Capitolo 1
La follia del folletto Outrè
È divertente pensare ora a come, quando mi svegliai quel mattino, non avevo idea di quanto quella giornata avrebbe cambiato tutto.
M'illudo però di ricordare che, quando mi svegliai, avvertii un calore tanto speciale quanto insolito, accompagnato da un incoerente brivido che veloce mi percorse la colonna vertebrale, paralizzando al suo passaggio tutti i muscoli che incontrava.
E quando la pesante trapunta di piume che mi ricopriva venne rapidamente (per non dire selvaggiamente) spostata, irruppi nel freddo silenzio mattutino della mia grande casa con una gioiosa esclamazione.
«Buongiorno, fortunato mattino!»
Per quale ragione avessi esclamato ciò era tanto ignoto quanto il perché della mia gioia.
Volevo forse informare le stanze vuote di quanto la mia giornata si prospettasse proficua?
O forse credevo che i muri si interessassero ai miei affari?
Una sola cosa è certa: il mio animo giovane e allegro ben poco si curava di essere il solo ad abitare quella grande, vecchia casa, e di certo non si straniva dei suoi stessi comportamenti.
Consapevole del ritardo che incalzava, nonostante questo fosse ormai considerato il mio marchio di fabbrica, mi alzai in gran fretta e mi preparai.
Non mi piaceva quella casa, quella mia informale prigione, e se non fosse in passato appartenuta a varie generazioni della mia famiglia, l'avrei certamente venduta da tempo.
Odiavo le finestre eleganti ammiccavano perfidamente e la porta di scuro legno massiccio pareva un ghigno beffardo che mi rammentava le mie disgrazie passate.
Detestavo i vecchi mobili reduci di mesi di spolverate arretrate che muti e che dipingevano errori e dolori di ben tre generazioni.
E diamine, quella casa era davvero troppo grande per me soltanto!
Eppure qualche magica catena mi teneva legato a quel castello degli orrori, e quasi provavo nostalgia e rimorso ad abbandonarlo, ed ecco la ragione del mio ritardo.
O meglio, ecco ciò che amavo pensare fosse, la ragione del mio ritardo cronico.
Ma quel giorno forse fu questa davvero la ragione, poiché mi fermai accanto alla porta e per qualche istante tornò vivo il ricordo triste del dramma, svoltosi accanto a quelle mura innocenti colpevolizzate da me per egoistiche ragioni, per cause infondate, ed allora rimasi là, uno, due minuti.
Ricordare per dimenticare.
Far disordine per riordinare.
È lo stesso concetto, cambiano solo i vocaboli, i verbi.
Quando finalmente uscii, l'aria invernale mi arHallì le gote, gravando sul mio aspetto d'uomo professionale e trasformando il mio viso in quello di un bambino.
Lo detestavo.
Odiavo sentitamente il fatto che il mio volto dovesse mostrare l'esigua cifra dei miei anni, mentre la mia mente e le mie esperienze erano da tempo quelle di un uomo maturo.
Difatti non uno mancava a stupirsi quando veniva a conoscenza della mia giovane età, e spesso questa pecca numerica mi aveva fatto perdere clienti che mi avevano erroneamente considerato ingenuo ed inesperto.