La notte passò tranquilla, senza sogni strani o sensazioni particolari. Pur non avendo puntato la sveglia, si destò al solito orario. Ne approfittò per andare in cucina e preparare un buon caffè caldo per tutti. Preparò tutto il necessario per la colazione, ed uscì ad offrirla a Daniele che, commosso da quel gesto, la ringraziò con un abbraccio. Alla fine Veronica la aiutò nelle faccende domestiche, ed insieme si recarono all'ospedale. Durante il tragitto nessuno parlò, ognuno immerso nei propri pensieri. Il percorso fu più lungo del solito a causa del traffico che, in quella giornata di settembre, particolarmente calda, sembrava quasi impazzito.
Nelly aspettava la donna all'ingresso dell'ospedale: pur sapendo che sarebbero rimaste nella camera, aveva cercato di convincerla ad uscire dalla struttura. Rimasero tuttavia lì, e si diressero insieme verso la stanza di James.
L'atmosfera era carica di tensione, e nessuna delle due riusciva a guardarsi negli occhi. Quando l'ascensore arrivò al piano uscirono entrambe quasi meccanicamente. Con un sospiro appena percettibile, Emily fermò Nelly posandole una mano sulla spalla.
- Capisco che stai soffrendo e, credimi, mi dispiace. Non è mia intenzione farti del male. Quindi, se non vuoi raccontarmi la tua storia, ti comprendo.
- Non ti preoccupare, non è il ricordo di quello che è successo a farmi stare male. Vedi, io ho preso questo lavoro quasi come una missione. Quello che mi turba e che mi fa stare così è l'impotenza: non posso fare niente per aiutare queste persone, a parte andare giornalmente a controllare le loro condizioni. Sono felicissima quando qualcuno si sveglia, ma ogni tanto c'è chi non ce la fa. Vedo la disperazione negli occhi dei parenti, e non mi rimane altro da fare che constatare l'ora del decesso ed avvisare gli altri medici. Vedi, è venuto a mancare un paziente, ma soprattutto un amico: ci conoscevamo da anni. Ho visto i figli accanto al letto; piangevano e si stringevano tra di loro. Forse è stato meglio così: aveva sofferto tanto, e solo la morte gli poteva dare sollievo. Ma il peso che ho sul cuore resta in ogni caso.
- Mi dispiace, ma ti capisco: se fossi io nella tua condizione non saprei andare avanti; mi sentirei completamente inutile. Anche io avrei voluto studiare medicina, ma la consapevolezza di questa possibilità mi ha fatto cambiare idea.
- Forse, parlarti di mio figlio, mi distrarrà un po'. Sediamoci.
Presero due sedie e si avvicinarono al letto. Istintivamente Emily strinse la mano di James. Quella stretta, in qualche modo, le offriva sicurezza. Nelly guardò la scena sorridendo. Sospirò ed iniziò a parlare.
- Devi sapere che quando mio figlio Davide fu vittima di un incidente, era un bambino di soli 9 anni. Ricordo fin troppo precisamente quello che accadde: eravamo appena usciti di casa (il bambino, mio marito ed io) con le bici nuove. Avevamo attraversato ad un semaforo che, per noi, era verde. All'improvviso, da un incrocio, è uscita un'auto a folle velocità. Non ho neanche fatto in tempo a realizzare quello che era successo, e mi sono ritrovata in terra, inginocchiata davanti a quel corpicino che sembrava volersi aggrappare con tutte le sue forze ad una vita che pareva volesse andarsene da lui. A quei tempi lavoravo già in un reparto del genere, ma in un ospedale di Potenza, visto che abitavamo lì. Ogni giorno, al lavoro, vedevo tantissime persone ricoverate, ed altrettante famiglie che si disperavano e cercavano di accudire come meglio potevano i loro cari. Era triste vedere situazioni del genere ma, come sempre accade, solo quando qualcosa capita anche a te puoi comprendere totalmente quanta sofferenza c'è in queste persone. Insomma, ero lì, cercavo di capire se fosse vivo e cosciente ma non mi rispondeva. Abbiamo chiamato un'ambulanza che è arrivata dopo poco tempo. Lo hanno portato nel mio ospedale, ed io mi sono ritrovata lì, nel reparto in cui di solito lavoravo. Con mio grande dolore non mi trovavo nelle vesti di infermiera, ma in quelle di una mamma, il cui figlio era ricoverato in quel luogo. Mi sentivo inutile, e i miei colleghi mi ripetevano quello che io ero solita dire agli altri: che in casi come quelli c'era solo bisogno di aspettare e di far sentire al bambino la presenza dei genitori. In quel momento mi resi conto che, chi si trovava dall'altra parte, annuiva ma, in cuor suo, pensava solo che la persona che era stata ricoverata avrebbe dovuto affrontare una dura battaglia, consapevole del fatto che solamente un miracolo, nei casi veramente gravi, avrebbe potuto migliorare la situazione. Sapevo che non si sarebbe svegliato facilmente, e speravo che non riportasse danni. Ricordo il periodo; era subito dopo Natale: le bici erano state un regalo. Avevamo deciso di provarle prima che lui tornasse a scuola. Quella era la terza uscita che facevamo. Avresti dovuto vederlo: gli brillavano gli occhi per la felicità, sia alla vista dopo averla scartata, sia quando ha proposto di provarle. Il giorno di Natale aveva trovato solo quel regalo, ma era felicissimo. Nella lista a Babbo Natale aveva messo altro, e comunque non molto. Quell'anno, in fondo alla lettera, aveva messo un P.S. e mi ricordo che, quando l'ho letto, mi sono salite le lacrime agli occhi. Aveva scritto: "Caro Babbo Natale, vorrei chiederti un favore. Potresti portare uno dei miei doni ad un bimbo dell'orfanotrofio? Loro non sono così fortunati come me. Scegli tu quello che vuoi portare." Sai, vicino a casa nostra c'era un orfanotrofio, e Davide, più di una volta, mi aveva chiesto se Babbo Natale, ogni anno, lasciava qualcosa anche a loro: li vedeva sempre così tristi. Era di una bontà disarmante. Una volta mi ha perfino chiesto se poteva andare a trovarli, e sono andata dal direttore per chiedere se c'era questa possibilità. All'inizio mi ha detto che era assolutamente impossibile, poi un bambino che si trovava lì aveva richiesto un incontro con mio figlio affinché lo aiutasse a studiare. Da allora, tutti i giorni, i bambini della stessa età si trovavano insieme a fare i compiti, visto che il libro di testo era identico per tutti. Ricordo il suo stato d'animo contrastante, quando uno di loro veniva adottato: da un lato c'era la tristezza di vederlo andare via, dall'altra la gioia per lui, perché finalmente avrebbe avuto una famiglia che avrebbe potuto dargli tutto l'amore che meritava.
La notizia dell'incidente era apparsa sul giornale e, dopo averlo saputo, tutti i bambini dell'orfanotrofio sono venuti più e più volte a trovarlo. Gli portavano lettere, pupazzi, giocattoli. Dopo qualche tempo abbiamo portato tutto quello che c'era nella stanza a casa. Io e mio marito avevamo ricominciato a lavorare, ed ogni giorno andavamo a trovare il nostro bambino. Mi dispiaceva non essere sempre lì, accanto a lui. Avevamo preso insieme questa decisione, perché ci eravamo resi conto che quello era l'unico modo per andare avanti: restare sempre lì nella camera ci stava distruggendo sia fisicamente che psicologicamente. Il tempo continuava a passare, ma non c'erano cenni di miglioramento; il mio ottimismo stava scomparendo a poco a poco. Dopo tre anni stavo quasi perdendo ogni speranza, quando un giorno, prima di andarmene, è successo il miracolo: ho sfiorato la sua mano, ed ho notato che non era fredda come al solito. Ho guardato il monitor: i battiti del suo cuore stavano lentamente riprendendo il loro ritmo naturale, ed il mio aveva preso a martellare. Senza pensarci ho premuto il pulsante che si trovava vicino al letto, per richiamare l'attenzione dell'infermiera che era di turno. Quando ho sentito la sua mano chiudersi in una stretta decisa intorno alla mia ero al settimo cielo. Poco dopo, però, mi è crollato il mondo addosso: mi ha chiamata, ma mi ha questo per quale motivo la luce fosse spenta. Mi sono guardata intorno, presa dallo sconforto: nella stanza c'era il sole ed era tutto aperto. Quella domanda poteva voler dire solo una cosa: non vedeva.
Il mio silenzio era più chiaro di mille parole: comprese da solo la situazione. Ma l'unica cosa che a lui interessava era di essere vivo, e il suo problema non avrebbe costituito un ostacolo. Lo lasciai nelle mani della mia collega e corsi a chiamare mio marito. Gli dissi quello che era successo, senza trascurare la sua condizione. Dopo un momento di gioia ci fu un attimo di silenzio. La felicità di saperlo di nuovo in vita era più grande di ogni altro problema, e quello che era successo ci avrebbe legato ancora di più. In effetti, fu così: dopo qualche tempo riprese la sua vita normale, e nessuno gli fece pesare la sua condizione. Imparò in breve tempo a gestire gli spazi e riuscì ad imparare l'alfabeto Braille, in modo da poter leggere e studiare. Riprese la scuola dalla quarta elementare, senza nessun problema.
Durante la sua Prima Comunione, ognuno aveva ringraziato il Signore per vari motivi. Quando è arrivato il suo turno, me lo ricordo come se fosse stato ieri, ha detto: "Io ti ringrazio per avermi dato la vita, e per avermi salvato. Non mi importa di non vedere, l'unica cosa che conta è l'amore che sento, sincero, da parte di tutti." Dopo quelle parole tutti rimasero in silenzio. I miei occhi si erano riempiti per l'ennesima volta di lacrime, e mi sentivo veramente la persona più fortunata del mondo.
Dopo qualche tempo ci trasferimmo qui, a Firenze. All'inizio la situazione è stata difficile: Davide ha dovuto abituarsi nuovamente agli spazi, prendere di nuovo tutte le distanze. A scuola le cose partirono male: era entrato in una classe in cui tutti si conoscevano di già, ed erano quindi alleati tra di loro. Al suo ingresso venne emarginato. Aveva capito la situazione e stava male. Chiedemmo l'intervento del preside, ma le cose non cambiarono. Cambiò in meglio solo quando una delle compagne, spinta dalla tenerezza, gli andò vicino. Dopo qualche tempo, ad uno ad uno, anche gli altri fecero amicizia con lui ed il suo stato d'animo migliorò notevolmente. Alcuni compagni si offrirono di ricopiare gli appunti nel linguaggio che aveva imparato. L'ultimo giorno di suola, prima di affrontare gli esami, aveva ringraziato tutti i suoi compagni, uno per uno, commuovendosi al ricordo del periodo trascorso insieme a loro, e ricordando le difficoltà iniziali e l'affetto, unito alla stima, che avevano comunque caratterizzato buona parte del suo percorso.
Io ti auguro di non dover aspettare così tanto, per poter vivere serenamente la vostra vita. Ricordati però di una cosa: non perdere mai la speranza. Credo che se qualcosa deve accadere, succederà in qualsiasi modo e in qualsiasi momento, che tu lo voglia o no.
- Ti ringrazio per quello che mi hai detto e per avermi raccontato questa tua esperienza. Anche io spero che si svegli prima di tre anni. Per dirti la verità mi piacerebbe che si svegliasse prima della nascita di Sharon, per poter vivere insieme tutti i momenti più belli. Però sono consapevole di non poter decidere io la sua sorte, altrimenti l'avrei fatto svegliare subito; quindi aspetterò fiduciosa. Guardarono entrambe l'uomo disteso in quel letto: una rievocando un ricordo, l'altra sperando di vederlo presto sveglio. Più di una volta aveva immaginato quel momento: loro due, soli nella stanza, mano nella mano. Le lacrime che rigavano il volto di lei, ormai esausta, e quella mano che si stringeva. Vedeva il dettaglio di quell'incrocio di dita e, subito dopo, il suo sguardo cadeva sugli occhi aperti e quasi sorridenti del marito. Altre lacrime venivano versate ma, questa volta, erano di gioia. Un leggero tocco la riportò alla realtà, in quella stanza immobile. Con rammarico dovette constatare che era soltanto la sua immaginazione. Sospirando, lo sfiorò con un lieve bacio, ed uscì insieme a Nelly. Nel corridoio incontrò Veronica, che stava parlando insieme al carabiniere che stava piantonando la stanza.
Tornarono insieme a casa, e, per tutto il tragitto, la donna si isolò completamente, ripensando a quello che era successo al piccolo Davide. Lo immaginò sia prima che dopo l'incidente, ammirando il suo e il loro coraggio. Quale sarebbe stata la sua reazione ad un evento del genere? Un pensiero le balenò nella mente: al suo risveglio sarebbe stato in grado di muoversi o di vedere? Al momento preferiva non pensarci. Chiuse gli occhi e si appoggiò al sedile. Si abbandonò in un sonno senza sogni, ma si risvegliò di lì a poco. Entrarono in casa, e trascorsero il resto della giornata in silenzio. Il racconto da un lato l'aveva tranquillizzata, ma dall'altro l'aveva sconcertata: non sarebbe mai riuscita ad immaginare una vita senza colori. Certo, Davide era stato fortunato a salvarsi, ma come poteva essere il suo mondo? Avrebbe ricordato il volto dei suoi genitori? Probabilmente si, ma sarebbe rimasto quello che aveva visto l'ultima volta.
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Ritorno alla vita
General FictionSi può rischiare di perdere la propria vita vacendo seriamente il propio lavoro? Emily non lo avrebbe mai immaginato, eppure il suo caro marito, e futuro padre della loro prima figlia, rischia la vita per essere stato troppo preciso... Ce la farà a...