empire state of mind

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Ottobre è il mese che preferisco.
New York, in autunno, si riempie di foglie gialle e rosse che tappezzano Central Park, ci sono molti più turisti francesi e spagnoli e qualche negoziante già si prepara per le svendite natalizie.
A ottobre evito i taxi, allungo il tragitto per l'ufficio, qualche volta riesco perfino a non imprecare contro i ciclisti. Vivo a New York da più di sette anni e, nonostante l'Inghilterra sia tutta un'altra storia, l'autunno americano mi ricorda un po' di quando io e mia sorella tornavamo da casa dei nostri nonni con i cappotti pesanti e i viali zuppi di fogliame scolorito.
Non che sia un nostalgico o cose del genere, più che altro un po' malinconico in certe giornate. Quelle certe giornate in cui non succede assolutamente niente, in cui c'è una routine che si ripete senza sosta, quelle che passerei davanti ad una partita di football con una birra in mano ma in cui, puntualmente, trovo il frigo vuoto e solo le repliche di una stupida gara di golf.
Giornate, quelle giornate, in cui magari Naya si ferma a dormire da sua sorella perché suo marito ha di nuovo chiesto il divorzio e in cui io quindi mi ritrovo con l'appartamento vuoto e una pizza da ordinare e poi scaldare.
Giornate, quelle giornate, che sono esattamente come questa, ma grazie al cielo oggi è giovedì.


Il bar l'ha trovato Zayn almeno cinque anni fa, quando ancora studiavo all'università e non dovevo abbottonare le camicie fino all'ultima asola per coprire i tatuaggi.
È a soli due isolati da casa, ha la scritta Revolution appesa sopra all'entrata, una vetrata che s'affaccia sul marciapiede e i tavoli rotondi e un po' scheggiati, ma Niall dice che offrono una delle migliori birre della città - Amico, questa è vera Guinness irlandese, non quello schifo che compri da Wal-Mart che costa un occhio della testa! - e in più, Isaac, il proprietario, ci offre sempre il terzo giro.
Deglutisco nervosamente nel momento esatto in cui l'orologio sopra al bancone segna le nove spaccate. Mi sciolgo la cravatta che ho scordato di togliere a casa, sbottono i polsi della camicia bianca che non mi sono cambiato e mi massaggio le tempie.
Naya non ha risposto alle mie chiamate ma mi ha scritto che resterà da sua sorella per la notte, che questa è ancora sconvolta da quando suo marito ha sbattuto la porta di casa e che lei proprio non se la sentiva di lasciarla da sola.
Io ho lasciato il telefono tra i cuscini del divano per evitare di tirarlo fuori e scriverle ancora, e adesso un po' me ne pento.
Il nostro appartamento è privo di qualsiasi cosa senza Naya. Posso alzare il volume della televisione o quello dello stereo, posso fumare tutto il pacchetto di sigarette che compro solo nel weekend e posso anche rimpinzarmi di cinese d'asporto, ma niente compensa la sua assenza. E questo un po' mi spaventa, anche se faccio finta di niente la maggior parte delle volte in cui ci penso.
Passano almeno cinque minuti abbondanti, prima che Louis varchi la soglia del locale. Ha addosso un orribile impermeabile giallo che mi fa sorridere, un paio di jeans chiari e delle scarpe da ginnastica. Lancia un sorriso di saluto a Isaac dietro al bancone, poi guarda verso la mia direzione e mi raggiunge.
"Credevo che questa giornata non finisse più - rimane con un maglione blu scuro mente si toglie l'impermeabile e scivola sul divanetto del tavolo, con un sospiro - Sai? Dovresti ritenerti fortunato a vedermi ancora vivo"
Ridacchio divertito per la sua esuberanza, Louis ha ventinove anni ed è comunque un ragazzino. Ha già qualche rughetta intorno agli occhi chiari ma i capelli ancora folti, di un castano noce. Non si è fatto la barba ma dimostra comunque meno anni di quanti ne abbia effettivamente, ha il volto stanco ma allo stesso tempo sereno.
Allargo i gomiti sulla tavola e "Non ti preoccupare, Lou – dico – ringrazio Iddio ogni giorno per questo"
Lui non risponde ma punta il suo sguardo divertito al mio fianco mentre io con la coda dell'occhio individuo i capelli biondi di Niall mentre si siede accanto a me goffamente, puntando i palmi delle proprie mani screpolate sulla superficie del tavolo.
"Ringraziare per cosa?" domanda con un sorriso, osservandoci entrambi.
Niall di anni adesso ne ha ventotto e davvero, se solo mi facessi crescere la barba probabilmente potrebbe risultare benissimo mio figlio. I suoi lineamenti sono più marcati rispetto a quando entrambi seguivamo il corso di letteratura francese insieme, ma ha comunque ancora i capelli biondi e gli occhi vispi e blu, il sorriso bianco e dritto e i modi di fare sempre un po' impacciati nonostante la laura in infermieristica e una figlia in giro per l'appartamento.
"Per avere Louis Tomlinson con noi anche questo giovedì" gli spiego, riprendendo l'argomento iniziale. Scivolo a capotavola per avere una visione più completa del locale e Niall ride a bocca aperta, mostrando la dentatura perfetta che dieci anni abbondanti di apparecchio gli hanno regalato.
Louis invece alza gli occhi al cielo e trattiene un sorriso, "Come va?" domanda poi, cambiando argomento.
Io alzo le spalle con fare indifferente e penso che se non avessi lasciato le sigarette a casa probabilmente chiederei ad Isaac di lasciarmi fumare qui dentro. Invece giocherello distrattamente con le mie dita lunghe e lascio che Niall inizi a raccontare la sua giornata sicuramente più interessante della mia.
"Tutto bene - risponde, leccandosi le labbra - sono solo molto stanco. C'è stato un incidente sulla Fifth Avenue e il pronto soccorso era un casino allucinante, ho finito neanche un'ora fa. Tu come stai?"
Louis annuisce brevemente e stringe le labbra in una linea dura: "Stanco anch'io - mormora con un sospiro - Questa settimana ho passato praticamente tutte le notti in bianco, Grace ha avuto la febbre alta fino a stamattina e beh, lo sapete come sono i bambini con l'influenza"
Le mani iniziano a prudermi fastidiosamente mentre osservo Zayn e Liam prendere posto tranquillamente uno vicino a Niall e l'altro accanto a Louis.
Stanno già sorridendo, Liam ha tagliato di nuovo i capelli e sembra ancora più elegante del solito mentre Zayn indossa uno snapback dei Lackers con la visiera al contrario e una felpa con la scritta New York University, probabilmente risalente al primo anno.
Di Zayn Malik, se non lo conoscessi come le mie tasche, direi che sia un bambinone, uno di quelli che non c'hanno proprio voglia di crescere. E siccome lo conosco e lo conosco bene, penso solo che certe volte le apparenze c'azzeccano fin troppo.
"Veramente, Niall - s'inserisce nella conversazione tranquillamente, con le sue vocali dell'Ohio e lo sguardo divertito - Harry non lo sa come sono i bambini con l'influenza"
A questo punto rimpiango di aver lasciato davvero il pacchetto di sigarette a casa e forse di non esserci restato io stesso. Mi sento rigido, una vampata di calore fastidioso mi fa vibrare un attimo e mentre quelli che dovrebbero essere i miei migliori amici ridono, io combatto con l'istinto di passarmi una mano tra i capelli per la frustrazione.
"Molto divertenti" sibilo però, deglutendo.
"Scusaci, amico - Liam maschera la sua ilarità con un colpo di tosse, mentre mi guarda - ma Zayn ha ragione. Tu e Naya siete gli unici a non aver ancora avuto figli - poi alza le sopracciglia folte e aggiunge subito - Non che questo sia un male!"
Nascondo le mie mani sotto al tavolo e stringo forte i pugni, chiudendo un attimo gli occhi perché questa è una conversazione che affronto almeno quattro volte al giorno con la sorella di Naya, con la mia, con mia madre per telefono, con i miei colleghi, la mia segretaria, l'anziana dell'interno 24 e perfino in quelle rare telefonate con mio padre e non c'è davvero bisogno di parlarne anche adesso.
"Mah sì, pal! - esclama Niall, stringendomi forte una palla - Tu e Naya avete tutto il tempo del mondo per sfornare pargoli e rimpiangere i giorni senza pannolini e coliche come facciamo noi"
Poi fa un cenno esperto verso Isaac, che annuisce soltanto, facendo troncare la conversazione.
Faccio finta di non sentire il nodo all'altezza dello stomaco e bevo quasi mezzo boccale di birra con appena me lo piazzano davanti al volto.
Ed è vero che io e Naya non abbiamo ancora avuto figli, che la compagna di Liam, Hannah, aspetta una bambina dopo aver avuto Michael, che Grace ed Edward, i gemelli di Louis e Dana, tra un paio di mesi compiono tre anni e che in fin dei conti sono tutti dei padri di famiglia belli e buoni, ma siamo ancora giovani, giusto?
Naya ha solo venticinque anni e io ventisette, siamo reduci da un imbarazzante matrimonio in municipio nel quale lei ha riso per la maggior parte della cerimonia solo perché sua madre non accetta la convivenza senza fedi e io ho appena ottenuto una promozione in ufficio, dove lo mettiamo un bambino?
Non ne abbiamo mai parlato, comunque. Ne parlano tutti, non c'è persona che non ce lo ricordi almeno una volta al giorno, ma poi quando ci mettiamo a tavola alla sera o sul divano, stretti e vicini, nessuno dei due accenna all'argomento.
Ma io ci provo, ci provo davvero a fare finta di niente, a non sentire le voci fastidiose che mi ronzano in testa quando non riesco a dormire. Ci metto d'impegno a non guardare gli occhi fieri di Louis quando a Central Park osserva Edward provare a colpire la palla con la mazza da baseball mentre Grace m'infila le margherite tra i capelli, però non ci riesco.
Cerco di non pensarci, e va tutto bene finché Naya non c'è e ritornano quelle giornate.
Non credo che lei voglia un figlio, ad ogni modo, il lavoro la sta prendendo tanto, è coinvolta e sempre attiva, probabilmente neanche ci pensa, ad un figlio.
Il pensiero di Naya con un bambino mi fa sorridere perché, nonostante tutto, credo che sarebbe una madre fantastica. Apprensiva, forse un po' troppo protettiva, con la sua voce che s'inclina quando cerca di non ridere e con lo smalto tutte le settimane diverso.
Emetto un gemito di frustrazione e mi appoggio stancamente allo schienale del divanetto, cercando di cogliere i tratti della conversazione che si sta avendo al tavolo.
"Sasha ieri è tornata dall'asilo in lacrime - sta dicendo Zayn, le dita a intrappolare il boccale di birra freddo  - Un suo compagno di classe le ha tirato le trecce per tutto il giorno"
Liam corruga le sopracciglia in un'espressione apprensiva e io sorrido appena mentre lui "Spero che tu abbia fatto qualcosa" dice, risoluto.
"Oh, andiamo Liam! - esclama subito l'altro, appoggiandosi allo schienale del divanetto - Hanno tre anni! Non potevo di certo presentarmi a casa del marmocchio e minacciarlo - poi alza un angolo della bocca e ghigna - ma ho detto a Sasha dove colpirlo, sapete, per precauzione"
A quel punto rido davvero, leggermente più rilassato di prima. Niall mi segue a ruota con la sua risata aperta, mentre Louis ghigna quasi compiaciuto e Liam scuote la testa, contrariato.
"Sono bambini, Zayn - gli ricorda, saccente - Avresti dovuto chiamare i genitori e risolvere la questione, non insegnare a tua figlia come castrare i propri compagni"
"Chissenefrega dei genitori, Liam" borbotta Zayn, allargando le braccia in un gesto puramente infantile. Non credo che riuscirà mai a cambiare.
A quel punto, vedo Louis stringere le spalle di Liam con un braccio magro, passandogli una mano tra la nuca rasata e sorridendo sghembo: "Non te la prendere, Zayn - dice all'uomo davanti a lui - Liam non ha idea di cosa vuol dire avere una figlia femmina. I discorsi educativi con loro non funzionano"
Niall sospira teatralmente un "Concordo", prima di alzare il proprio boccale di birra ormai mezzo vuoto e bere.
E quando tutti e quattro intavolano la conversazione "sindrome post-parto" non è che mi senta un pesce fuor d'acqua.
Più che altro un gatto in mezzo all'oceano, un elefante tra delle zebre, un coniglio tra i lupi o, più semplicemente, senza Naya.




⁓ ⁓ ⁓




Ci siamo conosciuti a una di quelle feste che gli universitari americani fanno all'inizio e alla fine dell'estate, nella sede della confraternita di Niall.
Ci ha presentati l'allora fidanzata di Louis, Keith, quella col piercing in mezzo alle sopracciglia e l'accento del Texas. Anche se, ufficialmente, io e Naya abbiamo avuto la nostra prima vera conversazione solo la settimana successiva, al caffè del college.
La prima cosa che mi è piaciuta di lei è stata la sua salopette in jeans arrotolata alle caviglie, poi le sue gambe lunghe e infine la sua risata rumorosa e a tratti imbarazzante, coi denti in bella vista e le vocali nasali tipiche di chi è di New York.
A quell'epoca non aveva neanche diciannove anni e portava i capelli biondo cenere sempre stretti in delle trecce lunghissime. Aveva due orecchini pendenti di un verde fosforescente e i polsi stretti e spigolosi.
Ha messo da parte parecchi vestiti pacchiani adesso, ma i polsi, beh, quelli fortunatamente sono intatti.
Quando parliamo del nostro primo incontro con altra gente, lei si appoggia sempre alla mia spalla, ridacchiando, mentre io la stringo e dico: "Era la ragazza più stravagante che avessi mai visto" e aggiungo: "I tuoi orecchini facevano schifo".
Lei poi accenna ai miei capelli ricci, al graffio sulla guancia che mi ero fatto sbattendo contro l'armadio e al mio accento inglese che "Nonostante ti ami da sette anni, è sempre più brutto".
Ci siamo conosciuti come il 75% delle coppie americane, tra le cattedre dell'università e i bicchieroni di caffè acquoso, la nostra prima fotografia ce l'ha scattata una sua amica a tradimento e il primo bacio me l'ha dato lei davanti alla mia stanza del college, qualche settimana più tardi.
Le ho visto cambiare così tante pettinature da far girare la testa, i suoi capelli sono diventati neri nel pieno di agosto, poi c'è stata la frangia coi riflessi rossi in un ottobre un po' troppo afoso e anche il caschetto platino quando si è laureata in giornalismo. E poi ci sono stati gli anfibi bassi e quelli alti, le scarpe con le zeppe di un bianco quasi volgare e i vestiti che ordinava su internet direttamente dall'India, le gonne lunghe fino alle caviglie e le giacche di pelle sintetica comprate fa Forever21.
Non so chi di noi abbia detto Io ti amo per primo, probabilmente è successo in uno di quei giovedì sera nella sua stanza, tra uno streaming al computer e l'altro. L'avrà mormorato qualcuno di noi, sovrappensiero perché sono solo tre parole un po' commerciali come le canzoni su MTV, banalizzate da tutti e usate come difesa e soprattutto come attacco.
A queste cose, Naya non ci ha mai pensato, non è una ragazza che si commuove facilmente, il "ti amo", noi, lo abbiamo inserito nei nostri messaggi del buongiorno e tra i baci della buonanotte, piano piano, senza spaventare nessuno.
Non siamo stati prevedibili, una di quelle coppie decise a tavolino, siamo più che altro dei sopravvissuti, quelli che non hanno mollato, quelli che sono restati un po' dappertutto e quelli che, se li vedi, dici "ma dai? Ancora insieme?"
Siamo stati sempre qui, anche con il matrimonio più imbarazzante della storia, le puntate di CSI Miami registrate e mai viste e la lavastoviglie che si rompe ogni mercoledì.
Siamo questi qui, alla faccia di chi non ci credeva.






Naya è seduta sul tappeto del salotto, qualche giorno più tardi. Ha in una mano il pennellino dello smalto bordeaux e l'altra aperta sulla superficie del tavolo. Sul via cavo, Oprah sta intervistando l'ultimo attore uscito dall'ultimo film per adolescenti di cui mi sfugge il nome. Ero rimasto a Twilight, sono davvero così vecchio?
Abbiamo cenato presto, ordinando due margherite in quella pizzeria in fondo alla strada, quella in cui si spacciano tutti per italiani e dove il cameriere ci prova sempre un po' troppo con Naya.
"Ti piace questo colore?" mi dice improvvisamente, senza voltarsi nella mia direzione. È di spalle rispetto a me, che sono seduto stancamente sul divano, e indossa un paio di pantaloni della tuta e un vecchio maglione di cotone.
"Mhmh – borbotto a labbra serrate – è come l'altro, no?"
La sento rimettere a posto il pennellino e subito dopo è girata verso di me, coi suoi occhi azzurri che mi guardano con scetticismo.
Sorrido.
"L'altro quale?" indaga.
"Quello che ti ha regalato Claire per Natale..."
"Cosa?! - esclama, fingendosi scandalizzata - Stai scherzando, spero. Quello è uno Chanel e non puoi proprio paragonare Chanel ai saldi di H&M. Il tuo periodo da barbone è finito ai ventidue. Torna tra noi, hipster"
Scoppio a ridere così forte che sento le costole tirare. Lei sbuffa una risatina compiaciuta e con una mano si sistema le ciocche biondo platino dietro le orecchie, per poi voltarsi e darmi le  spalle di nuovo.
Batto un palmo sulla superficie del divano: "Vieni qui"
"Ho lo smalto fresco"
E non è un no.
"E chissenefrega. Vieni qui"
Qualche ora più tardi, in bagno, osservo le tracce bordeaux sul mio collo. Le tocco più e più volte, strofinando con le dita bagnate affinché vadano via.
Sorridendo.






Wilma è la mia segretaria personale, ha ventun anni e studia lingue alla Columbia. Il lavoro gliel'ha procurato il suo patrigno, che da quanto ho capito è un pezzo grosso dei piani alti e con il quale non va propriamente d'accordo. Ha i capelli scuri e il volto ancora da bambina, mi porta sempre il caffè più decente possibile e ogni tanto mi dà ancora del lei nonostante la mia esplicita richiesta durante le prime settimane.
Non è invadente, forse un po' troppo intimorita quando è una mia giornata no, però è intelligente e affidabile, la prima a entrare a lavoro e una delle ultime ad andare via.
È lunedì mattina e sono pieno di pratiche da sbrigare e appuntamenti nella sala riunioni, ho già risposto a sei mail e non sono neanche le dieci.
La vetrata del mio ufficio, come ogni cliché newyorkese che si rispetti, si affaccia sulla città, tra Central Park, la Statue of Liberty coperta dai grattacieli e i taxi in strada che dal ventisettesimo piano sembrano tanti piccoli puntini gialli.
Wilma entra dalla porta socchiusa quasi in punta di piedi, formale ed elegante come sempre: "Signor Sty- ehm, Harry - mi chiama, abbozzando un sorriso - C'è qui il signor Peters"
"Fallo entrare Wilma, grazie" le sorrido appena, poi firmo l'ultimo foglio che mi capita a tiro e cerco di sistemare il disordine sulla mia scrivania.
George Peters è uno dei nostri più grandi finanzieri. Quando entra nell'ufficio, con i suoi pantaloni sportivi e la camicia bianca coi primi bottoni slacciati, la sua aura da miliardario fa quasi vibrare le pareti. È senza dubbio un bell'uomo, sulla cinquantina, coi capelli di un biondo spento e la pelle quasi arancione per tutte le lampade che si deve essere fatto nell'ultimo mese.
Mi alzo in piedi, sorridendo, mentre lui si avvicina velocemente alla scrivania e mi afferra la mano con veemenza: "Harry! - mi saluta come un vecchio amico e non come chi, praticamente, mi paga lo stipendio - Come te la passi?"
Ci sediamo entrambi, "Non c'è male, grazie - gli sorrido, mettendomi a mio agio - E lei?"
Fa un gesto incurante con la mano, allargando le gambe sulla sedia, "Un affare lì, un affare là...le solite cose, insomma"
Passiamo la maggior parte del tempo a parlare delle sue vincite in banca e quelle sul campo da golf, del suo ultimo acquisto - Hai presente i New York Knicks? Beh, guardavo il basket con mio figlio e mi son detto "perché no?" - e del divorzio con la sua terza moglie.
Gli ultimi cinque minuti incentro la conversazione sull'affare per il grattacielo di Brooklyn, lui accetta alla seconda frase e poi guarda il suo Rolex laccato, emettendo un sospiro di rammarico.
"Devo ancora raccontarti di Dubai, Harry, ma purtroppo ho una Lamborghini che mi aspetta qui sotto" si alza in piedi e io faccio lo stesso, divertito.
"Non si preoccupi - dico, accompagnandolo alla porta - Sarà per la prossima volta"
Non credo che mi stia ascoltando, comunque. Si sta guardando intorno con una strana espressione, le sopracciglia aggrottate  e le labbra serrate.
"Vuoi sapere cosa manca qui dentro, Harry?" mi domanda poi, quando io apro la porta.
"Cosa, signore?"
"Una bella foto di un marmocchio"





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Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 12, 2015 ⏰

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