Capitolo Uno

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Era il giorno duecentonovantanove eppure Federico, per la prima volta, si sentì formicolante come il giorno uno.
I polpastrelli delle dita si erano fatti rossi per il freddo, la sensibilità ormai stava sparendo velocemente e il suo alito si condensava ad ogni respiro.
Il calendario datava quel giorno come il primo dicembre del 1967, ma per Federico, venticinquenne dannato e decadente, si trattava di un numero senza valore, disegnato su fogli senza valore, appesi ad un muro senza valore che rinchiudeva le sue membra in un edificio spoglio, quasi quanto la sua vita senza valore.
La cenere gli sporcava le unghie, così corte da arrivare all'osso, e i vestiti erano maleodoranti, eppure un sorriso gli dipingeva il volto per la quinta volta in quei duecentonovantanove giorni e ad occhi esterni ed incosapevoli sarebbe apparso bello come il sole nelle mattine di primavera.
Se solo avessero saputo della sua dannazione eterna allora lo avrebbero visto per ciò che era: l'aborto di una vita che faceva a meno di lui.
In quel momento, però, lui dimenticò tutto e continuò a sorridere per qualcosa che ad occhi umani non significava nulla in confronto al continuo muoversi del mondo: un semplice fiocco di neve, uno solo, che si posava sulla fredda strada di New York, pronto ad essere calpestato.
Federico era quel fiocco di neve.

- E i tuoi genitori? -
Federico frequentava lo studio di quel nuovo analista da poco, dopo averne cambiati almeno sette.
Tratteneva una sigaretta rollata tra le dita e faceva cadere la cenere sul pavimento pulito del dottore, senza alcun tipo di rimprovero.
- Non posso ricordarne i volti - mormorò portandosi la sigaretta alle labbra - ero troppo piccolo quando mi lasciarono -
Il dottore si fece avanti sulla sedia e Federico ne lesse il nome sulla targhetta: Kellan Welsh.
- Come ti senti a riguardo? -
Una penna rotolò piano sulla scrivania e Federico la seguì con lo sguardo.
- La fermi - disse con voce stridula.
Il dottor. Welsh catturò la penna con due dita e la mise nel taschino del camice.
- Io le odio le cose che si muovono. Le sento così - si bloccò ed emise un ringhio di frustrazione - le sento così vicine, nella testa. Mi fanno impazzire tanto che vorrei urlare. Vedo solo quello e sembro un fottuto pazzo -
- Si calmi - sussurrò il dottore - prenda un goccio di tea e si rilassi: lei non é pazzo -
Versò un goccio di tea profumato in una tazzina in porcellana blu e gliela passò insieme ad una ciotolina di zucchero.
Federico non aveva notato prima il vassoio con la teiera, ma non era una novità per lui.
- Non avevo visto il vassoio, mi capita sempre. Vedo cose che non esistono per nessuno, ma non vedo ciò che sta davanti ai miei occhi -
Gemette disperato.
- É schizofrenia. Non può essere curata del tutto, ma può essere controllata. -
Il dottore gli spinse ancor più vicino la tazzina.
- Mi parli dei suoi genitori e dei suoi ultimi anni, la prego -
Federico fece un profondo respiro e toccò con un dito la porcellana fredda della tazzina.
Ad ogni ricordo che portava alla mente sentiva l'agonia risalirgli dallo stomaco fino ad ostruirgli la gola.
Chiuse gli occhi e parlò: - Ricordo mia madre. Aveva lunghi capelli biondi e lisci e due grandi occhi castani. Ricordo un giorno d'estate, faceva tanto caldo e lei mi teneva la mano.
Avrò avuto cinque anni e mi sorrideva come se mi amasse davvero. - si interruppe per riprendere fiato - Poi tutto si interrompe e di lei non ho altri ricordi, se non quello del giorno zero. Il giorno in cui mi hanno portato alla clinica.
Da quel momento sono stati tutti giorni zero: non avevano valore ed erano grigi e vuoti.
Lei e mio padre mi hanno lasciato vicino ad un medico.
Di mio padre ricordo solo lo sguardo spaventato di chi ha generato un mostro, ma mia madre si chinò su di me, le mie narici di riempirono del suo profumo.
Lei mi promise che sarebbe tornata, che sarebbero tornati a prendermi. -
Si fermò per bere un goccio di tea, ormai diventato tiepido.
- Come vede, Dottore, non l'hanno poi mai fatto -
Il dottor. Welsh gli rivolse un sorriso comprensivo e annuì.
- E i suoi ricordi riguardo le cure? -
Federico scosse la testa e si leccò il labbro inferiore.
- É tutto vago.
La prima volta che mi diedero LSD avevo sette anni, questo lo ricordo.
L'effetto durò sette ore e appena finì vomitai anche la bile.
Ho ancora le prime visioni impresse nella mente: affogavo in una vasca, di continuo.
Non si fermava mai.
Il resto é tutto troppo disordinato, ho solo dei flashback tra una dose di LSD e l'altra. -
- E l'electroshock? - chiese greve il medico.
- Solo in adolescenza, quando mi ribellavo.
Odiavo quel posto, il mio cuore ha ricominciato a battere quando mi hanno dimesso. -
Posò la tazzina sul piattino di porcella anch'esso blu e guardò il liquido muoversi sinuoso.

Era stato tre ore dall'analista prima che il dottor. Welsh gli dicesse che era stato un colloquio sufficiente.
Lo aveva congedato con una stretta di mano e con qualche tranquillante in caso di crisi, infine gli aveva consigliato di provare a trovarsi un posto nel mondo per cominciare a vivere e a trovare motivi per vedere le cose con occhi diversi.
- Forse altri punti di vista le faranno bene - gli aveva detto.
Forse sì o forse no, in quel momento Federico voleva solo tornarsene a casa.
Incontrò parecchia gente sul tragitto verso casa, ma di nessuno di loro riuscì a vedere il volto.
Erano solo macchie scure come tutte le altre, che si muovevano all'interno della caotica New York, forse anche loro alla ricerca del loro epicentro.
Federico ne ascoltava i passi e senza nemmeno accorgerse i piedi lo avevano portato già di fronte al legno marcio della porta di casa sua.
Entrando fu accolto dall'odore di cenera mista a muffa e dei fogli a terra svolazzarono per una folata di vento entrata dalla porta.
Si chiuse dentro e guardò la parete davanti ai suoi occhi: spoglia, grigia, con l'intonaco a pezzi.
Anche lui probabilmente appariva allo stesso modo.
Quando si guardò allo specchio del bagno vide che i suoi grossi occhi castani erano incorniciati da occhiaie profonde e nere, le vene del collo erano sporgenti e le guance incavate.
Si toccò i capelli, che gli cadevano spenti e sfibrati sulla fronte corrucciata.
Delle rughe avevano cominciato a comparirgli ai lati della bocca e la sua magrezza era ormai eccessiva.
Si lasciò cadere di dosso il giaccone e sfilò il maglioncino leggero che indossava.
La lampadina del bagno funzionava ad intermittenza e la doccia era sporca, oltre al fatto che aveva raramente acqua calda, ma finì di spogliarsi e ci si mise dentro.
L'acqua era tiepida e dopo qualche secondo starci sotto fu accettabile.
Si strofinò il corpo con una spugnetta in fil di ferro e una grossa saponetta dall'odore sterile.
Fece durare la doccia il meno possibile e decise di uscire a mangiare qualcosa.
Mise dei vestiti puliti, anche se nel maglione che aveva scelto c'erano un paio di buchi a causa dei topi.
Quando uscì di casa aveva rollato una sigaretta e camminò a passo svelto verso un pub lì vicino.
Si rendeva conto di avere una vita abbastanza di merda, ma doveva solo ringraziare che lo stato avesse accettato di dargli un piccolo appartamento e dei soldi mensili per infermità mentale.
Alla fine a lui bastava questo: dormire in un letto e mangiare qualcosa ogni tanto.
Il pub in cui entrò si chiamava 'Barney's', ma l'insegna era in parte fulminata e tutto ciò che si riusciva a leggere era 'Brnys'.
Anche l'interno era malridotto, con un gruppo di eroinomani che maneggiava vecchie siringhe ad un tavolo in angolo e il bancone pieno di polvere.
La luce era verde e alcune zone stavano in ombra.
Si avvicinò al bancone e chiese una porzione di pollo fritto e una birra, mentre si preparava a rollare un'altra sigaretta.
Anche se non mangiava da un paio di giorni non si tuffò sul cibo, fece anche fatica a deglutire il primo boccone.
Stava cercando di mangiare abbastanza per mantenersi in piedi almeno per i prossimi tre giorni.
Guardando il bancone di quel locale puzzolente un qualcosa, una piccola macchia di colore sotto una pila di carta straccia, attirò tutta la sua attenzione e non poté fare a meno di afferare vorace quel volantino azzurro.
Lo studiò con le dita e con gli occhi, imprimendosi ogni parola nella mente.
Ecco la svolta, il modo per seguire il consiglio del dottor. Welsh.
Eccolo, ne era certo, era stato il destino.
Lesse le informazioni più volte fino a tatuarle tra i suoi ricordi, poi buttò una banconota da dieci dollari sul bancone e corse fuori, al freddo, per poter pensare alla sua svolta.
Il volantino restò solitario nel locale e sul fronte recitavano poche semplici parole:

"Conferenza sulla sessuologia e sull'affettività all'università di Rickard street/34 il giorno 2 dicembre.
Ore 11.00 AM.
Tiene la conferenza il professor Micheal Penniman."

Angolo autrice:

Hello, It's me.
Again.
Bene, sono tornata con l'intro di Ego Loss, una long un po' particolare.
Doveva essere una OS per un concorso, per vari motivi purtroppo non mandata (causa mail non funzionante più che altro).
Così ho deciso di fare una long per approfondire meglio il tutto.
Si parla di fine anni '60, nel pieno della guerra fredda, dei movimenti omosessuali, femministi e per la libertà sessuali.
Gli hippie sono ovunque, le manifestazioni all'ordine del giorno.
La data non é causale in quanto fino al '66 LSD venne utilizzata nelle cure per certi pazienti psichiatrici quali bipolari e schizofrenici.
I primi veri studi su queste malattie esistono da pochi anni e il dottor. Welsh ne é un esponente.
Tutto ciò che ha di strano Fede é una malattia, al momento avrete domande su di lui, ma nel corso della storia spero di farvelo capire.
Tenete a mente che non ragiona cone noi, dovete ricordare che il suo é un punto di vista malato.
Ego Loss, infine, significa perdita di me stesso e fu un modo tipico per descrivere gli effetti dell'LSD.
Okay, ora credo di aver finito.
Spero vi piaccia.
Ronnie.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 14, 2015 ⏰

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