dai genitori, la chiamai e parlammo un po'. Era fidanzata con un avvocato, mi spiegò, e si sarebbe sposata nel giugno seguente.
Rimasi colpito da quella telefonata più di quanto volessi ammettere. Avvenne il giorno in cui ero stato licenziato - per l'ennesima volta - e per consolarmi me ne andai da Leroy's, come sempre. C'era la solita gente e di colpo compresi che non volevo passare un'altra serata inutile fingendo che andasse tutto bene. Mi comperai una confezione da sei lattine di birra e scesi in spiaggia. Per la prima volta mi misi a riflettere seriamente sul mio futuro e mi chiesi se fosse il caso di seguire il consiglio di papà e di prendere una laurea. Tuttavia, avevo abbandonato gli studi da tanto di quel tempo che l'idea mi appariva estranea e ridicola. Chiamatela fortuna o sfortuna, ma proprio in quel momento mi passarono davanti due marines che correvano. Giovani e atletici, sprigionavano sicurezza e determinazione. Se ci riescono loro, mi dissi, posso farlo anch'io.
Ci rimuginai sopra per un paio di giorni e alla fine mio padre ebbe un ruolo decisivo. Naturalmente non gli parlai della mia intenzione... ormai non ci parlavamo più del tutto. Una notte, mentre mi dirigevo in cucina, lo vidi seduto alla sua scrivania come al solito. Quella volta, tuttavia, mi soffermai a esaminarlo bene. Era quasi completamente calvo e i pochi capelli che gli rimanevano sulle tempie erano ormai bianchi. Si stava avvicinando alla pensione e all'improvviso mi resi conto che non avevo il diritto di continuare a deluderlo dopo tutto quello che aveva fatto per me. Così mi arruolai. Il mio primo pensiero fu di entrare nei marines, visto che erano il corpo con cui avevo maggiore familiarità. Wrightsville Beach era sempre gremita di soldati delle basi di Camp Lejeune o Cherry Point, ma quando fu il momento scelsi l'esercito. Un fucile me l'avrebbero dato in ogni caso, pensai, anche se l'elemento determinante fu che il reclutatore dei marines era a pranzo quando passai in caserma, mentre quello dell'esercito - il cui ufficio era proprio sull'altro lato della strada - era disponibile. Al dunque, la decisione fu alquanto casuale; a ogni modo firmai sulla linea tratteggiata per la ferma di quattro anni e, quando il reclutatore mi diede una pacca sulle spalle e si congratulò per la mia scelta, mi chiesi in che guaio mi fossi cacciato. Era la fine del 1997 e avevo vent'anni.
Il campo di addestramento a Fort Benning fu terribile come immaginavo. Tutto lì sembrava pensato apposta per umiliarci e farci il lavaggio del cervello in modo che arrivassimo a eseguire gli ordini senza discutere, anche se erano assurdi, ma io mi adattai molto più in fretta di tante altre reclute. Una volta superato l'addestramento, optai per la fanteria. Trascorremmo i mesi successivi a fare molte simulazioni in posti come la Louisiana e il buon
vecchio Fort Bragg, dove imparammo sostanzialmente qual è il modo migliore per ammazzare la gente e distruggere le cose, e dopo un po' la mia unità, che faceva parte della Prima Divisione Fanteria - alias il Grande Uno Rosso - fu spedita in Germania. Non sapevo una parola di tedesco, ma era irrilevante, visto che quasi tutte le persone con cui avevo a che fare parlavano inglese. All'inizio fu facile, poi cominciò la vita militare. Trascorsi sette luridi mesi nei Balcani: prima in Macedonia nel 1999, poi nel Kosovo, dove rimasi fino alla tarda primavera del 2000. L'esercito non paga molto bene ma, considerando che non avevo spese di mantenimento, e nessuna occasione di fare acquisti o di divertimento, per la prima volta mi ritrovai con un po' di denaro in banca. Trascorsi la mia prima licenza a casa, tediandomi a morte. Per la seconda scelsi Las Vegas. Uno dei miei compagni era cresciuto lì e così piombammo in tre dai suoi genitori. Bruciai in un colpo solo quasi tutti i risparmi. Alla terza licenza, dopo essere rientrato dal Kosovo, avevo disperato bisogno di una pausa e decisi di andare a trovare mio padre, nella speranza che la noia della visita mi calmasse la mente. A causa della distanza ci telefonavamo di rado, ma lui mi scriveva lettere che spediva regolarmente il primo del mese. Non erano come quelle che i miei compagni ricevevano da madri, sorelle o mogli. Mai niente di troppo personale, né lacrimevole, mai una parola che lasciasse trasparire la sua nostalgia per me. Non parlava nemmeno di monete. Scriveva dei cambiamenti nel quartiere, si dilungava sul tempo e quando gli raccontai della violenta sparatoria in cui ero rimasto coinvolto nei Balcani, mi rispose che era contento che io fossi sopravvissuto, ma nient'altro. Allora compresi che non voleva saperne troppo dei pericoli che correvo. Il fatto che
rischiassi la vita lo spaventava, così cominciai a omettere i dettagli più inquietanti. Mi limitavo a riferire che i turni di guardia erano il lavoro più noioso del mondo e che la cosa più eccitante che mi fosse capitata in quelle settimane era stato cercare di indovinare quante sigarette si sarebbe fumato il mio compagno in una sera. Mio padre concludeva ogni volta con la promessa di scrivermi di nuovo presto. E, come sempre, non mi deludeva. Ormai da tempo mi sono persuaso che fosse un uomo migliore di quanto potrò mai diventare io.
Comunque, ero maturato negli ultimi tre anni. Sì, lo so, sono un cliché vivente: entrato ragazzo, uscito uomo. Ma l'esercito ti costringe a maturare, specialmente in fanteria. Ti viene affidato un equipaggiamento che costa una fortuna, gli altri contano su di te e, se sbagli, il castigo è ben più grave dell'andare a letto senza cena. Certo, ci sono troppe scartoffie, tanta noia e tutti fumano, non riescono a finire una frase senza imprecare e hanno scatoloni pieni di riviste porno sotto il letto, e poi devi ubbidire a ufficiali riservisti freschi di laurea convinti che le reclute come te abbiano il QI dell'uomo di Neanderthal, ma sei obbligato a imparare la lezione più importante per crescere, ovvero che devi essere sempre all'altezza delle tue responsabilità. Quando ricevi un ordine, non puoi rifiutarti di eseguirlo. Non esagero se dico che ci sono in ballo delle vite umane. Un'esitazione, un errore e il tuo compagno può morire. È proprio questo che fa funzionare l'esercito. A volte la gente si chiede com'è possibile che i militari rischino la vita giorno dopo giorno combattendo per qualcosa in cui magari non credono neppure. In realtà, ho conosciuto soldati di ogni idea politica, Durante quel periodo uscii con decine di ragazze. Da Leroy's non mancavano mai. In genere erano rapporti fugaci. Usavo le donne e mi lasciavo usare da loro, tenendo sempre ben nascosti i miei sentimenti. L'unica relazione che durò più di qualche mese fu con Lucy e per un breve periodo, prima dell'inevitabile separazione, credetti di essermi innamorato. Studiava alla University of North Carolina, aveva un anno più di me e dopo la laurea voleva andare a lavorare a New York. «Io ti voglio bene», mi disse l'ultima notte che passammo insieme, «però siamo troppo diversi. Potresti fare molto di più nella tua vita, ma per qualche motivo ti accontenti di galleggiare.» Esitò prima di continuare. «E soprattutto, non capisco che cosa provi veramente per me.» Sapevo che aveva ragione. Non le avevo mai detto quanto ci tenessi a lei. Poco tempo dopo partì senza nemmeno salutarmi. Un anno più tardi, dopo essermi fatto dare il suo numero di telefono dai genitori, la chiamai e parlammo un po'. Era fidanzata con un avvocato, mi spiegò, e si sarebbe sposata nel giugno seguente.
Rimasi colpito da quella telefonata più di quanto volessi ammettere. Avvenne il giorno in cui ero stato licenziato - per l'ennesima volta - e per consolarmi me ne andai da Leroy's, come sempre. C'era la solita gente e di colpo compresi che non volevo passare un'altra serata inutile fingendo che andasse tutto bene. Mi comperai una confezione da sei lattine di birra e scesi in spiaggia. Per la prima volta mi misi a riflettere seriamente sul mio futuro e mi chiesi se fosse il caso di seguire il consiglio di papà e di prendere una laurea. Tuttavia, avevo abbandonato gli studi da tanto di quel tempo che l'idea mi appariva estranea e ridicola. Chiamatela fortuna o sfortuna, ma proprio in quel momento mi passarono davanti due marines che correvano. Giovani e atletici, sprigionavano sicurezza e determinazione. Se ci riescono loro, mi dissi, posso farlo anch'io.
Ci rimuginai sopra per un paio di giorni e alla fine mio padre ebbe un ruolo decisivo. Naturalmente non gli parlai della mia intenzione... ormai non ci parlavamo più del tutto. Una notte, mentre mi dirigevo in cucina, lo vidi seduto alla sua scrivania come al solito. Quella volta, tuttavia, mi soffermai a esaminarlo bene. Era quasi completamente calvo e i pochi capelli che gli rimanevano sulle tempie erano ormai bianchi. Si stava avvicinando alla pensione e all'improvviso mi resi conto che non avevo il diritto di continuare a deluderlo dopo tutto quello che aveva fatto per me. Così mi arruolai. Il mio primo pensiero fu di entrare nei marines, visto che erano il corpo con cui avevo maggiore familiarità. Wrightsville Beach era sempre gremita di soldati delle basi di Camp Lejeune o Cherry Point, ma quando fu il momento scelsi l'esercito. Un fucile me l'avrebbero dato in ogni caso, pensai, anche se l'elemento determinante fu che il reclutatore dei marines era a pranzo quando passai in caserma, mentre quello dell'esercito - il cui ufficio era proprio sull'altro lato della strada - era disponibile. Al dunque, la decisione fu alquanto casuale; a ogni modo firmai sulla linea tratteggiata per la ferma di quattro anni e, quando il reclutatore mi diede una pacca sulle spalle e si congratulò per la mia scelta, mi chiesi in che guaio mi fossi cacciato. Era la fine del 1997 e avevo vent'anni.
Il campo di addestramento a Fort Benning fu terribile come immaginavo. Tutto lì sembrava pensato apposta per umiliarci e farci il lavaggio del cervello in modo che arrivassimo a eseguire gli ordini senza discutere, anche se erano assurdi, ma io mi adattai molto più in fretta di tante altre reclute. Una volta superato l'addestramento, optai per la fanteria. Trascorremmo i mesi successivi a fare molte simulazioni in posti come la Louisiana e il buon
vecchio Fort Bragg, dove imparammo sostanzialmente qual è il modo migliore per ammazzare la gente e distruggere le cose, e dopo un po' la mia unità, che faceva parte della Prima Divisione Fanteria - alias il Grande Uno Rosso - fu spedita in Germania. Non sapevo una parola di tedesco, ma era irrilevante, visto che quasi tutte le persone con cui avevo a che fare parlavano inglese. All'inizio fu facile, poi cominciò la vita militare. Trascorsi sette luridi mesi nei Balcani: prima in Macedonia nel 1999, poi nel Kosovo, dove rimasi fino alla tarda primavera del 2000. L'esercito non paga molto bene ma, considerando che non avevo spese di mantenimento, e nessuna occasione di fare acquisti o di divertimento, per la prima volta mi ritrovai con un po' di denaro in banca. Trascorsi la mia prima licenza a casa, tediandomi a morte. Per la seconda scelsi Las Vegas. Uno dei miei compagni era cresciuto lì e così piombammo in tre dai suoi genitori. Bruciai in un colpo solo quasi tutti i risparmi. Alla terza licenza, dopo essere rientrato dal Kosovo, avevo disperato bisogno di una pausa e decisi di andare a trovare mio padre, nella speranza che la noia della visita mi calmasse la mente. A causa della distanza ci telefonavamo di rado, ma lui mi scriveva lettere che spediva regolarmente il primo del mese. Non erano come quelle che i miei compagni ricevevano da madri, sorelle o mogli. Mai niente di troppo personale, né lacrimevole, mai una parola che lasciasse trasparire la sua nostalgia per me. Non parlava nemmeno di monete. Scriveva dei cambiamenti nel quartiere, si dilungava sul tempo e quando gli raccontai della violenta sparatoria in cui ero rimasto coinvolto nei Balcani, mi rispose che era contento che io fossi sopravvissuto, ma nient'altro. Allora compresi che non voleva saperne troppo dei pericoli che correvo. Il fatto che
rischiassi la vita lo spaventava, così cominciai a omettere i dettagli più inquietanti. Mi limitavo a riferire che i turni di guardia erano il lavoro più noioso del mondo e che la cosa più eccitante che mi fosse capitata in quelle settimane era stato cercare di indovinare quante sigarette si sarebbe fumato il mio compagno in una sera. Mio padre concludeva ogni volta con la promessa di scrivermi di nuovo presto. E, come sempre, non mi deludeva. Ormai da tempo mi sono persuaso che fosse un uomo migliore di quanto potrò mai diventare io.
Comunque, ero maturato negli ultimi tre anni. Sì, lo so, sono un cliché vivente: entrato ragazzo, uscito uomo. Ma l'esercito ti costringe a maturare, specialmente in fanteria. Ti viene affidato un equipaggiamento che costa una fortuna, gli altri contano su di te e, se sbagli, il castigo è ben più grave dell'andare a letto senza cena. Certo, ci sono troppe scartoffie, tanta noia e tutti fumano, non riescono a finire una frase senza imprecare e hanno scatoloni pieni di riviste porno sotto il letto, e poi devi ubbidire a ufficiali riservisti freschi di laurea convinti che le reclute come te abbiano il QI dell'uomo di Neanderthal, ma sei obbligato a imparare la lezione più importante per crescere, ovvero che devi essere sempre all'altezza delle tue responsabilità. Quando ricevi un ordine, non puoi rifiutarti di eseguirlo. Non esagero se dico che ci sono in ballo delle vite umane. Un'esitazione, un errore e il tuo compagno può morire. È proprio questo che fa funzionare l'esercito. A volte la gente si chiede com'è possibile che i militari rischino la vita giorno dopo giorno combattendo per qualcosa in cui magari non credono neppure. In realtà, ho conosciuto soldati di ogni idea politica, alcuni che odiavano il loro mestiere e altri che volevano diventare ufficiali di carriera. Ho incontrato geni e imbecilli, ma
alla fine dei conti noi facciamo quello che facciamo l'uno per l'altro. Per amicizia. Non per patriottismo, né perché siamo macchine programmate per uccidere, ma per il compagno che ti sta accanto. Combatti per il tuo amico, per salvargli la vita, e lui combatte per te, e tutto si basa su questa semplice premessa.
Come ho detto, tuttavia, ero cambiato. Quando entrai nell'esercito ero un fumatore incallito e durante l'addestramento rischiai di sputare fuori un polmone a forza di tossire, ma poi, a differenza del resto della mia unità, avevo smesso ed erano due anni che non accendevo una sigaretta. Avevo ridotto anche il bere, tanto che un paio di birre a settimana mi erano sufficienti e riuscivo a far passare anche un mese senza toccare alcol. La mia valutazione era impeccabile. Ero stato promosso da soldato semplice a caporale e, sei mesi dopo, a sergente, e avevo scoperto di possedere un'attitudine al comando. Avevo guidato gli uomini in battaglia e la mia squadra fu coinvolta nell'arresto di uno dei più famigerati criminali di guerra dei Balcani. Il mio comandante mi segnalò per la scuola allievi ufficiali, ma a volte ciò significa un lavoro sedentario e ancora più scartoffie, e io non ero sicuro di volerlo. Prima di arruolarmi, a parte il surf, non praticavo più nessuno sport; all'epoca della mia terza licenza avevo messo su dieci chili di muscoli ed eliminato la pancetta. Trascorrevo il mio tempo libero a correre, fare pugilato e sollevamento pesi con Tony, un istruttore di New York che parlava gridando, sosteneva che la tequila fosse un afrodisiaco ed era in assoluto il mio migliore amico. Mi convinse a farmi tatuare le braccia, come lui, e con il passare dei giorni il ricordo di ciò che io ero stato divenne sempre più lontano.
Leggevo anche parecchio. In caserma ci scambiavamo i
libri tra di noi, oppure li prendevamo in prestito dalla biblioteca del reparto finché le copertine cadevano praticamente a pezzi. Certo, nel mio caso non si trattava di Chaucer, né di Proust o Dostoevskij, o di qualche altro classico; mi piacevano soprattutto i gialli e i romanzi di Stephen King. Mi appassionai in modo particolare a Cari Hiaasen, perché aveva uno stile fluido e divertente. Pensavo che se autori del genere fossero inseriti nei programmi scolastici, ci sarebbero molti più lettori al mondo.
Diversamente dai miei compagni, in genere evitavo la compagnia femminile. Buffo, vero? Nel fiore degli anni, testosterone al massimo, che cosa poteva esserci di più naturale del cercare un po' di svago con l'aiuto di una femmina? Ma non faceva per me. Anche se, durante la permanenza a Wùrzburg, alcuni tizi che conoscevo uscivano
o si erano addirittura sposati con ragazze del luogo, ero convinto che quelle storie funzionassero di rado. La vita militare aveva un effetto negativo sulle relazioni sentimentali - avevo visto abbastanza divorzi da saperlo - e sebbene non mi sarebbe spiaciuto incontrare una persona speciale, non successe mai. Tony non riusciva a capacitarsene.
«Devi darti una mossa», mi esortava. «Dai, vieni con noi. » «Non mi va.»
«Com'è possibile? Sabine giura che la sua amica è fantastica. Alta, bionda, e adora la tequila.» «Portaci Don. Sono sicuro che ne sarebbe entusiasta.» «Castelow? Niente da fare. Sabine non lo sopporta.» Rimasi in silenzio.
«Ci divertiremo, vedrai.»
Scossi il capo, pensando che preferivo restare solo piuttosto che tornare a essere quello di un tempo, ma intanto
mi domandavo se avrei finito per condurre una vita monastica come papà. Sapendo che era inutile cercare di farmi cambiare idea, Tony non nascose la sua disapprovazione mentre usciva dalla stanza. «A volte proprio non ti capisco», dichiarò.
Mio padre venne a prendermi all'aeroporto. In un primo momento non mi riconobbe, e sussultò quando gli battei un dito sulla spalla. Sembrava più piccolo di come me lo ricordassi. Invece di abbracciarmi, mi porse la mano e mi chiese com'era andato il viaggio, poi non trovammo altro da dire e uscimmo in silenzio. Mi sentivo strano, disorientato e provavo un certo nervosismo come l'ultima volta che ero stato lì in licenza. Giunti nel parcheggio, gettai la mia borsa nel portabagagli della vecchia Ford Escort nera e scorsi sul vetro posteriore un adesivo con la scritta sosteniamo le nostre truppe. Non sapevo che cosa significasse esattamente per papà, ma fui comunque contento di vederlo.
Arrivati a casa, mi sistemai nella mia vecchia camera da letto. Era rimasto tutto identico, dai polverosi trofei sportivi allineati sulla mensola alla bottiglia mezza vuota di Wild Turkey nascosta in fondo al cassetto della biancheria. Lo stesso valeva per le altre stanze. C'erano ancora la vecchia coperta sul divano, il vergognoso frigorifero verde, il televisore che prendeva solo quattro canali, e pure male. Papà cucinò la pasta: il venerdì c'erano sempre spaghetti. A cena provammo a parlare. «Sono contento di essere tornato», esordii. Lui fece un breve sorriso. «Bene», rispose. Prese un sorso di latte. A cena lo bevevamo sempre. Poi si concentrò sul cibo. «Ti ricordi di Tony?» buttai lì. «Mi sembra di avertene parlato nelle mie lettere. Be', senti questa: crede di essere innamorato. Lei si chiama Sabine e ha una figlia di sei anni. Io ho cercato di avvertirlo che la sua potrebbe non essere una buona idea, ma lui non vuole ascoltarmi.»
Papà cosparse la pasta di parmigiano grattugiato, distribuendolo equamente dappertutto. «Oh», disse. «Capisco. »
A quel punto iniziai a mangiare in silenzio. Bevvi un sorso di latte. Buttai giù qualche boccone. L'orologio sul muro ticchettava regolare.
«Scommetto che sei esaltato all'idea di andare in pensione quest'anno», riprovai. «Pensa, finalmente potrai prenderti una vacanza, vedere il mondo.» Stavo per aggiungere che sarebbe potuto venire a trovarmi in Germania, ma all'ultimo istante mi trattenni. Sapevo che non l'avrebbe fatto, e non volevo metterlo a disagio. Arrotolammo gli spaghetti sulle forchette, mentre lui sembrava riflettere su come rispondere.
«Non saprei», disse alla fine.
Rinunciai del tutto alla conversazione e da quel momento l'unico rumore fu il tintinnio delle posate sui piatti. Dopo cena ci ritirammo ciascuno nella propria stanza. Stanco per il viaggio, mi misi a letto e mi addormentai, svegliandomi ogni ora come mi succedeva alla base. Il mattino seguente, quando mi alzai, mio padre era già uscito per andare al lavoro. Feci colazione, lessi il giornale, provai a mettermi in contatto con un amico senza riuscirci, poi tirai fuori dal garage la tavola da surf e raggiunsi la spiaggia. Il mare non era molto mosso, ma non aveva importanza. Erano anni che non salivo più su una tavola e all'inizio mi sentivo arrugginito, anche se dopo un po' persino quelle piccole scivolate sulle onde mi fecero rimpiangere di non essere stato destinato a una base vicino all'oceano.
Erano i primi giorni di giugno del 2000, faceva già caldo e il contatto con l'acqua era rinfrescante. Dal mio punto di osservazione in mezzo al mare vidi della gente sulla riva che entrava con i bagagli nelle case appena dietro le dune. Come ho detto, Wrightsville Beach era frequentata da famiglie che le affittavano per le vacanze, ma a volte c'erano anche universitari di Chapel Hill o Raleigh. Notai alcune studentesse che stavano prendendo il sole in bikini sulla veranda di una costruzione nei pressi del molo. Le osservai per qualche minuto, apprezzando il panorama, poi presi un'altra onda e trascorsi il resto del pomeriggio perso nel mio piccolo mondo.
Mi venne la tentazione di fare un salto da Leroy's, ma mi dissi che di sicuro lì non era cambiato niente e nessuno, a parte me. Allora comperai una birra al negozio all'angolo e andai a sedermi sul molo per godermi il tramonto. La maggior parte dei pescatori aveva già sgomberato le barche e i pochi rimasti stavano pulendo il pesce gettando gli scarti nell'acqua. A poco a poco il colore dell'oceano passò dal grigio ferro all'arancione e poi al giallo. Al di là del molo, guardavo i pellicani avanzare tra le onde sul dorso dei delfini. Sapevo che quella notte ci sarebbe stata la luna piena... la mia esperienza al campo mi rendeva quasi istintiva quella constatazione. Non pensavo a niente in particolare e lasciavo vagare la mente. Credetemi, l'idea di incontrare una ragazza in quel momento non mi sfiorava neppure la mente. Fu allora che la vidi incamminarsi lungo il molo. Anzi, per la precisione erano due ragazze. Una alta e bionda, l'altra una brunetta carina, entrambe poco più giovani di me. Quasi sicuramente studentesse universitarie. Indossavano short e reggiseno del costume, e la brunetta aveva una di quelle grandi borse a rete che si portano in spiaggia. Le sentivo ridere e parlare con la spensieratezza tipica di chi è in vacanza. «Ciao», le salutai quando furono vicine. Un approccio non troppo originale, e non posso dire che mi aspettassi di essere ricambiato.
La bionda confermò la previsione. Lanciò un'occhiata fugace alla tavola da surf e alla mia birra, poi distolse lo sguardo. La brunetta, invece, mi sorprese.
«Ciao, straniero», rispose con un sorriso. Poi indicò la tavola. «Scommetto che le onde oggi erano magnifiche.»
Quell'osservazione mi colse impreparato; c'era un'inattesa gentilezza nelle sue parole. Lei e la sua amica continuarono a camminare fino all'estremità del molo e io le guardai mentre si sporgevano dalla balaustra. Incerto se raggiungerle o meno, decisi di restare dov'ero. Non erano il mio tipo, o meglio, probabilmente io non ero il loro. Bevvi una lunga sorsata di birra cercando di non pensarci.
Per quanto mi sforzassi, tuttavia, non riuscivo a evitare che il mio sguardo fosse attratto dalla brunetta. Cercai di non ascoltare quello che si dicevano, ma la bionda aveva una di quelle voci impossibili da ignorare. Non la smetteva più di parlare di un certo Brad, di quanto lo amasse, di come il suo gruppo di studentesse fosse il migliore dell'università, e della magnifica festa di fine anno che avevano organizzato e del fatto che molte sue amiche frequentassero ragazzi impossibili... una di loro era rimasta addirittura incinta, ma era colpa sua, dato che era stata messa in guardia su quel tipo. La brunetta non parlava molto -non si capiva se fosse divertita o annoiata da quella conversazione - e si limitava a ridere di tanto in tanto. Di nuovo colsi una nota amichevole e comprensiva nella sua
voce, che mi sembrava familiare, il che era semplicemente assurdo. A un certo punto notai che aveva appoggiato la borsa sulla balaustra.
Erano lì da una decina di minuti quando due ragazzi cominciarono a risalire il molo. Indossavano bermuda e Lacoste, uno rosa e l'altro arancio. Il mio primo pensiero fu che uno di loro doveva essere quel Brad a cui aveva accennato la bionda. Tenevano in mano delle birre e si fecero furtivi mentre si avvicinavano alle compagne, come se volessero coglierle di sorpresa.
Infatti, giunti in fondo balzarono sulle ragazze con un grido; loro strillarono e gli rifilarono delle manate sulle spalle. I due protestarono e Lacoste rosa si versò la birra sulla maglietta. Poi si appoggiò alla balaustra, accanto alla borsa, le gambe accavallate, le braccia dietro la schiena.
«Ehi, tra poco accenderemo il falò», annunciò Lacoste arancio, abbracciando la bionda e baciandola sul collo. «Voi siete pronte?» «Sei pronta?» chiese a sua volta lei rivolta all'amica. «Certo», rispose la brunetta.
Lacoste rosa si staccò dalla balaustra, ma inavvertitamente diede una botta alla borsa, che scivolò oltre il bordo e finì in acqua con un tonfo. «Che cos'è stato?» chiese, stupito.
«La mia borsa!» esclamò la brunetta. «L'hai fatta cadere in mare. » «Scusami», rispose lui senza mostrare particolare rimorso. «C'era dentro il portafoglio!»
Il ragazzo si accigliò. «Ho detto che mi dispiace.» «Bisogna recuperarla prima che vada a fondo!»
I due giovani sembravano paralizzati, e capii che non
avevano nessuna intenzione di buttarsi in acqua. Tanto per cominciare, non l'avrebbero mai trovata e poi sarebbero dovuti tornare a riva a nuoto, il che era poco raccomandabile dopo aver bevuto come avevano fatto loro. Anche la brunetta doveva essere giunta alle mie stesse conclusioni, perché la vidi posare le mani sulla balaustra e alzarsi in punta di piedi.
«Non essere stupida. Ormai è andata», dichiarò Lacoste rosa, cercando di fermarla. «È troppo pericoloso tuffarsi, potrebbero esserci degli squali. È solo un portafoglio. Te ne compero uno nuovo io.»
«Ma mi serve! Ci sono dentro tutti i miei soldi!» La faccenda non mi riguardava, lo sapevo. Ma l'unica cosa che pensai mentre balzavo in piedi e correvo verso il fondo del molo fu: Oh, al diavolo...

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