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Il giorno seguete mi svegliai con un chiodo fisso in testa.
Non feci altro che pensare a quello che era accaduto la sera precedente.
L'immagine di Alexander era perennemente davanti ai miei occhi. Mi sarebbe piaciuto poter passare le mani in quei suoi capelli  neri come la pece. Erano di una lunghezza perfetta, come perfetto era il suo taglio d'occhi e il colore. Quel blu così intenso e raro, che avrei pagato oro per poter studiare più da vicino e catturare con lo sguardo ogni piccola venatura.

Ero seduta in cucina, con una tazza di caffè fumante stretta in una mano, la mente che girava per conto suo tra migliaia di pensieri e il ronzio del vecchio frigorifero a farmi compagnia, quando gli occhi si posarono sull'orologio bianco da parete. Segnava le dieci, dovevo assolutamente muovermi se non volevo perdere il treno.
Amavo e odiavo il mio giorno libero, perché era l'unico giorno che mi permetteva di rivederla, di abbracciare di nuovo la persona più importante della mia vita. Ma d'altro lato rivedere lei era come vivere un incubo.

Il treno partì in perfetto orario.
Come ogni volta che mi accingevo ad andarla a trovare, il mio animo viveva stati altalenanti e in qualche modo pensare al signor Chapman allietò l'ora di viaggio.
Arrivai alla clinica poco prima che iniziasse una di quelle fastidiose pioggie di inizio estate.

Quel posto era molto carino, per quanto una clinica potesse esserlo.
Accogliente era il termine giusto, non era freddo e nemmeno mal ridotto. Aveva tutta l'area di essere una grande casa in cui viveva una grande famiglia.
Le infermiere erano particolarmente gentili e cordiali, ma infondo erano pagate per esserlo.
Dorothy era la mia preferita. Una donna di mezza età parecchio in carne, che sentivo spesso anche telefonicamente. Il mio pensiero era sempre rivolto a lei e Dorothy capiva perfettamente come mi sentivo a riguardo, quindi mi teneva sempre aggiornata.

Abbracciai la mia infermiera preferita prima che mi informasse delle ultime situazioni.
"Continua a mangiare poco". Come al solito, pensai.
"Ma ieri mentre ero in stanza con lei, le ho parlato di te e non ci crederai mai...Ha sorriso Cara". Quell'informazione mi riempì di gioia. Per quanto poteva apparire come una cosa banale, per me era l'avvenimento più significativo degli ultimi anni.
Entrai nella stanza dopo aver battuto una volta il pugno leggero sulla porta.
La vidi subito, seduta su una sedia a dondolo, con la sua vestaglia rosa e una coperta che avevo comprato io tempo fa sulle gambe.
La parte più importante della mia vita era lì, d'avanti a me... eppure era come se non esistesse.
Dio quanto faceva male!
Presi la sedia posizionata d'avanti alla scrivania e la misi d'avanti a lei.
Mi accomodai prendendo le sue mani fredde tra le mie.
Alzò leggermente lo sguardo nella mia direzione e io le sorrisi con gli occhi colmi di lacrime, che ero obbligata a trattenere.
"Ciao mamma".
Pronunciare quella parola e non trovare nessun riscontro faceva male.
Accarezzai i suoi palmi e bacia dolcemente le dita.
Mi mancava da morire!
"Ho conosciuto un uomo mamma. In realtà ci ho parlato solo due volte, ma per qualche strana ragione sento che mi piace, per adesso credo che sia solo... un amico...".
Le raccontai tutto quello che era successo la notte precedente, amavo poterle parlare proprio come facevamo un tempo.
La guardavo affascinata, la mia mamma era la donna più bella del mondo. Non le assomigliavo per niente, ero il suo opposto.
I suoi capelli biondi costeggiavano un viso dai lineamenti perfetti, e si abbinavano perfettamente al celeste dei suoi occhi.
Avevo sempre amato quella donna più di qualsiasi altra cosa e  non riuscivo ad accettare che fosse in quello stato.
Ma in effetti nessun figlio l'avrebbe mai accettato.
Quello stupido incidente aveva distrutto la nostra famiglia, portandosi via il mio papà e lasciando mamma in quello stato.
Da quando si era svegliata dal coma, quattro anni prima, parlava raramente e non ricordava più nulla. La sua mente aveva rimosso completamente i ricordi di tutta una vita. Quindi ovviamente anche me. Era stata dura da accettare, vedere tua mamma, toccarla, accarezzarla, parlarle, con la consapevolezza che per lei ero solo un'estranea... tutto ciò mi provocava un dolore assurdo.
Ogni volta la mia anima si lacerava un po' di più.
"Mamma mi manchi, non sai quanto vorrei che ritornasse tutto come un tempo. Eravamo una bella famiglia sai io, tu e papà".
Continuai a fissarla sperando in un piccolo cenno da parte sua, che mi desse speranza,  ma non fece nulla.
Restai un'altra ora a parlarle.
Quando andai via le baciai la guancia promettendole che sarei tornata a farle visita la settimana seguente.

Tornare a casa dopo aver fatto visita a mia mamma non era affatto semplice. La pensavo in quella clinica, da sola senza me e mi sentivo in colpa. Ma infondo avevo semplicemente fatto quello che mi avevano suggerito i medici. Aveva bisogno di controlli continui per il danno celebrale che aveva riportato e l'unica soluzione era stata metterla in una clinica.
Ma ogni volta che la pensavo il cuore iniziava a far male.

Salii le scale del palazzo quando ormai già era buio.
Quella sera ero particolarmente stanca, andare alla clinica mi aveva scaturito parecchie emozioni.
Avevo bisogno di riposare e di staccare la mente da qualsiasi problema.

Quando ormai ero sotto le lenzuola, fresca di doccia, mi regalai qualche minuto per pensare all'uomo che continuava a tormentare i miei pensieri, senza una ragione valida. O meglio, ero io  che non riuscivo a darmi una spiegazione, perché da qualche parte nel mio subincoscio il motivo c'era.

Forse semplicemente aveva ragione Sophia. Avevo bisogno di uscire, iniziare a vivere come una ragazza della mia età e finirla con l'autocommiserarmi. Non serviva a nulla, ero consapevole, eppure era la cosa che mi riusciva meglio.

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