-

854 53 28
                                    

Tenendo gli occhi chiusi, lasciavo che il vento mi accarezzasse la pelle. Non sentivo il freddo, nonostante non fossi particolarmente coperto, anzi, nonostante non fossi abbastanza coperto. Era pieno inverno e la mattina di quel giorno aveva persino nevicato, tanto da imbiancare l'intera città di Seoul.
Eppure io il freddo non lo sentivo. A parte alle guance. Lì si, lì il freddo lo sentivo. Ogni volta in cui le carezze del vento arrivavano alle guance, io lo sentivo. Probabilmente era a causa delle lacrime che ormai scendevano senza freni. Eppure non stavo piangendo, avevo smesso, ma ero come un tubo rotto che non smette di gocciolare. Scendevano e basta. Tremavo anche ma, ripeto, non per il freddo. Forse tremavo perché una parte di me aveva paura, o perché la mente era talmente altrove che stavo perdendo il controllo del mio corpo. O, ancora, per il dolore. Perché sì, in quel momento il freddo non lo sentivo, ma sentivo il dolore, tanto dolore. Tremavo come una di quelle pentole a pressione che fischiano quando stanno per scoppiare. Ecco, forse non ero un tubo rotto. Forse ero una pentola a pressione che stava per scoppiare, che tremava e gocciolava. Ma, al contrario suo, io non fischiavo. Io non facevo rumore. Io stavo per scoppiare, ma in silenzio. Perché tanto io non avevo il bisogno di avvertire nessuno, o meglio, perché io non avevo nessuno da avvertire.
Avevo perso tutto e, poche ora prima, anche le ultime persone che mi erano rimaste. Sopratutto quella persona. L'unica persona della quale mi importasse davvero, l'unica persona alla quale pensavo importasse davvero. O meglio, speravo.
Perché io l'avevo capito. L'avevo capito che a lui non importasse, o almeno, non quanto importasse a me. Però non volevo accettarlo, non l'ho mai voluto accettare. Ed anche quando gli altri cercavano di farmelo notare, magari per aiutarmi, magari per aprirmi gli occhi, io mi limitavo a sorridere e a dirgli che era soltanto una loro impressione, che lui era fatto così. Ma io gli occhi aperti li avevo già, solo che preferivo chiuderli, perché quello che vedevo non mi piaceva, e mi feriva. Chiudevo gli occhi, e facevo finta di non vedere.
Facevo finta di non vedere il modo in cui lui guardava quell'altro, il modo in cui gli sfiorava la mano quando gli passava accanto. Facevo finta di non vedere quanto era diverso il suo sorriso quando era presente lui, quanto fossero più felici i suoi occhi. Facevo finta di non vedere quando si messaggiavano in mia presenza per dirsi cose che ad alta voce non potevano dire, e le occhiatine che si lanciavano tra un messaggio e l'altro, convinti che io non mi accorgessi di nulla. Facevo finta di non vedere i loro abbracci troppo confidenziali, il modo in cui si sconnetteva dal mondo quando lui cantava. Fingevo di essere stupido, e riuscivo sempre a giustificarlo. Riuscivo sempre a trovare una scusa che potesse spiegare i suoi comportamenti anche se, per la maggior parte delle volte, nemmeno io ci credevo. E fingevo di non sentire, come quando parlavano al telefono, mentre lui era nel letto con me, dove avremmo dovuto dormire assieme, magari abbracciati, ma l'unico a dormire, in teoria, ero io. E lui diceva: 'Non preoccuparti, possiamo parlare, sta dormendo.' Ma io non dormivo. Io piangevo, nascosto sotto le lenzuola, in silenzio, ripetendomi fino allo stremo: 'Avrai sentito male, sei troppo paranoico.'
Ma non potevo più fingere di non vedere, sentire e capire. Non potevo più fingere perché io, quella mattina, li avevo visti. Li avevo visti l'uno attaccato all'altro. Le sue labbra, quelle labbra che avevo già assaporato tante volte, erano poggiate su altre labbra. Non sulle mie. E le sue mani non erano il mio corpo che stavano accarezzando, che stavano perlustrando. E la cosa che fa più ridere sapete qual è? Che per me, il problema, non era l'averli visti. Il problema era che loro avevano visto me. Che se non mi avessero visto, io avrei continuato a fingere. Avrei chiuso la porta e avrei finto di non aver visto, mi sarei convinto di aver avuto una svista, di essermi confuso. Sono patetico, vero? Faccio ridere, vero?
Eppure non potevo farci niente. Io lo amavo, lo amavo sul serio. Ed anche se avrei voluto odiarlo, anche se avrei voluto non provare più niente per lui, continuavo ad amarlo. Ma lo avevo perso, e non c'erano più scuse, non c'erano più 'ma'. Lui non mi apparteneva più. Anzi, lui non mi era mai appartenuto. O forse sì.
Forse c'era stato un momento in cui mi era appartenuto, forse c'era stato un periodo in cui mi aveva amato. Ma è durato qualche mese, e noi, teoricamente, stavamo insieme da anni.
Perché io me li ricordavo i primi tempi. Ricordavo i primi sguardi, quelle timide occhiate che ci scambiavamo di nascosto. Ricordavo i primi sorrisi, quelli che nascevano soltanto quando io guardavo lui e lui guardava me. Ricordavo le prime carezze, sempre nascoste, sempre timide. Ricordavo il primo bacio, e non fui io a farmi avanti, fu lui per primo a far accarezzare le nostre labbra. E ricordavo la prima volta in cui abbiamo fatto l'amore e, credetemi, quella volta non dovetti fingere. Quella volta facemmo l'amore davvero, e fu bellissimo. Ma poi, lentamente, tutto cominciò a sgretolarsi, a cadere a pezzi. E non solo tra me e lui, ma in generale.
Pensandoci, tutto partì dal mio incidente. Da quando quel maledetto giorno, mentre ero di ritorno col manager, facemmo un incidente stradale. Lì mi ferii gravemente, tanto gravemente che mi fu detto che non avrei mai più potuto camminare e, di conseguenza, ballare. La riabilitazione durò parecchio e, per miracolo, dissero loro, ripresi a camminare. Ma mai più potetti ballare. Ed io amavo ballare. E, inoltre, faceva parte del mio lavoro.
Infatti, dopo pochi mesi dal mio rientro, la mia situazione complicò le cose e, per non mandare via solo ed unicamente me, il gruppo decise di sciogliersi. Eppure scomparvero tutti, che intrapresero una carriera da solisti. Tutti, tranne lui e l'altro. Infatti, noi tre decidemmo di andare a vivere assieme. Persi l'amore delle mie fan, che cominciarono ad incolparmi per lo scioglimento del gruppo, ed anch'io assieme a loro.
Ecco perché, in quel momento, mentre ero immobile sul parapetto del palazzo, avevo più motivi per saltare che motivi per scendervi.
- Hoseok! -
Quella voce, l'avrei riconosciuta sempre ed ovunque. Anche se il mondo avesse cominciato ad urlare, io avrei sempre e solo riconosciuto la sua di voce. Tra tante urla, io avrei sentito solo lui.
E, quando mi girai verso di lui, sentii il mio cuore bloccarsi. Lui era bello. Bello da togliere il fiato. Ed anche se in quel momento indossava un'espressione che non gli si addiceva affatto, lui era bello. Ed io, pazzo, anche se ero sul parapetto di un palazzo, appena lo vidi, tutto ciò a cui riuscii a pensare fu a quanto fosse bello.
- Hoseok, non lo fare! Scendi di lì e parliamone. -
Disse. C'era panico nella sua voce e la sua mano era tesa verso di me. Il mio cuore avrebbe voluto afferrarla, scendere di lì e lanciarsi tra le sue braccia.
Ma la mia testa era già partita, la mia testa si era già lanciata, si era già arresa.
Però, decisi di dare una possibilità al mio cuore.
- Dimmi un buon motivo per farlo. Dimmelo, ed io scenderò. -
La mia voce uscì fioca. Ero senza forze, in tutti i sensi. Ero così stanco. Stanco di combattere, stanco di sentirmi in colpa, stanco di odiarmi, stanco di mentire a me stesso, stanco di leggere quei commenti pieni di odio, stanco di giustificalo, stanco di piangere la notte, stanco di star male, stanco di prendere a pugni il muro, stanco di bere fino a vomitare, stanco di me, stanco di lui, stanco di quell'altro, stanco di vivere. Stanco della vita.
- Ti amo. -
A quelle sue parole, presi a ridere. Sì, ridevo, anche se i miei occhi continuavano a lacrimare, io ridevo.
E, quando smisi di ridere, mi rigirai verso il vuoto, ridandogli le spalle, pronto a saltare.
- Hoseok! Aspetta! Fermo! Non è un motivo valido?! -
Sorridendo, lo guardai con la coda dell'occhio, oltre la spalla, girando di poco il volto.
- Tu non mi hai mai amato, nemmeno per un secondo. Sono stato io a vedere nei tuoi occhi amore, ma solo perché era il riflesso del mio. Ed io, di amore, nei miei occhi, ne avevo forse troppo. -
Intravidi i suoi occhi sbarrarsi, forse perché stava realizzando che l'avrei fatto sul serio, a momenti, che avrei saltato.
- Non dire così! Io ti amo davvero, Hoseok! Con Jungkook, c'è stato un malinteso! Ti prego, scendi e parliamone! -
'Io ti amo davvero'. Con quale coraggio continuava a mentirmi? Davvero pensava che fossi così stupido da credergli ancora? Davvero pensava che fossi così stupido da giustificarlo ancora una volta?
Mi girai di nuovo e ripresi a parlare, come se lui non avesse mai detto niente.
- Sono stato il primo ad amarti e tu stavi bene perché ti sentivi amato. Ti sentivi fortunato, e lo eri per davvero, perché tutto l'amore che avevo era destinato a te. Per così tanti anni. Per così tanto tempo. Sapevi di essere il centro dei miei pensieri ed io mi ero annullato pur di starti un millimetro più vicino al cuore. Non hai fatto che illudermi, che darmi false speranze. Avresti potuto dirmelo, ed io mi sarei arreso. Invece no, hai continuato a baciarmi, accarezzarmi, toccarmi. So che non mi hai illuso con cattiveria, infatti non sono arrabbiato. Infondo, ho solo visto il mio sogno sbriciolarsi davanti agli occhi contro ogni mia aspettativa, così come la mia vita, così come noi. -
Appena lo vidi aprire la bocca per interrompermi, per controbattere, la pentola a pressione era quasi esplosa. Infatti, presi ad urlare.
- Ho visto l'amore che ho provato per te distruggermi! Ma non mi è mai importato, perché io ti amavo e preferivo distruggere me, piuttosto che perdere te! Ma tu questo non lo hai mai capito! Non lo hai mai apprezzato! Davvero mi pensavi così stupido?! Così cieco?! Fingevo, cazzo, fingevo! Fingevo perché ti amavo! Perché ti amo! -
E mentre gli urlavo questo, continuavo a lacrimare. Anzi, stavo piangendo. In quel momento sì, non lacrimavo soltanto, piangevo.
Ed anche lui stava piangendo, anche le sue guance cominciarono a bagnarsi. Ma la pentola era esplosa.
- Ti prego.. -
Disse tra i singhiozzi.
Io cominciai a fare di 'no' con la testa, singhiozzando a mia volta, con le lacrime che continuavano a scendere copiose. Non avrei ascoltato il mio cuore, non anche quella volta. Lo avevo fatto tante volte, ripetendomi 'questa è l'ultima', ma l'ultima non arrivava mai, ed io mi ritrovavo sempre più a pezzi, sempre più distrutto.
Appena i singhiozzi si calmarono, alzai la testa e lo guardai negli occhi.
- Questa, Park Jimin, è stata l'ultima volta in cui ho pianto per te. -
E mi gettai.




The last time.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora