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Ricordo, teneva la sigaretta accesa tra le labbra.
Era bellissimo.
Mi guardava, poi aspirava.
E ad ogni suo tiro, toglieva a me un po' di respiro.
Era appoggiato al muro, come per sfuggire all'inverno, con la mano sinistra in tasca; una nuvola usciva da quelle labbra screpolate, il respiro caldo abbracciava il fumo.
Espirava una dolce malinconia.
La luce sfocata di un cielo plumbeo, l'atmosfera soffusa.
Un vento gelido gli sfiorava le guance, guardò in alto, verso il cielo, gli zigomi alti, gli occhi semichiusi per proteggersi da una luce glaciale, le labbra fini accarezzavano la sigaretta come se avesse sorriso; osservando quell'aria uscire dai polmoni, che saliva sempre più in alto, fino a confondersi col cielo.
Era poesia.
Louis Tomlinson era poesia pura. E io lo conobbi così, addossato a quel muro mentre fumava quelle sue sigarette che tanto amava, con il gelo negli occhi e nel cielo sopra di noi. Quel gelo che non era in grado di mandar via.
Me lo ricordo bene quel giorno, quello che succede quando due facce si vedono per la prima volta e si guardano in quel modo, con quello stupore, quasi per capire se nell'altra possono trovare qualcosa da amare.
Quando ci si presenta e poi si fanno tutte quelle domande e si ascoltano tutte le risposte, ed è impossibile che sei qui, e che mi guardi così, che sei reale, e che il tempo è volato e devo andare ma domani si, se vuoi uscire con me magari ti darò la mano e tu in silenzio mi sceglierai perché ti sentirai al sicuro. Ma noi, noi non ce le siamo mai fatte tutte quelle domande, non le abbiamo mai ascoltate tutte le risposte: era già tutto dentro di noi dal primo momento in cui i nostri occhi si sono incrociati a quella fermata degli autobus che arrivavano sempre in ritardo.
O per lo meno questo è ciò di cui voglio convincermi, voglio convincermi che il suo addio fosse già stato scritto nei suoi occhi quel giorno, voglio credere di essermi finto analfabeta per non doverlo leggere.
Louis, Louis Tomlinson, mi disse con quella sua voce speciale mentre lasciava sfuggire dalle sue labbra una nuvola di fumo, e non mi tese la mano, perché a lui non importava.
Mi presentai e poi mi zittii ritraendo la mia e infilandomela in una tasca in modo goffo, non con la naturalezza con cui lui ci teneva la sua, lì che affondava nella stoffa dei suoi skinny neri che lasciavano ben poco all'immaginazione. Aveva qualcosa di speciale e non sapevo ancora cos'era; aveva anche qualcosa di caldo in quei suoi occhi così glaciali e accusatori.
E anche senza conoscerlo ancora, pensai che Louis Tomlinson era poesia.
Pioveva, il giorno in cui l'ho visto per la prima volta.
Non era lì per caso, stava aspettando. Cosa, non me lo disse mai.
E nemmeno io ero lì per caso: aspettavo. Cosa, non lo sapevo.
Cosa si può aspettare, ad una fermata fatiscente dell'autobus? Forse un autobus, o forse una svolta nella propria vita. Per questo motivo io ero lì, razionalmente per prendere il mezzo che mi portasse a casa, ma aspettavo in realtà ben altro, e con l'immaginazione fingevo che quell'autobus mi portasse lontano, in lande desolate nelle quali non avrei più dovuto confrontarmi con nessun essere umano.
Lui probabilmente aspettava una salvezza che non ricevette mai.
Guardava gli autobus che non erano i suoi fermarsi e ripartire come in un circolo infinito, mentre aspirava dalla sua sigaretta e ne premeva il mozzicone contro il muretto di pietra per spegnerlo, prima di accenderne un'altra subito dopo.
Non so quante sigarette fumò nel breve lasso di tempo in cui stetti con lui, ma mi parvero non finire mai. Ed ebbi l'impressione, radicata e profonda, che si volesse far del male.
Mi guardava di sottecchi, come fossi una minaccia da evitare, un pericolo, ma io gli sorrisi comunque, anche se i suoi occhi mi analizzavano da capo a piedi, severi.
Non capivo se mi stesse giudicando o se si rendesse solamente conto che ero diverso da lui, e ciò lo incuriosiva. Lui forse mi spaventava un po', a dirla tutta, con quello sguardo gelido e quell'espressione quasi cattiva.
Ebbi, non so dire se per fortuna o sfortuna, tempo e modo di capire che era solo la paura, a modificare i suoi lineamenti di per sé dolci.
Louis, era quell'amore che non avevi mai provato, che nessuno ti aveva mai dato, a farti sentire diverso. Erano i sabato sera che avevi passato in casa da solo mentre tutti uscivano a divertirsi. I Natali in cui a casa tua l'albero e le decorazioni non c'erano. I baci che ti eri perso per strada mentre i tuoi amici trovavano la loro prima cotta e ti lasciavano indietro, come se tu non avessi mai avuto importanza. Era tutta la mancanza e il dolore che ti avevano fatto provare, che si erano ammassati in un'enorme strato di paura e frustrazione, che ti incupivano lo sguardo e ti facevano sembrare cattivo. Non lo eri.
Sembrava tu stessi giudicando tutti, col tuo sguardo severo, ma in realtà giudicavi te stesso e prendevi coscienza delle cose che ti erano mancate trovandole negli altri.
E ciò non faceva che logorarti un po' di più ogni giorno, senza che nessuno se ne accorgesse.
Dopo che ci fummo presentati, solo perchè io insistetti nel voler sapere il suo nome, guardammo la gente andare e venire dalla fermata. C'era chi saliva negli autobus che si fermavano e chi scendeva, ma comunque fosse ognuno di loro aveva una meta, tranne forse noi due. Passarono delle ore e il sole tramontò lasciando spazio ad una fredda serata, prima che io scostassi la manica della mia giacca dall'orologio e guardassi l'ora, sospirando.
"Sono le nove e quaranta. L'ultimo autobus è passato dieci minuti fa." dissi, alzando lo sguardo su di lui. Avevo completamente dimenticato che io in realtà lo avrei dovuto prendere, l'autobus per tornare a casa.
"Fantastico. Grazie." gli uscì dalle labbra, mentre si infilava le mani in tasca e si girava per andarsene, tranquillo.
"Non aspettavi un autobus?" gli chiesi allora, per fermarlo, confuso.
"No." non disse altro, non una parola, e nel giro di qualche confuso secondo era già sparito nella nebbia che era calata assieme alla notte.
Tornai a casa, a piedi, avvolto dal gelo e con la strana sensazione di aver raggiunto una qualche meta senza nemmeno averla cercata davvero.

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