I. Leaving

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Joaquim

Le porte scorrevoli si aprono di scatto, una moltitudine di persone avanzano, alcune che spintonano, altre che si girano in cerca del proprio bagaglio.
E poi ci sono io.
Stringo con forza il manico della valigia, gonfio il petto, espiro, butto fuori l'aria e per un istante soltanto la paura svanisce.
Il vociare mi riporta alla realtà e mi rendo conto solo adesso che sono fermo immobile nel bel mezzo della folla, all'uscita del Gate45.
Mi scanso e inizio ad avvicinarmi all'uscita: fuori, un cielo grigio mi avvolge e un'ondata di malumore mi colpisce.
"Jo, stai tranquillo. Non è nulla di grave." continuo a ripetermi. Ma niente è in grado di farmi tornare almeno un po' di speranza.
Ero così abituato alla mia città, ai suoi colori, la gioia che spuntava sui visi dei miei amici, le notti piene di stelle da renderne il cielo come mezzogiorno, che ora, vederne un'altra mi confonde e mi rattrista. Ma ho fatto una promessa e dovrò provare a mantenerla.

Il taxi svolta a destra e percorre un viale alberato, lungo e costeggiato da palazzine quasi tutte sbiadite con l'avanzare degli anni.
In fondo riesco a intravedere un campetto da calcio che mi riporta alla mente il mio vecchio amico d'infanzia, Anderson. Ogni pomeriggio mi costringeva ad accompagnarlo al campo per farmi vedere i suoi miglioramenti, e come mio solito, lo prendevo in giro, e mentivo spudoratamente quando gli dicevo che non era affatto bravo, che doveva smettere perché era solo un sogno stupido il suo, qualcosa di irrealizzabile.
Lui se la prendeva all'inizio, mi lasciava perdere per mezz'ora, poi scrollava le spalle, faceva uno dei suoi soliti sorrisi e tutto passava.
La verità è che lo invidiavo. E tanto pure. Anderson coltivava una passione, gli piaceva passare tutto il pomeriggio a sudare sotto il sole pur di riuscire a segnare un goal da metà campo. Si vantava di essere il migliore calciatore del quartiere, anche se non era così, a lui non importava, e io lo ammiravo molto per questo. Tra i due è sempre stato quello più determinato, fiducioso. Io ero solo un bambino terrorizzato dai più grandi, che chiamava la madre per qualsiasi cosa, anche per farsi rimboccare le coperte o per farsi lavare i capelli. Invidiavo il mio amico perché io non avevo quella voglia fare. Vivevo la giornata per com'era: un giorno come gli altri, monotono e insoddisfacente.
Solo ora, mentre guardo quel campetto e ripenso agli anni passati, credo di aver trovato il mio pomeriggio sotto il sole.

Salgo le scale velocemente, come se stessi percorrendo una maratona. Sono agitato, di questo me ne sono accorto da quando ho messo piede sull'aereo.
Ma non demordo, continuo la mia corsa fino ad arrivare al terzo piano. Con il fiatone cerco le chiavi dentro la mia enorme borsa marrone di cuoio, regalatami da mia madre per il mio diciassettesimo compleanno. Dopo una ricerca durata si e no un'eternità, le afferro e mentre le infilo nella serratura l'unico rumore che sento oltre il mio respiro è il tintinnio del mio portachiavi.
Con uno scatto apro la porta e un'aria di chiuso mi investe, facendomi storcere il naso. Entro e con un mano cerco l'interruttore della luce; quando mi si para davanti il soggiorno, appoggio le chiavi nel mobile affianco all'entrata assieme alla valigia.
Sbatto più volte le palpebre, sconcertato. Faccio un passo, poi un altro, e poi un altro ancora fino a ritrovarmi nel bel mezzo della stanza. Giro su me stesso, osservo la disposizione dei divani, delle cornici e della libreria semi vuota apparentemente ricoperta di polvere.
Mi volto a destra e intravedo la cucina, illuminata dalla luce che traspare dalla finestra e che espande i suoi calorosi raggi sul pavimento, creando strani effetti.
Mi incammino verso la fine del soggiorno, dove mi si presenta un lungo corridoio. La prima porta a sinistra scopro di sapere che è un bagno, piccolo ma pulito, con le mattonelle verdi chiare e un box doccia che occupa metà stanza.
Una delle camere da letto si trova davanti ad esso e subito decido di appropriarmene.
Apro la finestra della mia nuova camera e respiro un po' d'aria pulita, per quanto possa esserlo in una città così abitata come Clayton.
Abbasso il capo e prendo il cellulare dalla borsa e compongo la sequenza di numeri che ho subito imparato a memoria.
《Pronto? Jo? Sei tu?》risponde una voce femminile che riconoscerei tra mille.
Un sorriso mi compare sul viso involontariamente.
《Mãe》.
《Oh amore, come stai? Il viaggio è stato lungo? Hai mangiato? Sta piovendo là da te? Mi raccomando, nella valigia ti ho messo un ombrello nel caso dovesse succedere qualcosa..》.
《Mãe》la interrompo. 《Sto bene, ho preso un panino in aeroporto. Il tempo non è molto bello, ma non dovrebbe piovere almeno..》.
Sento un sospiro di sollievo dall'altro lato del telefono.
《Ti stai preoccupando troppo. Non dovresti. Sai perfettamente che riuscirò a cavarmela.》.
《Pequeno.. mi manchi già da ora..》sento dei singhiozzi lievi.
《Anche tu mi manchi..》le rispondo. Mi passo una mano sul viso, cercando di tranquillizzare anche me stesso. Ma non ci riesco. Stare lontano dalla persona che amo di più al mondo è straziante. Come farò senza la sua dolcezza? Ogni giorno senza il suoi abbracci, i suoi baci, la sua voglia di proteggermi da tutto e tutti?
Appoggio la testa allo stipite della finestra.
《Promettimi che supererai tutti gli esami con il massimo dei voti, d'accordo?》.
《Te lo prometto.》.
Un rumore sottile come una lama di un coltello: molto probabilmente sta nascendo un sorriso sul suo viso.
《Va bene pequeno, ora devo andare a lavoro.》dice.
Annuisco anche se non può vedermi.
《Okay, ci sentiamo domani mattina. Salutami Priscila.》.
《Certo, sarà felice anche lei di sentirti.》la sento armeggiare con le ante dell'armadio.
《Ti voglio bene mãe.》.
《Io di più.》.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Nov 15, 2015 ⏰

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