Capitolo 12

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La sera del mio ritorno avevamo festeggiato nella tenuta con champagne e pesce fresco, che Emily si era fatta cucinare da un ristorante di Cecina.
Dire che la cena era stata divina è superficiale: avevo adorato ogni boccone di cibo, e soprattutto la dolce fragranza che sbocciava in bocca ad ogni morso.
Le portate consistevano in un antipasto di mare, con cozze, vongole e ostriche, pasta all'aragosta, astice alla catalana e sorbetto al limone.
Eravamo solo noi quattro, e Philip, che però si era addormentato sul divano prima del secondo.
Mi sentivo...bene. Insomma, non ero certo raggiante, ma posso affermare di aver apprezzato molto l'idea e il calore dei miei familiari attorno a me.
Forse avrei dovuto sentirmi pazzo, visto che si stavano occupando di me come se fossi stato un bambino, ma non lo avevo fatto: in fondo adoravo ancora avere tutte le attenzioni su di me, che si trattassero di premure per farmi ragionare, o semplice ammirazione.
Poi era arrivato il momento del brindisi.
- A Noah, con la speranza che stia meglio, o che integri il suo dolore con la vita quotidiana. - aveva detto Trevor, stupendomi in positivo. Non lo credevo certo immaginato che sapesse quello che mi era successo, men che meno che avesse tali capacità espressive.
Forse era vero, che non era un idiota.
- Grazie, Trev. -
Quando tutti avevano alzato il bicchiere di champagne, picchiandolo l'uno contro il dorso dell'altro, Atena aveva sussurrato - A Balthazar. -
E anche io, dopo pochi secondi, l'avevo ripetuto, senza versare neanche una lacrima.
Anche se pronunciare il suo nome mi provocava ancora un dolore lancinante al petto, era la prima volta che non piangevo dopo averlo fatto.

- Partiamo domani dall'aeroporto di Pisa- mi aveva detto Emily tre giorni dopo, posando sul lettino il figlio.
- Ehy...Non piangere, Em'. Starò bene, te lo prometto. E poi sono solo pochi giorni, non penso che combinerò molto. -
- Lo so, Noah. Lo so. E' solo che sto pensando a quello che starai provando, e il solo pensiero mi fa stare male. -
Si era avvicinata a me: con i tacchi la sua fronte sfiorava la mia, così ce l'avevo appoggiata sospirando, le sue mani fredde sulle mie spalle nude.
- Promettimi che ritornerai a Los Angeles, a casa nostra. E che proverai a parlare con la mamma. -
Poi, sussurrandomi in un orecchio, aveva detto: - Lei ti vuole bene, No'. Non dimenticarlo mai. -
- Te lo prometto, sorellina. Lo prometto -
Mi aveva accarezzato una guancia, indugiando per qualche secondo per sfiorarmi gli zigomi.
- Ti voglio bene, Noah. -
- Anche io, Emily. Anche io -

La mattina dopo io e Atena avevamo salutato dalla finestra della mia camera la piccola famiglia di mia sorella.
Emily, in jeans larghi e sdruciti abbinati ad un cardigan intrecciato, teneva Philip per una mano, mentre nell'altra stringeva quella possente del fidanzato, che sembrava una rockstar off-stage, tant'era casual e disinvolto.
Anche io avrei voluto una famiglia così: avrei voluto stringere la mano della persona che amavo, baciargliela con tutta la passione del mio corpo, avere figli e crescerli.
Ascoltare mentre imparavano le costellazioni e spiegargli la mitologia greca, e perché non avevano una mamma.
Sarebbero cresciuti ascoltando musica classica e punk-rock, indossando le magliette delle band più disparate.
Avrebbero conosciuto ogni schieramento politico, anche se noi eravamo profondamente anarchici, ogni ideale umano, ogni modo di pensare e agire.
Certo, avrei assecondato i miei figli con tutto me stesso, in qualunque caso.
Avrei tanto voluto anche un matrimonio: e non per la cerimonia, o gli invitati, o il buffet.
No, solo per ufficializzare l'unione che mi aveva dato così tanto, ma che mi aveva anche tolto tutto.
- Sembrano felici. - aveva sussurrato Atena, sorridendo di sbieco.
- Già. Se lo meritano, dopo tutto. -
- Ognuno lo merita, Noah. -
- Io non ne ho avuto la possibilità, quindi, no, non sono d'accordo, Atena. Mi spiace. -
Atena aveva atteso qualche secondo, cercando le parole giuste per contraddirmi -come al solito.
- Senti, Noah caro. Capisco che la cosa sia inaccettabile, e triste, e che non hai potuto goderti la vita che meritavi. Lo capisco perfettamente, se me lo concedi. Ma non puoi pensare che la tua vita sia un completo disastro, e che la persona che amavi sia morta per un incidente. Perché non è così. Non è assolutamente così, per quanto sia terribile da dire. E mi dispiace da morire, lo giuro, ma è ora di ragionare, Wilbur. -
Avevo spalancato la bocca per la schiettezza della ragazza: come osava parlare della morte di Balthazar come se fosse stata una critica, invece che la persona che avevo scelto per costudire tutti i miei segreti più intimi, anche quelli che mia sorella non conosceva?
Comunque, non avevo replicato. Aveva perfettamente ragione: ad ogni modo era Balthazar ad essersi suicidato, che la colpa fosse mia, oppure no.
E la cosa continuava, dopo quasi due anni, a tenermi sveglio ogni notte e a farmi desiderare di morire ogni volta che ero da solo.

Il giorno della partenza per Londra era arrivato troppo velocemente.
Io e Atena avevamo parlato abbastanza spesso, ed eravamo addirittura andati a fare shopping e in uno dei ristoranti che ci aveva consigliato Emily, ma non avevamo mai sfiorato l'argomento diario.
Perlopiù, ci eravamo limitati a sistemare i nostri affari immobiliari, come l'affitto della sua casa a Volterra e quello della mia a Londra.
Il viaggio in aereo era stato tranquillo: ero infatti consapevole che quella che stavo iniziando era una nuova fase della mia vita, quella subito successiva alla più importante che avevo avuto, e che quindi sarebbe stata difficile, anche se avevo di nuovo qualcuno a cui chiedere aiuto in caso di necessità.
Vedevo di nuovo i profili la città che era stata lo scenario del mio periodo buio.
Pioveva e l'aria era fredda, e questo mi aveva ricordato perché mi ci ero trasferito, oltre che per il fatto che fosse da sempre una delle mie città preferite, dopo Stoccolma e LA.
Quella era la città giusta alle lacrime, che non si sarebbero mai sentite sole, accompagnate tristemente dalla pioggia e dallo scorrere lento e ponderato del Tamigi color malva.
- Quanto rimaniamo? - mi aveva chiesto lei, seduta di fianco a me sul taxi che ci stava portando a casa mia.
Nella sua voce c'era sincero timore, ma anche preoccupazione quasi fraterna -gli occhi tentennanti ne erano la riprova.
- Un paio di giorni. Il tempo di preparare le mie cose -e ti assicuro che sono poche- e di parlare con il direttore dell'edificio. Poi, se ti va, potrei portarti a cena nel mio ristorante preferito -
Atena aveva sorriso, mostrando il piercing al labbro, perfettamente intonato al trucco nero - rossetto compreso- e la tuta di pelle nera super-attillata.
Sembrava una principessa dark, ma la malizia non era nelle sue intenzioni.
- E non ti riconoscerà qualcuno? -
- Mi conoscono bene. E comunque non è molto frequentato. E' tranquillo e informale. Fanno un cheesecake da paura! - avevo spiegato, facendole aggrottare le sopracciglia nere e spettinate.
- Ma non ti eri...come dire...-
- Chiuso in casa senza vedere la luce del sole? - avevo quasi urlato istericamente, richiamando l'attenzione dell'autista calvo e tarchiato.
Atena mi aveva fatto segno di abbassare la voce, portandosi un dito davanti alla bocca scura, proprio come si farebbe ad un bambino che non sa contenere le emozioni.
- Scusami. Insomma, diciamo che sono uscito, almeno una decina di volte. E poi è ad un isolato appena da casa mia, quindi...-
Un altro sorriso. Sembrava che le cose tra noi stessero tornando alla normalità. E per la prima volta la normalità era tutto quello di cui avevo bisogno.

Young & Unclean - Giovani e ImpuriDove le storie prendono vita. Scoprilo ora