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Una ventina di persone salirono le scale che portavano all'interno del volo 191347 diretto a New York City: dopo due ore di attesa, a causa di un guasto, i passeggeri erano contenti di essere finalmente saliti sull'aereo; bè, tutti tranne me, costretta a trasferirmi dall'altra parte del mondo senza aver avuto la possibilità di dire di no, anche se ora come ora, a un passo dalla mia nuova vita, avrei davvero voluto farlo.

Era inconcepibile, inconcepibile! Ma...andiamo con ordine.

La settimana prima ero appena tornata da scuola, e come al solito mi aspettavo di sentire, dopo aver aperto la porta di casa, il suono della chitarra elettrica di mio fratello che strimpellava a tutto volume, invece regnava il silenzio.

Mi tolsi dalle spalle lo zaino pieno di libri e quaderni

<<Hai capito di non essere poi così bravo a suonare?>> esclamai.

Nessuna risposta.

Afferrai una mela dal portafrutta sul tavolino in entrata, ma quando varcai la porta della sala, mi fermai di colpo.

Non era tanto il fatto di non sentire nessun rumore, che mi fece preoccupare, ma bensì il fatto di trovare i miei, che a quell'ora dovevano essere entrambi al lavoro, seduti sul divano.

Mi girai verso mio fratello Marco, in cerca di una risposta, ma lui non mi guardava.

Lo osservai: aveva una faccia cupa, cosa che raramente accadeva dato che tra noi due lui era quello che trovava sempre il lato positivo delle cose; al contrario di me.

Nonostante fossimo gemelli, eravamo molto diversi l'uno dall'altra. Lui alto e moro con gli occhi così scuri da sembrare neri, io bassa, con i capelli rossi e gli occhi verdi; potevo essere scambiata per un elfo delle fiabe.

Valutando l'irrealtà di quella situazione, mi appoggiai allo stipite della porta che c'era in salotto e domandai con improvvisa agitazione: <<Perché siete arrivati a casa così presto dal lavoro? C'è qualche problema?>>

Nessuno dei miei genitori accennava a dire qualcosa, semplicemente se ne stavano seduti, a guardare sia me che mio fratello.

<<Insomma? Me lo dite voi cosa succede, o devo chiederlo ai vicini di casa?>> domandai spazientita.

Quella situazione non mi piaceva affatto, non si presagiva nulla di buono quando ti ritrovavi nella stessa stanza con tutta la famiglia al completo. L'ultima volta mi avevano detto che era morto il cane.

<<Siediti, Pulce...>> cominciò mio padre con un tono che confermava la mia tesi: <<Sai che il mio lavoro molte volte mi porta in nazioni straniere, dove spesso resto anche per settimane?>>

Annuii, mentre mi issavo con le braccia, sistemandomi sul tavolo con le gambe a penzoloni.

Dovevo essere pronta a tutto.

Mio papà faceva il giornalista estero e per questo la maggior parte dell'anno non faceva che viaggiare e andare da un paese all'altro, tornando a casa solo per le feste e per qualche rara occasione.

<<Ebbene, sono riuscito a trovare un lavoro in un telegiornale, dove potrò condurre io la trasmissione e decidere quali notizie mandare in onda; guadagnerò più di quello che ottengo ora e potrò stare con voi per più di una semplice settimana...>>

<<Bé, ma è fantastico!>> esclamai non riuscendo ancora a capire il motivo di tutta quella scena preoccupante.

Papà stava per continuare a parlare, ma fu interrotto da Marco, che fino a quel momento se ne era stato zitto a mordicchiarsi nervosamente un'unghia: <<No, non lo è! Non è per niente fantastico!>>

Lo guardai senza capire.

<<Il lavoro di papà è a New York! Negli Usa!>>

Mi bloccai immediatamente, lasciando cadere per terra la mela che si era fermata a mezz'aria.

Ero sicurissima di aver capito male, era impossibile che i miei lasciassero tutto quello che conoscevano solo per un lavoro; loro non erano tipi del genere, amavano pianificare e avere tutto sotto controllo, e quella di certa non era una cosa controllabile. Ok mi aspettavo qualcosa di terribile, magari la fine del mondo o non so cosa, ma mai questo!

<<Andremo in America, tesoro, tutti e quattro!>> ripetè mia madre, tutta eccitata. Non riuscivo mai a capire se lo facesse apposta o se veramente non capisse la gravità della cosa.

La guardai con riluttanza, odiando quel suo tentativo di rendere la pillola più facile da mandare giù.

<<A...A...America?!>> balbettai: <<Andremo in America? Per sempre?>>

<<Sì, tu e Marco andrete in una scuola a New York e tutti noi abiteremo in un appartamento vicino a Central Park.>>

Mi ci volle qualche minuto per poter ricominciare a parlare; avevo la bocca secca e le mani mi erano diventate improvvisamente fredde.

Deglutii.

No, i miei stavano di sicuro scherzando; come avrei fatto ad allontanarmi dalla mia città, dalla mia famiglia, da tutto quello che conoscevo? Come avrei fatto senza poter più vedere la mia migliore amica Elena?

<<Ma non c'è nessun'altra possibilità?>> feci un tentativo.

<<No, mi dispiace, ma dovete seguirmi tutti negli Stati Uniti.>> concluse mio padre, con tono dispiaciuto ma fermo.

Nessuno diceva una parola, o si guardava in faccia.

Io e mio fratello stavamo cercando di metterci in testa l'idea che avremmo dovuto ricominciare tutto da capo, anche se di certo per lui non ci sarebbero stati problemi, data la sua spontanea voglia di fare nuove conoscenze, anche se in quel momento sembrava più turbato che mai.

Quello che mi preoccupava veramente era come avrei fatto io a sopravvivere in un mondo completamente diverso da quello in cui ero abituata, con nuove persone che parlavano una lingua diversa dalla mia, timida e insicura com'ero. Il fatto era che potevo anche essere simpatica e spiritosa, ma prima si doveva passare oltre ai miei quattro strati di timidezza, paura, leggera antipatia mischiata ad un pizzico di menefreghismo.

E proprio quando stavo mettendo in conto queste cose già di per se terrificanti, mia mamma mi diede il colpo di grazia.

<<Partiremo sabato prossimo.>> dichiarò ad un certo punto.

Sabato prossimo...SABATO PROSSIMO?!

Sgranai gli occhi, fissando i miei genitori: LORO non potevano farmi una cosa del genere!

<<Mi dispiace Anna...ma era l'unico volo disponibile per questa settimana...>>

Non era possibile.

Scattai in piedi, le braccia lungo i fianchi con le mani strette a pugno. Sentii la rabbia montarmi dentro.

<<Di sicuro ci saranno altre occasioni per poterli vede...>>

<<Quali altre occasioni mamma?!>> la interruppi:<<Dopo tutto quello che ho fatto per meritarmeli!>>

<<Ascolta è stata una cosa improvvisa e io non potevo sapere che saremmo dovuti andarcene...>>

<<Taci! Non...non dire altro.>>

Avevo bisogno di stare da sola.

Mi voltai e corsi in camera mia, ignorando le urla di mia mamma che mi dicevano di stare lì con loro per parlare con calma.

Sbattei la porta dietro le mie spalle, girando la chiave nella toppa. Scivolai per terra tirandomi le gambe al petto. Qui, dove nessuno poteva vedermi, mi lascai andare, cominciando a piangere.

Ore 15.15...Esprimi un desiderio.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora