Dalla parte di swann

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A lungo, mi sono coricato di buonora.
Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: Mi addormento.
E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava; volevo posare il libro che credevo di avere ancora fra le mani, e soffiare sul lume; mentre dormivo non avevo smesso di riflettere sulle cose che poco prima stavo leggendo, ma le riflessioni avevano preso una piega un po' particolare; mi sembrava d'essere io stesso quello di cui il libro si occupava: una chiesa, un quartetto, la rivalità di Francesco Primo e Carlo Quinto.
Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa.
Poi cominciava a diventarmi incomprensibile, come i pensieri di un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; l'argomento del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; immediatamente recuperavo la vista e mi sbalordiva trovarmi circondato da un'oscurità che era dolce e riposante per i miei occhi ma più ancora, forse, per la mia mente, alla quale essa appariva come una cosa immotivata, inspiegabile, come qualcosa di veramente oscuro.
Mi chiedevo che ora potesse essere; sentivo il fischio dei treni che, più o meno da lontano, come il canto d'un uccello in una foresta, dava risalto alle distanze, descrivendomi la distesa della campagna deserta dove il viaggiatore si affretta verso la stazione più vicina, e il sentiero che percorre è destinato ad essere impresso nel suo ricordo dall'eccitazione che gli viene da luoghi nuovi e gesti non abituali, dai discorsi e dagli addii scambiati poco fa sotto una lampada straniera e che ancora lo seguono nel silenzio della notte, dalla dolcezza che si approssima del ritorno.
Appoggiavo con tenerezza le mie gote a quelle incantevoli del guanciale che sembrano, così piene e fresche, le gote della nostra fanciullezza.
Accendevo un fiammifero per guardare l'orologio.
Quasi mezzanotte.
E' il momento in cui il malato che è stato costretto a mettersi in viaggio e ha dovuto fermarsi a dormire in un albergo sconosciuto, svegliandosi per una crisi, vede con gioia scivolare sotto la porta una striscia di luce.
Che felicità, è già mattino! Fra un momento i domestici si alzeranno e lui potrà suonare, verranno a portargli aiuto.
La speranza del soccorso gli dà nuovo coraggio per soffrire.
Ecco, gli sembra d'aver sentito dei passi; i passi si avvicinano, poi si allontanano.
E la striscia di luce che era sotto la porta è scomparsa.
E' mezzanotte; hanno spento il gas; l'ultimo domestico se n'è andato, e bisognerà restare tutta la notte a soffrire senza rimedio.
Mi riaddormentavo e a volte non mi svegliavo più che per brevi istanti, il tempo di sentire gli scricchiolii organici dei legni, d'aprire gli occhi per fissare il caleidoscopio del buio, di assaporare grazie a un momentaneo barlume di coscienza il sonno nel quale erano immersi i mobili, la stanza, quel tutto di cui io non ero che una piccola parte e alla cui insensibilità tornavo subito ad unirmi.
Oppure, dormendo, avevo raggiunto senza sforzo un'età compiuta per sempre della mia vita primitiva, ritrovato l'uno o l'altro dei miei terrori infantili, per esempio quello che il mio prozio mi tirasse per i boccoli, terrore svanito il giorno - inizio per me di una nuova era - in cui me li avevano tagliati.
Il ricordo di questo avvenimento m'era sfuggito durante il sonno, lo ritrovavo non appena riuscivo a svegliarmi per scappare dalle mani del mio prozio, ma per precauzione mi circondavo completamente la testa con il guanciale prima di sprofondare di nuovo nel mondo dei sogni.
Certe volte, come Eva da una costola d'Adamo, una donna nasceva nel mio sonno da una falsa positura della mia caccia.
Formata dal piacere che ero sul punto di gustare, m'immaginavo che fosse lei ad offrirmelo.
Il mio corpo, sentendo nel suo il mio proprio calore, voleva ricongiungersi ad esso; mi svegliavo.
Gli altri esseri umani mi apparivano molto lontani se li confrontavo con questa donna lasciata da pochi attimi appena; la mia guancia era ancora calda del suo bacio, il mio corpo indolenzito dal peso del suo corpo.
Se, come a volte succedeva, il suo volto era quello di una donna che avevo conosciuta nella vita, ero certo che mi sarei consacrato a un unico scopo: ritrovarla, come chi intraprende un viaggio per vedere con i suoi occhi una città di cui ha desiderio, e s'immagina di poter godere in una cosa reale il fascino di una cosa sognata.
A poco a poco il suo ricordo svaniva, avevo dimenticato la fanciulla del mio sogno.
Un uomo che dorme tiene in cerchio intorno a sé il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi (1).
Svegliandosi li consulta d'istinto e vi legge in un attimo il punto che occupa sulla terra, il tempo che è trascorso fino al suo risveglio; ma i loro ranghi possono spezzarsi, confondersi.
Mettiamo che il sonno l'abbia colto verso il mattino, dopo un'insonnia, mentre stava leggendo, in una positura troppo diversa da quella in cui dorme abitualmente.
Basterà il suo braccio sollevato per fermare e far indietreggiare il sole, e nel primo istante del risveglio egli non saprà più che ora sia, sarà convinto di essersi appena coricato.
O che si sia assopito in una posizione ancora più irregolare e divergente, per esempio seduto dopo pranzo in una poltrona, e allora il disorientamento sarà completo in quei mondi usciti dalla propria orbita.
La poltrona magica lo farà viaggiare a tutta velocità nel tempo e nello spazio, e al momento d'aprire gli occhi egli crederà di trovarsi a letto alcuni mesi prima e in un altro paese. Ma era sufficiente che, nel mio stesso letto, il mio sonno fosse profondo e tale da distendere completamente il mio spirito, ed ecco che questo abbandonava la mappa del luogo dove mi ero addormentato e, svegliandomi nel pieno della notte, io non sapevo più dove mi trovassi e, in un primissimo momento, nemmeno chi fossi; avevo nella sua semplicità primaria soltanto il sentimento dell'esistenza così come può fremere nella profondità di un animale; ero più privo di tutto dell'uomo delle caverne; ma a quel punto il ricordo - non ancora del luogo dove mi trovavo, ma di alcuni dei luoghi dove avevo abitato e avrei potuto essere - veniva a me come un soccorso dall'alto per strapparmi dal nulla al quale da solo non sarei riuscito a sfuggire; in un secondo scavalcavo secoli di civiltà e le immagini, confusamente intraviste, di qualche lampada a petrolio, poi di alcune camicie col collo piegato, ricomponevano a poco a poco i tratti originali del mio io.
Forse l'immobilità delle cose che ci circondano è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall'immobilità del nostro pensiero nei loro confronti.
Quel che è certo è che quando, svegliandomi in quel modo, il mio spirito s'agitava per cercare, senza riuscirci, di sapere dove fossi, tutto, oggetti, paesi, anni, vorticava intorno a me nel buio.
Il mio corpo, troppo intorpidito per muoversi, cercava di individuare, in base alla forma della sua stanchezza, la posizione delle sue membra per dedurne l'andamento della parete, la disposizione dei mobili, per ricostruire e dare un nome alla casa in cui si trovava.
La sua memoria, la memoria delle sue costole, dei suoi ginocchi, delle sue spalle, gli presentava una dopo l'altra parecchie delle camere in cui aveva dormito, mentre tutt'intorno le pareti invisibili, mutando posizione secondo la forma della stanza immaginata, turbinavano nelle tenebre.
E prima ancora che il mio pensiero, esitante sulla soglia dei tempi e delle forme, identificasse la casa mettendo una accanto all'altra le circostanze, lui - il mio corpo - ricordava per ciascuna di esse il tipo di letto, la collocazione delle porte, l'esposizione delle finestre, l'esistenza di un corridoio, e in più le cose che avevo pensate addormentandomi e ritrovate al risveglio.
Il mio fianco anchilosato, cercando di indovinare il proprio orientamento, immaginava per esempio d'essere disteso verso il muro in un grande letto a baldacchino, e subito mi dicevo: Guarda, ho finito per addormentarmi anche se la mamma non è venuta a dirmi buonanotte, ero in campagna a casa del nonno, morto parecchi anni fa; e il mio corpo, il fianco sul quale ero appoggiato, custodi fedeli di un passato che il mio spirito non avrebbe mai dovuto dimenticare, mi ricordavano la fiamma della "veilleuse" di vetro di Boemia, a forma d'urna, sospesa al soffitto con delle catenelle, e il camino in marmo di Siena della mia camera da letto di Combray, (2) nella casa dei nonni, durante giorni lontani che in quel momento mi figuravo attuali senza rappresentarmeli esattamente, e che avrei rivisto meglio quando, pochi istanti dopo, fossi stato sveglio del tutto.
Poi rinasceva il ricordo d'un nuovo stato; il muro correva in un'altra direzione; ero nella mia stanza a casa di Madame de Saint-Loup, in campagna; Dio mio, sono almeno le dieci, devono aver finito di pranzare.
Avrò prolungato oltre misura la siesta che faccio ogni pomeriggio tornando dalla passeggiata con Madame de Saint-Loup, prima di indossare l'abito da sera.
Infatti sono passati molti anni dai tempi di Combray, quando anche nei ritorni più tardivi erano i riflessi rossi del tramonto ad apparirmi sui vetri della finestra.
E' un altro genere di vita quello che si conduce a Tansonville, in casa di Madame de Saint-Loup, un altro genere di piacere quello che provo a non uscire che di notte, a percorrere al chiaro di luna le strade dove, in altri tempi, giocavo al sole; e la camera nella quale mi sarò addormentato invece di vestirmi per il pranzo, la vedo da lontano, quando torniamo a casa, attraversata dalla luce della lampada, unico
faro nella notte.
Queste evocazioni turbinanti e confuse non duravano mai che qualche secondo; spesso, la mia breve incertezza circa il luogo in cui mi trovavo non staccava l'una dall'altra le diverse supposizioni di cui essa era fatta meglio di quanto, vedendo correre un cavallo, non riusciamo ad isolare le posizioni successive mostrateci dal cinetoscopio.
Ma avendo rivisto un po' l'una, un po' l'altra delle camere dove avevo abitato nella mia vita, finivo per ricordarmele tutte durante le lunghe fantasticherie che seguivano il risveglio: camere d'inverno dove, quando si è coricati, si ficca la testa in un nido messo insieme con le cose più disparate, un angolo del guanciale, l'estremità delle coperte, il capo d'uno scialle, il bordo del letto e un numero dei "Débats roses", (3) cementati infine tra loro con la tecnica degli uccelli, cioè posandovisi sopra un numero infinito di volte; dove, quando il tempo è glaciale, il piacere che si assapora è quello di sentirsi separati dall'esterno (come la rondine di mare che ha fatto il nido in fondo a un sotterraneo, nel calore della terra) e, poiché il fuoco è rimasto acceso tutta la notte nel camino, si dorme dentro un grande mantello d'aria calda e fumosa, attraversata dai bagliori dei tizzoni che si riaccendono, sorta d'impalpabile alcova, di calda caverna scavata all'interno della camera stessa, zona ardente e mobile nei suoi contorni termici, ventilata da soffi che ci rinfrescano il volto e vengono dagli angoli, dalle parti della stanza che, vicine alla finestra o lontane dal fuoco, si sono raffreddate; camere d'estate dove è bello essere uniti alla notte tiepida, dove il chiaro di luna che si posa sulle imposte socchiuse getta fino ai piedi del letto la sua scala incantata, dove si dorme quasi all'aria aperta, come la cincia cullata dalla brezza sulla cima d'un raggio; - a volte la camera Luigi Sedicesimo, (4) così allegra che nemmeno la prima sera mi ci ero sentito troppo infelice, e dove le colonnine che sostenevano con leggerezza il soffitto s'allargavano con tanta grazia per mostrare e difendere lo spazio del letto; - a volte, invece, quella - piccola e col soffitto così alto, scavata in forma di piramide nello spessore di due piani e rivestita in parte di mogano - dove, fin dal primo istante, ero stato moralmente intossicato dall'odore sconosciuto della vetiveria, certissimo dell'ostilità delle cortine viola e dell'indifferenza insolente della pendola che schiamazzava a tutto spiano come se io non ci fossi stato; dove una strana e impietosa specchiera quadrangolare, sbarrando obliquamente uno degli angoli della stanza, si scavava a vivo nella dolce pienezza del mio assuefatto campo visivo un posto non previsto; dove il mio pensiero, sforzandosi per ore di slogarsi, di stirarsi in altezza per prendere esattamente la forma della camera e riempire così fino in cima il suo imbuto gigantesco, aveva sofferto molte dure nottate, mentre giacevo nel letto con gli occhi alzati, l'orecchio ansioso, la narice aggricciata, il cuore in subbuglio, aspettando il momento in cui l'abitudine avrebbe mutato il colore delle tende, azzittito la pendola, insegnato la pietà allo specchio obliquo e crudele, dissimulato, se non proprio dissolto, l'odore della vetiveria, e alquanto alleggerito lo spessore apparente del soffitto.
L'abitudine! arredatrice esperta, ma terribilmente lenta, che comincia con il lasciar soffrire il nostro spirito per settimane e settimane in una sistemazione provvisoria, ma che questo, nonostante tutto, è ben felice di trovare, giacché senza l'aiuto dell'abitudine, con i suoi soli mezzi, sarebbe del tutto incapace di renderci abitabile una casa.
Certo, adesso ero ben sveglio, il mio corpo aveva compiuto un'ultima giravolta e il buon angelo della certezza aveva fermato ogni cosa intorno a me, mi aveva sistemato sotto le mie coperte, nella mia camera, e aveva messo più o meno al loro posto, nell'oscurità, il mio cassettone, il mio scrittoio, il mio caminetto, la finestra verso strada e le due porte.
Ma non bastava ch'io sapessi di non trovarmi affatto nelle case di cui l'ignoranza del risveglio m'aveva in un istante, se non presentato l'immagine precisa, almeno fatto credere possibile la presenza; ormai la mia memoria s'era messa in moto; generalmente non cercavo di riaddormentarmi subito, e passavo la maggior parte della notte a ricordare la nostra vita d'un tempo a Combray, in casa della prozia, oppure a Balbec, a Parigi, a Doncières, a Venezia, in altri luoghi ancora, a ricordare i posti, le persone che vi avevo conosciute, quel che di loro avevo visto, quello che me ne avevano raccontato.
A Combray ogni giorno, a cominciare dalla fine del pomeriggio, molto prima del momento in cui avrei dovuto essere messo a letto e restarmene lì senza dormire, lontano dalla mamma e dalla nonna, la mia camera da letto ridiventava il punto fisso e dolente delle mie preoccupazioni.
Avevano sì escogitato, per distrarmi le sere in cui trovavano che avessi un'aria troppo infelice, di darmi una lanterna magica con la quale, aspettando l'ora di pranzo, veniva attrezzata la mia lampada; e che, nello stile dei primi architetti e maestri vetrai dell'età gotica, sostituiva all'opacità delle pareti iridescenze impalpabili, soprannaturali apparizioni multicolori dove alcune leggende erano dipinte come su una vetrata vacillante e momentanea.
Ma la mia tristezza non ne era che accresciuta, giacché bastava la diversa illuminazione a distruggere l'abitudine che avevo della mia camera e grazie alla quale, escluso il supplizio dell'andare a dormire, essa mi era diventata sopportabile.
Adesso non la riconoscevo più e ci stavo con inquietudine, come in una camera d'albergo o di "chalet" nella quale fossi arrivato per la prima volta scendendo dal treno.
Al passo sussultante del suo cavallo, Golo, il cuore pieno d'un tremendo disegno, usciva dalla piccola foresta triangolare che vellutava di verde cupo il pendio d'una collina e avanzava a scatti verso il castello della povera Genoveffa di Brabante. (5) Il castello era smussato secondo una linea curva che altro non era se non il bordo di uno degli ovali di vetro, sistemati in un telaio, che s'infilavano tra le apposite guide della lanterna.
Era soltanto un lembo di castello, davanti al quale si stendeva una landa: lì stava Genoveffa, pensierosa e con una cintura azzurra.
Il castello e la landa erano gialli, e io non avevo dovuto vederli per conoscere il loro colore perché, prima dei vetrini della lanterna, me l'aveva mostrato con evidenza la sonorità "mordorée" (6) del nome di Brabante.
Golo si fermava brevemente ad ascoltare con tristezza la dicitura letta ad alta voce dalla mia prozia e ch'egli aveva l'aria di capire alla perfezione, conformando il suo atteggiamento, con una docilità che non escludeva una certa regalità, alle indicazioni del testo; dopo di che s'allontanava con la stessa andatura a scatti.
E non c'era niente che potesse arrestare la sua lenta cavalcata.
Se si spostava la lanterna, vedevo il cavallo di Golo continuare la sua avanzata sulle tende della finestra, gonfiandosi delle loro pieghe, sprofondando nelle loro fessure.
Il corpo dello stesso Golo, che era di un'essenza non meno soprannaturale di quello della sua cavalcatura, s'adattava a qualsiasi ostacolo materiale, a qualsiasi oggetto ingombrante che gli capitasse di incontrare, assumendolo come ossatura e rendendoselo interno, si trattasse anche della maniglia della porta alla quale si affrettava ad aderire e sulla quale galleggiavano invincibilmente la sua veste rossa e il suo volto pallido, di cui restavano inalterate la nobiltà e la malinconia, ma che non lasciava apparire il minimo turbamento per quella trasvertebrazione.
Certo, trovavo affascinanti quelle brillanti proiezioni che sembravano emanare da un passato merovingio (7) e che facevano girare intorno a me così antichi riflessi di storia.
E tuttavia non so dire quale disagio provocasse in me una simile intrusione del mistero e della bellezza in una camera che avevo, alla fine, così riempito del mio io da rendere l'una e l'altro oggetto di un'uguale attenzione.
Venuto meno l'effetto anestetizzante dell'abitudine, mi mettevo a pensare, a sentire, cose talmente tristi! Quella maniglia della porta della mia camera, che differiva per me dalle maniglie di tutte le altre porte del mondo per il fatto che sembrava girare da sola, senza ch'io dovessi toccarla, tanto la manovra me n'era divenuta inconsapevole, ecco che, a un tratto, fungeva da corpo astrale di Golo.
E, appena suonavano per il pranzo, raggiungevo di corsa la sala, dove la grossa lampada appesa, ignara di Golo e di Barbablù ma che sapeva tutto dei miei parenti e del manzo in casseruola, spandeva la sua luce d'ogni sera, e mi rifugiavo tra le braccia della mamma che le sventure di Genoveffa di Brabante mi rendevano più cara, così come i misfatti di Golo mi spingevano ad esaminare con maggiori scrupoli la mia propria coscienza.
Dopo pranzo, ahimè, ero ben presto costretto a lasciare la mamma che restava a conversare con gli altri, in giardino se il tempo era bello o nel salottino dove tutti si ritiravano quando era brutto.
Tutti tranne la nonna, la quale trovava che era un peccato restarsene al chiuso in campagna e aveva continue discussioni con mio padre, i giorni in cui pioveva troppo, perché mi mandava a leggere in camera invece di permettere che stessi fuori.
Non è così che lo farete diventare energico e robusto, diceva tristemente, e proprio questo bambino, poi, che ha tanto bisogno di farsi un po' di forze e di volontà.
Mio padre alzava le spalle e scrutava il barometro, perché amava la meteorologia, mentre mia madre, cercando di non far rumore per non disturbarlo, lo guardava con un rispetto intenerito, ma non troppo fissamente per non cercar di penetrare il mistero delle sue superiorità.
Ma la nonna, qualsiasi tempo facesse, anche quando la pioggia imperversava e Franoise aveva ritirato a precipizio le preziose poltrone di vimini perché non si inzuppassero, la si vedeva, lei, nel giardino deserto e sferzato dall'acquazzone, scostare le sue ciocche disordinate e grigie perché la fronte potesse accogliere più liberamente la salubrità del vento e della pioggia.
Finalmente si respira! diceva, e percorreva i fradici viali - troppo simmetricamente allineati, per i suoi gusti, dal nuovo giardiniere, sprovvisto del sentimento della natura e al quale mio padre aveva chiesto sin dal mattino se il tempo si sarebbe aggiustato - con il suo breve passo entusiasta e scattante, regolato sui differenti moti che eccitavano nel suo animo l'ebbrezza del temporale, la potenza dell'igiene, la stupidità della mia educazione e la simmetria del giardino, piuttosto che sul desiderio, a lei sconosciuto, di evitare alla sua gonna color prugna le macchie di fango sotto le quali finiva con lo scomparire fino a un'altezza che non mancava mai di rappresentare per la sua cameriera un dispiacere e un problema. Se questi giri in giardino della nonna avvenivano dopo pranzo, una cosa aveva il potere di farla rientrare: era - in uno di quei momenti nei quali la rivoluzione della sua passeggiata la riportava periodicamente, come un insetto, di fronte alle luci del salottino dove i liquori venivano serviti sul tavolo da gioco - quando la mia prozia le gridava: Bathilde! (8) vieni a dire a tuo marito che lasci stare il cognac!.
In effetti, per stuzzicarla (lo spirito che lei aveva portato nella famiglia di mio padre era così diverso che tutti la prendevano in giro e la tormentavano ), la prozia induceva mio nonno, al quale i liquori erano proibiti, a berne qualche goccia.
La nonna, poverina, correva dentro, pregava con ardore suo marito di non toccare il cognac; lui si seccava, beveva lo stesso il suo sorso, e la nonna se ne andava di nuovo, triste, scoraggiata e tuttavia sorridente, perché era così umile di cuore e così dolce che la sua tenerezza per gli altri e il poco conto che faceva della propria persona e delle proprie sofferenze si conciliavano nel suo sguardo in un sorriso nel quale, al contrario di quel che si vede sul volto di tanti esseri umani, non c'era ironia che per lei stessa, e per tutti noi qualcosa come un bacio dei suoi occhi che non potevano scorgere le persone a cui voleva bene senza accarezzarle appassionatamente con lo sguardo.
Quel supplizio che le infliggeva la prozia, lo spettacolo delle vane preghiere della nonna e della debolezza, sconfitta in partenza, con cui cercava inutilmente di strappare al nonno il bicchierino del liquore, era una di quelle cose alle quali in seguito ci abituiamo fino a considerarle ridendo e a prendere le parti del persecutore in modo sufficientemente allegro e risoluto da renderci persuasi che non si tratta nemmeno di persecuzione; allora, esse mi ispiravano un tale orrore che avrei voluto picchiare la mia prozia.
Ma appena sentivo: Bathilde, vieni a dire a tuo marito che lasci stare il cognac!, già uomo per viltà io facevo ciò che tutti, una volta diventati grandi, facciamo quando sofferenze e ingiustizie sono davanti a noi: mi rifiutavo di vederle; salivo a singhiozzare in alto in alto, accanto al locale dove studiavo, sotto il tetto, in una stanzetta che sentiva di giaggiolo e alla quale donava il suo profumo anche un ribes selvatico cresciuto all'esterno tra le pietre del muro e che insinuava un ramo fiorito attraverso la finestra socchiusa.
Destinata a un uso più specifico e più volgare, quella stanza, dalla quale la vista spaziava di giorno fino al torrione di Roussainvillele-Pin, mi servì a lungo da rifugio, senza dubbio perché era l'unica che mi fosse consentito di chiudere a chiave, per tutte quelle tra le mie occupazioni che esigevano un'inviolabile solitudine: la lettura, le fantasticherie, le lacrime e il piacere. (9) Ahimè! ignoravo che assai più tristemente dei piccoli attentati del marito alla propria dieta, erano la mia mancanza di volontà, la mia salute delicata, l'incertezza che l'una e l'altra proiettavano sul mio futuro ad angustiare la nonna nel corso di quelle incessanti deambulazioni del pomeriggio e della sera, quando si vedeva passare e ripassare, obliquamente alzato verso il cielo, il suo bel volto dalle gote scure e segnate, fattesi col volgere degli anni d'un colore quasi malva come i campi arati in autunno, attraversate, quando usciva, da una veletta sollevata a metà, e sulle quali, condotto là dal freddo o da qualche triste pensiero, era sempre sul punto d'asciugarsi un pianto involontario.
La mia unica consolazione, quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio una volta che io fossi a letto.
Ma quella buonanotte durava così poco, lei ridiscendeva così presto, che il momento in cui la sentivo salire, e poi nel corridoio a doppia porta trascorreva il lieve fruscio della sua veste da giardino in mussola azzurra dalla quale pendevano dei cordoncini di paglia intrecciata, era per me un momento doloroso.
Esso era il preannuncio di quello che sarebbe seguito e nel quale lei mi avrebbe lasciato, sarebbe ridiscesa.
E così, quella buonanotte che amavo tanto, mi spingevo sino ad augurarmi che arrivasse il più tardi possibile, perché si prolungasse il tempo di tregua durante il quale la mamma non era ancora venuta.
A volte, quando dopo avermi baciato apriva la porta per uscire, io desideravo richiamarla, dirle dammi un altro bacio, ma sapevo che subito avrebbe avuto la sua espressione di disappunto, perché la concessione che faceva alla mia tristezza e alla mia agitazione salendo a darmi quel bacio, a portarmi quel bacio di pace, irritava mio padre che giudicava simili riti delle assurdità, e lei avrebbe voluto tentare di farmene perdere il bisogno, l'abitudine: altro che lasciarmi prendere quella di chiederle, quando già stava per oltrepassare la soglia, un nuovo bacio.
Ora, vederla indispettita distruggeva tutta la calma di cui mi aveva riempito un istante prima chinando sul mio letto il suo viso amoroso, protendendolo verso di me come un'ostia per una comunione di pace dalla quale le mie labbra avrebbero attinto la sua presenza reale e il potere di addormentarmi.
Ma quelle sere durante le quali la mamma, tutto sommato, restava così poco nella mia camera, erano ancora dolci in confronto a quelle in cui c'era gente a pranzo e lei, per questa ragione, non saliva a darmi la buonanotte.
La gente, di solito, non era altri che il signor Swann, il quale, tolti alcuni estranei di passaggio, era più o meno l'unica persona che venisse a casa nostra a Combray, a volte per un pranzo tra vicini (più raramente da quando aveva fatto quel cattivo matrimonio, perché i miei parenti non volevano ricevere sua moglie), a volte dopo pranzo, senza preavviso.
Le sere in cui, seduti davanti a casa sotto il grande castagno, intorno al tavolino di ferro, sentivamo dal fondo del giardino, non il sonaglio abbondante e chiassoso che sommergeva, che stordiva al passaggio, con il suo rumore gelido, implacabile e metallico, tutte le persone di casa che lo scatenavano entrando "senza suonare", ma il doppio tintinnio timido, ovale e dorato del campanello per gli estranei, tutti si affrettavano a chiedersi: Una visita, chi può essere?, ma si sapeva benissimo che non poteva essere che il signor Swann; la prozia, parlando a voce alta per essere d'esempio, in un tono che si sforzava di rendere naturale, diceva di non bisbigliare in quel modo; che niente è meno cortese nei confronti di una persona in arrivo e alla quale, così, si fa credere che stiamo parlando di qualcosa ch'essa non deve ascoltare; e si mandava in avanscoperta la nonna, sempre felice d'avere un pretesto per fare un altro giro del giardino, e che ne approfittava per strappare furtivamente, passando, qualche sostegno dei rosai per restituire alle rose un po' di naturalezza, come una madre che, per renderli più ariosi, passa una mano tra i capelli di suo figlio che il parrucchiere ha troppo appiattiti.
Restavamo tutti sospesi alle notizie che la nonna ci avrebbe portate del nemico, come se si potesse esitare fra un gran numero di possibili assalitori, e subito dopo il nonno diceva: Riconosco la voce di Swann.
In effetti lo si riconosceva soltanto dalla voce; il suo viso dal naso aquilino, dagli occhi verdi sotto l'alta fronte circondata di capelli biondi, quasi rossi, pettinati alla Bressant, (10) era molto difficile distinguerlo, dal momento che tenevamo il meno possibile di luce in giardino per non attirare le zanzare, e io, senza averne l'aria, andavo a dire che portassero
gli sciroppi; la nonna attribuiva grande importanza, perché lo trovava più cortese, al fatto che questi non sembrassero qualcosa d'eccezionale, di riservato alle visite.
Il signor Swann, pur essendo assai più giovane di lui, era molto legato a mio nonno, che era stato uno dei migliori amici di suo padre, uomo eccellente ma singolare nel quale, sembra, bastava a volte un niente per interrompere gli slanci del cuore, mutare il corso dei pensieri.
Parecchie volte sentivo il nonno raccontare a tavola degli aneddoti, sempre gli stessi, sul comportamento tenuto dal signor Swann padre alla morte di sua moglie, ch'egli aveva vegliato giorno e notte.
Il nonno, che non lo vedeva da molto tempo, era accorso da lui nella proprietà che gli Swann possedevano nei dintorni di Combray, ed era riuscito, per evitare che assistesse alla chiusura della bara, a fargli abbandonare per un istante, in lacrime, la camera mortuaria.
Avevano fatto due passi nel parco, dove c'era un po' di sole.
Tutt'a un tratto il signor Swann, stringendo il braccio di mio nonno, aveva esclamato: Ah, mio vecchio amico, che felicità passeggiare insieme con questo bel tempo! Non li trovate una delizia, tutti questi alberi, questi biancospini, e il mio stagno per il quale non mi avete ancora fatto i complimenti? Mi sembrate un tantino sbattuto.
Lo sentite questo venticello? Ah, si ha un bel dire, ma nella vita c'è comunque del buono, mio caro Amédée!.
Bruscamente il ricordo della moglie morta lo riassalì, e trovando senza dubbio troppo complicato indagare come in un simile momento avesse potuto cedere a un moto di gioia, egli si accontentò, con un gesto che gli era familiare ogni volta che una questione difficile si presentava alla sua mente, di passarsi la mano sulla fronte e di asciugarsi gli occhi e le lenti del "pincenez".
E tuttavia non seppe consolarsi della morte della moglie, ma durante i due anni che le sopravvisse confidava a mio nonno: E' strano, penso molto spesso alla mia povera moglie, ma non riesco a pensarci più d'un tanto alla volta.
Spesso ma poco alla volta, come il povero Swann padre era diventata una delle frasi favorite di mio nonno, che la pronunciava nelle occasioni più disparate.
Avrei pensato che questo Swann padre fosse un mostro se il nonno, che consideravo il migliore dei giudici e le cui sentenze, che per me facevano giurisprudenza, mi hanno spesso aiutato, in seguito, ad assolvere colpe che sarei stato incline a condannare, non avesse protestato: Ma cosa dici? aveva un cuore d'oro!.
Benché per parecchi anni, soprattutto prima del suo matrimonio, il signor Swann figlio venisse spesso a far loro visita a Combray, la mia prozia e i miei nonni non sospettarono mai ch'egli non viveva più nella società frequentata un tempo dalla sua famiglia, e che, sotto la sorta d'incognito assicuratagli in casa nostra dal nome di Swann, essi offrivano la loro ospitalità - con l'assoluta innocenza di onesti locandieri che danno alloggio, senza saperlo, a un famoso brigante - a uno dei più eleganti membri del Jockey-Club, (11) amico prediletto del conte di Parigi e del principe di Galles, (12) uno degli uomini più vezzeggiati nell'alta società del faubourg Saint-Germain. (13) L'ignoranza nella quale ci circa la brillante vita mondana condotta da Swann dipendeva evidentemente, in parte, dalla riservatezza e dalla discrezione del suo carattere, ma anche dal fatto che i borghesi d'allora avevano della società un'idea un po' induista, nel senso che la consideravano composta di caste chiuse dove ciascuno si trovava collocato sin dalla nascita nello stesso rango occupato dai suoi genitori e al quale nulla, tranne gli imprevisti di una carriera straordinaria o di un matrimonio insperato, avrebbe potuto sottrarlo per farlo penetrare in una casta superiore.
Il signor Swann padre era agente di cambio; "Swann figlio" si trovava dunque a far parte per tutta la vita di una casta all'interno della quale le fortune, come in una categoria di contribuenti, variavano da un minimo a un massimo di reddito.
Si sapeva quali erano state le frequentazioni di suo padre, dunque si sapeva quali erano le sue, con quali persone era "in grado" di avere rapporti.
Se ne conosceva di diverse, erano relazioni "da scapolo", sulle quali dei vecchi amici di famiglia, come erano i miei parenti, chiudevano gli occhi con maggiore indulgenza in considerazione del fatto che, da quando era rimasto orfano, egli aveva continuato molto fedelmente a farci visita; ma c'era da scommettere a colpo sicuro che le persone a noi sconosciute ch'egli frequentava erano di quelle che non avrebbe osato salutare se, trovandosi in nostra compagnia, gli fosse capitato d'incontrarle.
Volendo a tutti i costi applicare a Swann un coefficiente sociale che lo distinguesse fra tutti i figli di agenti di cambio economicamente equivalenti ai suoi genitori, tale coefficiente sarebbe stato per lui leggermente inferiore dal momento che, molto semplice di modi e da sempre affetto da una "cotta" per gli oggetti antichi e la pittura, egli abitava allora in una vecchia palazzina dove stipava le sue collezioni e che mia nonna sognava di visitare, ma che si affacciava sul quai d'Orléans, (14) quartiere dove la mia prozia trovava indecente aver casa.
Ve ne intendete davvero, poi? Ve lo chiedo nel vostro interesse, dovete farvi rifilare delle tali croste dai mercanti gli diceva la prozia; in effetti, non gli attribuiva la minima competenza, e non aveva certo una grande opinione, nemmeno dal punto di vista intellettuale, di un uomo che in conversazione evitava gli argomenti seri e sfoggiava una precisione assai prosaica, non soltanto quando ci forniva, entrando nei dettagli più minuti, delle ricette di cucina, ma persino quando le sorelle della nonna parlavano di argomenti artistici. Provocato da loro a dare il suo parere, a esprimere la sua ammirazione per un quadro, egli manteneva un silenzio quasi scortese, prendendosi la rivincita se poteva fornire sul museo dove il quadro si trovava, o sulla data in cui era stato dipinto, qualche informazione materiale.
Ma perlopiù si limitava a cercare di divertirci raccontandoci ogni volta una nuova storia che gli era appena capitata con persone scelte tra quelle che conoscevamo, il farmacista di Combray, la nostra cuoca, il nostro cocchiere.
Certo erano racconti che facevano ridere la mia prozia, ma senza che lei si rendesse ben conto se era per la parte ridicola che Swann immancabilmente vi si attribuiva o per lo spirito con cui sapeva raccontare: Si può dire che siete proprio un bel tipo, signor Swann!.
Poiché era la sola persona un po' volgare della nostra famiglia, non mancava mai di far notare agli estranei, quando si parlava di Swann, che, se avesse voluto, avrebbe potuto abitare in boulevard Haussmann (15) o in avenue de l'Opéra, che il signor Swann suo padre doveva avergli lasciato quattro o cinque milioni e che, insomma, si trattava di una sua "fantasia".
Fantasia che lei, del resto, stimava dover essere per gli altri così divertente che a Parigi, quando Swann veniva il giorno di capodanno a portarle il suo sacchetto di "marrons glacés", non tralasciava, se c'era gente, di dirgli: Ebbene, signor Swann, abitate sempre vicino al Deposito dei vini, per esser sicuro di non perdere il treno quando dovete andare a Lione ? .
E sbirciava di traverso, al di sopra dell'occhialetto, gli altri visitatori.
Ma se qualcuno avesse detto alla mia prozia che quello Swann che, in quanto Swann figlio, era perfettamente "qualificato" per essere ricevuto da tutta la "buona borghesia", dai notai o procuratori più in vista di Parigi (privilegio ch'egli sembrava alquanto trascurare), aveva come di nascosto una vita affatto diversa, e quando usciva da casa nostra, a Parigi, dicendoci che andava a dormire, invertiva la direzione appena voltato l'angolo e si recava in un tale salotto che mai occhio d'agente o di socio d'agente poté contemplare, questo le sarebbe parso tanto straordinario quanto a una dama più letterata il pensiero d'essere in rapporti personali con Aristeo (16) sapendo che, dopo aver chiacchierato con lei, corre a sprofondarsi in seno ai reami di Teti, (17) in un impero sottratto alla vista dei mortali, dove Virgilio ce lo descrive ricevuto a braccia aperte; o, per stare a un'immagine che aveva più probabilità di venirle in mente, giacché l'aveva vista dipinta a Combray sui nostri piattini da dolci, quanto aver avuto a pranzo Alì Babà, il quale, appena sarà certo d'essere solo, s'infilerà nella sua caverna abbagliante di tesori insospettati.
Una volta che era venuto a trovarci a Parigi, dopo pranzo, scusandosi d'essere in abito da sera, e Franoise, dopo che lui se n'era andato, aveva detto di aver sentito dal cocchiere che aveva pranzato da una principessa, - Sì, una principessa del "demi-monde"! aveva risposto la zia alzando le spalle, senza sollevare gli occhi dal suo lavoro a maglia, con serena ironia.
C'era persino, nel suo modo di trattarlo, una familiarità un po' sprezzante.
Poiché era convinta ch'egli dovesse sentirsi lusingato dai nostri inviti, le pareva del tutto naturale che non venisse mai a trovarci, d'estate, senza avere in mano un cestino di pesche o di lamponi del suo giardino, e che da ciascuno dei suoi viaggi in Italia m'avesse portato delle fotografie di capolavori.
Non ci si faceva il minimo scrupolo di mandargli a chiedere, in caso di bisogno, una ricetta di salsa "gribiche" (18) o di insalata all'ananas per qualche pranzo importante al quale non lo si invitava, non riconoscendogli un prestigio sufficiente per poterlo ammannire ad estranei che venivano per la prima volta.
Se la conversazione cadeva sui principi della Casa di Francia: gente che né voi né io conosceremo mai, e ne facciamo benissimo a meno, non è vero?, diceva la mia prozia a Swann che magari aveva in tasca una lettera da Twickenham; (19) gli faceva spostare il pianoforte e voltare le pagine dello spartito le sere in cui la sorella della nonna cantava, usando, nel maneggiare quella creatura altrove così ricercata, la rozzezza
ingenua di un bambino che gioca con un ninnolo da collezione senza precauzioni maggiori che con un oggetto da pochi soldi.
Non c'è dubbio che lo Swann conosciuto negli stessi anni da tanti frequentatori del Jockey era assai diverso da quello al quale dava vita la mia prozia quando di sera, nel piccolo giardino di Combray, dopo ch'erano risuonati i due esitanti rintocchi del campanello, iniettava e irrobustiva con tutto ciò che sapeva della famiglia Swann l'oscuro e incerto personaggio che si disegnava, seguito dalla nonna, su uno sfondo di tenebre, e veniva riconosciuto dalla voce.
Ma anche al livello delle cose più insignificanti della vita, noi non siamo un tutto materialmente costituito, identico per tutti e di cui ciascuno non deve far altro che prendere conoscenza come di un capitolato d'appalto o di un testamento; la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero degli altri.
Persino l'atto così elementare che chiamiamo "vedere una persona conosciuta" è in parte un atto intellettuale.
Noi riempiamo l'apparenza fisica dell'individuo che vediamo con tutte le nozioni che possediamo sul suo conto, e nell'immagine totale che di lui ci rappresentiamo queste nozioni hanno senza alcun dubbio la parte più considerevole.
Esse finiscono per gonfiare con tanta perfezione le sue guance, per seguire con tale esatta aderenza la linea del suo naso, si incaricano così efficacemente di sfumare la sonorità della sua voce, come se si trattasse soltanto di un involucro trasparente, che ogni volta che vediamo quel viso e sentiamo quella voce sono loro, le nozioni, a presentarsi al nostro sguardo, a offrirsi al nostro ascolto.
Certo, nello Swann costruito dai miei parenti essi avevano omesso per ignoranza di far entrare una quantità di dettagli della sua vita mondana, che erano poi quelli in virtù dei quali altre persone, trovandosi di fronte a lui, vedevano ogni sorta di eleganza regnare sul suo volto e arrestarsi al suo naso aquilino come a un naturale confine; ma è anche vero che in quel volto sconsacrato del suo prestigio, vacante e spazioso, in fondo a quegli occhi deprezzati, erano riusciti a stipare il vago e dolce residuo - metà memoria, metà oblio - delle pigre ore passate insieme dopo i nostri pranzi settimanali, intorno al tavolo da gioco o in giardino, durante la nostra vita di buon vicinato campagnolo.
L'involucro corporeo del nostro amico ne era stato così ben imbottito, con l'aggiunta di qualche ricordo relativo ai suoi genitori, che quello Swann era diventato un essere completo e vivente, e io ho l'impressione di abbandonare qualcuno per andare verso un'altra e ben distinta persona quando dallo Swann che ho conosciuto più tardi con esattezza passo nella mia memoria a quel primo Swann - a quel primo Swann nel quale ritrovo gli incantevoli errori della mia giovinezza e che d'altronde assomiglia meno all'altro, al secondo, che non alle persone da me conosciute nello stesso periodo, come se succedesse nella nostra vita quel che succede in un museo dove tutti i ritratti d'una stessa epoca hanno un'aria di famiglia, una tonalità comune - a quel primo Swann riempito di buon ozio, profumato dell'odore del grande castagno, dei cestini di lamponi e d'un sentore di dragoncello. (20) Tuttavia, un giorno che la nonna era andata a chiedere un favore a una signora che aveva conosciuta al Sacré-Coeur (21) (e con la quale, a causa della nostra concezione delle caste, non aveva voluto restare in
relazione nonostante una reciproca simpatia), la marchesa di Villeparisis, della celebre famiglia di Bouillon, questa le aveva detto: Credo che voi conosciate bene il signor Swann, che è molto amico dei miei nipoti des Laumes.
La nonna era tornata da quella visita piena di entusiasmo per la casa che guardava su dei giardini e dove Madame de Villeparisis le consigliava di prendere in affitto un appartamento, e anche per un sarto di panciotti e sua figlia che avevano bottega nel cortile e dai quali era entrata per chiedere di dare un punto alla sua gonna, strappatasi lungo la scala.
La nonna li aveva trovati perfetti, affermava che la ragazza era una perla e che il sarto era il più distinto e il migliore degli uomini.
Per lei, infatti, la distinzione era qualcosa di assolutamente indipendente dal rango sociale.
Si estasiava ripensando a una risposta datale dal sarto, e diceva alla mamma: Sévigné (22) non avrebbe trovato di meglio! e viceversa, di un nipote di Madame de Villeparisis (23) incontrato in casa di quest'ultima: Ah, figlia mia, com'è ordinario!.
Ebbene, quel discorso ebbe nell'immaginazione della mia prozia non già l'effetto di innalzare Swann, ma quello di abbassare Madame de Villeparisis.
Era come se la considerazione che noi, sulla parola della nonna, accordavamo a Madame de Villeparisis le imponesse il dovere di non far nulla che la rendesse meno degna di esserne l'oggetto, dovere al quale lei era venuta meno accorgendosi dell'esistenza di Swann e permettendo a dei suoi parenti di frequentarlo.
Ma come! conosce Swann? E sarebbe, come tu sostieni, una parente del maresciallo di Mac-Mahon? (24) Questa opinione dei miei parenti sulle relazioni di Swann parve, ai loro occhi, ricevere conferma dal suo matrimonio con una donna della peggiore società, quasi una "cocotte", che lui, d'altronde, non cercò mai di presentarci, continuando a venire a casa nostra da solo, anche se sempre più di rado, ma dalla quale essi credettero di poter giudicare - supponendo che fosse lì che l'aveva presa - l'ambiente, a loro sconosciuto, ch'egli frequentava abitualmente.
Una volta, però, mio nonno lesse in un giornale che Swann era uno dei più fedeli "habitués" delle colazioni domenicali in casa del duca di X..., il cui padre e il cui zio erano stati gli uomini politici più in vista del regno di Luigi Filippo.
Ora, il nonno era curioso di tutti i piccoli fatti che potessero aiutarlo a penetrare idealmente nella vita privata di uomini come Molé, come il duca Pasquier, come il duca di Broglie. (25) Fu deliziato di sapere che Swann frequentava qualcuno che li aveva conosciuti.
La prozia, al contrario, interpretò la notizia in senso sfavorevole a Swann: uno che sceglieva di frequentare persone al di fuori della casta in cui era nato, al di fuori della sua "classe" sociale, subiva ai suoi occhi un increscioso declassamento.
Le sembrava che in tal modo si rinunciasse in un colpo solo al profitto di tutte le buone relazioni con gente "a posto" onorevolmente intrattenute e accumulate per i figli famiglie previdenti (aveva persino smesso di vedere un nostro amico, figlio d'un notaio, perché aveva sposato una principessa ed era così precipitato, per lei, dal rispettabile rango di figlio di notaio al livello di uno di quegli avventurieri, ex-camerieri o garzoni di scuderia, ai quali si dice che le regine, di tanto in tanto, concedessero qualche favore).
La prozia biasimò il progetto del nonno di interrogare Swann, che sarebbe venuto a pranzo da noi la sera successiva, sugli amici che gli avevamo appena scoperti.
Dal canto loro le due sorelle della nonna, anziane signorine che avevano la sua stessa nobiltà d'animo ma non la sua intelligenza, dichiararono di non capire quale piacere il cognato potesse trarre dal discorrere di simili sciocchezze.
Erano persone di elevate aspirazioni e proprio per questo incapaci di interessarsi a un pettegolezzo, fosse pure di interesse storico, e in generale a tutto quanto non avesse direttamente a che fare con un oggetto estetico o virtuoso.
Il loro disinteresse nei confronti di tutto ciò che sembrava più o meno vagamente riferirsi alla vita mondana era tale che il loro senso dell'udito - avendo finito con il rendersi conto della propria momentanea inutilità ogni volta che a tavola la conversazione assumeva un tono frivolo o semplicemente terra terra ad onta dei tentativi delle due zitelle di riportarla agli argomenti da loro preferiti metteva a riposo gli organi di ricezione, lasciando che subissero un vero e proprio principio di atrofia.
Se, in quei casi, il nonno aveva bisogno di attirare l'attenzione delle due sorelle, gli toccava far ricorso a quei segnali fisici di cui si servono i medici alienisti con certi maniaci
della distrazione: colpi battuti a più riprese su un bicchiere con la lama di un coltello, accompagnati da un brusco richiamo della voce e dello sguardo - mezzi violenti che gli psichiatri trasferiscono non di rado nei loro normali rapporti con persone sane, sia per abitudine professionale, sia perché sono convinti che tutti quanti siamo un po' matti.
Le due manifestarono maggior interesse quando, la vigilia di un giorno in cui Swann doveva venire a pranzo e aveva mandato personalmente a loro una cassa di vino d'Asti, la zia, con in mano un numero del "Figaro" sul quale, a fianco del titolo d'un quadro esposto a una mostra di Corot, c'erano queste parole: "collezione del signor Charles Swann", ci disse: Avete visto che Swann è "assurto agli onori" del "Figaro"? - Ma ve l'ho sempre detto che ha molto gusto, disse la nonna. - Eh già, naturale, a te basta avere un parere diverso dal nostro, replicò la prozia che, sapendo che la nonna non era mai del suo stesso parere e non essendo ben sicura che noi, a nostra volta, fossimo sempre d'accordo con lei, voleva strapparci una condanna in blocco delle opinioni della nonna contro le quali tentava di farci solidarizzare per forza con le sue.
Ma noi restammo in silenzio.
Le sorelle della nonna avevano manifestato l'intenzione di parlare a Swann di quell'accenno del "Figaro", ma la prozia le sconsigliò.
Ogni volta che scorgeva negli altri un privilegio, per quanto minuscolo, che lei non aveva, si persuadeva che non era un privilegio, ma un fastidio, e li compiangeva per non essere costretta ad invidiarli.
Credo che non gli fareste piacere; io sono sicura che mi riuscirebbe molto sgradevole vedere il mio nome spiattellato così sul giornale. e non sarei affatto lusingata se qualcuno me ne parlasse.
Tuttavia non si ostinò a voler convincere le sorelle della nonna, dal momento che queste, per orrore della volgarità, portavano a tali vertici l'arte di dissimulare sotto perifrasi ingegnose qualsiasi allusione personale, che l'allusione stessa passava molte volte inosservata anche da parte di colui al quale era rivolta.
Quanto a mia madre, pensava solo a cercar di ottenere da mio padre che parlasse a Swann non della moglie, ma della figlia che Swann adorava e a causa della quale, si diceva, aveva finito col fare quel matrimonio.
Potresti dirgli appena una parola, chiedergli come sta.
Dev'essere talmente crudele, per lui.
Ma mio padre si seccava: Ma no! che idee assurde.
Sarebbe ridicolo.
Tuttavia, il solo tra noi per il quale una visita di Swann divenisse oggetto di una preoccupazione dolorosa ero io.
Le sere in cui c'erano degli estranei, o semplicemente Swann, la mamma, infatti, non saliva nella mia camera.
Pranzavo prima di tutti gli altri, e più tardi potevo sedermi a tavola ma soltanto fino alle otto, ora in cui era convenuto che salissi; quel bacio prezioso e fragile che di solito la mamma mi affidava mentre ero nel mio letto e sul punto di addormentarmi, mi toccava trasportarlo dalla sala da pranzo alla mia camera e tenerlo in serbo per tutto il tempo che impiegavo a spogliarmi, senza che la sua dolcezza si incrinasse, senza che si versasse o evaporasse il suo volatile potere, e proprio quelle sere in cui avrei avuto bisogno di riceverlo con maggior precauzione ero costretto ad afferrarlo, a portarlo via bruscamente, pubblicamente, senza nemmeno avere il tempo e la libertà di spirito necessari per mettere in quel che facevo la speciale attenzione dei maniaci che si sforzano di non pensare a nient'altro mentre chiudono una porta, per poter poi opporre al ritorno della loro incertezza morbosa
il vittorioso ricordo del momento nel quale l'hanno chiusa.
Eravamo tutti in giardino quando risuonarono i due esitanti squilli del campanello.
Sapevamo che era Swann; nondimeno tutti si guardarono con aria interrogativa e la nonna fu mandata in ricognizione.
Cercate di ringraziarlo per il vino in un modo comprensibile, sapete che è delizioso e che la cassa è enorme, raccomandò mio nonno alle due cognate.
Non cominciate a bisbigliare, disse la prozia.
E' un vero divertimento arrivare in una casa dove tutti parlano sottovoce! - Ah, ecco il signor Swann.
Gli chiederemo se domani, secondo lui, ci sarà bel tempo, disse mio padre.
Mia madre pensava che con una parola avrebbe potuto cancellare tutta la pena che la nostra famiglia doveva aver causato a Swann dopo il suo matrimonio.
Trovò il modo di condurlo un po' in disparte.
Ma io la seguii; non potevo decidermi ad abbandonarla d'un solo passo, pensando che prestissimo avrei dovuto lasciarla nella sala da pranzo e salire nella mia camera senza avere come le altre sere la consolazione che sarebbe venuta a baciarmi.
A proposito, signor Swann, gli disse la mamma, parlatemi un po' di vostra figlia; sono sicura che avrà già il gusto delle cose belle come il suo papà. - Coraggio, venite a sedervi con noi sotto la veranda, disse il nonno avvicinandosi.
Mia madre dovette interrompersi, ma persino da questa costrizione riuscì a trarre un pensiero delicato in più, come un buon poeta obbligato dalla tirannia della rima a escogitare le sue maggiori bellezze: Riparleremo di lei quando saremo soli, disse a Swann abbassando la voce.
Solo una mamma è degna di capirvi.
Sono sicura che la sua sarebbe del mio stesso parere.
Ci mettemmo tutti a sedere intorno al tavolino di ferro.
Avrei voluto non pensare alle ore d'angoscia che mi aspettavano quella sera, solo nella mia camera e incapace di addormentarmi; cercavo di persuadermi che esse non avevano alcuna importanza perché domattina le avrei dimenticate, di attaccarmi a delle idee di futuro che avrebbero dovuto condurmi, come su un ponte, al di là dell'abisso imminente che mi terrorizzava.
Ma il mio spirito teso dalla preoccupazione, reso convesso come lo sguardo che lanciavo di continuo a mia madre, era impenetrabile a qualsiasi impressione esterna.
I pensieri vi entravano sì, ma a patto di lasciar fuori tutti gli elementi belli o semplicemente buffi che avrebbero potuto colpirmi o distrarmi.
Simile a un malato che grazie a un anestetico assiste in piena lucidità, ma senza sentire nulla, a un'operazione eseguita sul suo corpo, potevo recitarmi dei versi che amavo o osservare gli sforzi che faceva il nonno per parlare a Swann del duca d'Audiffret-Pasquier, (26) senza che i primi mi ispirassero alcuna emozione o i secondi alcuna allegria.
Furono, comunque, sforzi infruttuosi.
Non appena il nonno ebbe posto a Swann una domanda relativa a quell'oratore, una delle sorelle della nonna, alle cui orecchie la domanda era risuonata come un silenzio tanto profondo quanto intempestivo che la buona educazione imponeva di infrangere, interpellò l'altra: Figurati, Céline, che ho fatto la conoscenza di una giovane istitutrice svedese dalla quale ho saputo dei particolari incredibilmente interessanti sulle cooperative nei paesi scandinavi.
Bisognerà che venga a pranzo da noi, una sera.
Lo credo bene! ribatté sua sorella Flora, ma anch'io non ho perso il mio tempo.
A casa del signor Vinteuil ho incontrato un vecchio scienziato che conosce molto bene Maubant (27) e al quale Maubant ha spiegato in ogni dettaglio come fa a preparare una parte. E' incredibilmente interessante.
E' un vicino del signor Vinteuil, io non ne sapevo nulla; ed è molto, molto gentile. - Il signor Vinteuil non è il solo ad avere dei vicini gentili, esclamò zia Céline con una voce resa acuta dalla timidezza e artificiosa dalla premeditazione, rivolgendo intanto a Swann quello che lei chiamava uno sguardo significativo.
Nel frattempo zia Flora, resasi conto che quella frase era il ringraziamento di Céline per il vino d'Asti, guardava a sua volta Swann con un'aria insieme di congratulazione e di ironia, o per sottolineare semplicemente la battuta della sorella, o perché invidiava a Swann d'esserne stato l'ispiratore, o perché, credendolo al centro dell'attenzione generale, non poteva fare a meno di burlarsi un poco di lui.
Credo che potremmo riuscire ad avere quel signore a pranzo, continuò Flora; quando si porta il discorso su Maubant o sulla Materna (28) parla per ore senza fermarsi. - Dev'essere delizioso, sospirò il nonno, nella cui testa la natura aveva sfortunatamente omesso di inserire la possibilità di un appassionato interesse per le cooperative svedesi o per la preparazione delle parti di Maubant in modo non meno radicale di come s'era scordata di dotare quelle delle sorelle della nonna del granellino di sale che bisogna aggiungere da sé, per trovarci un qualche sapore, a un racconto sulla vita intima di Molé o del conte di Parigi.
Ecco, disse Swann a mio nonno, quel che vi dirò ha a che vedere più di quanto non sembri con l'argomento di cui mi chiedevate, visto che sotto certi aspetti le cose non sono poi molto cambiate.
Rileggevo stamattina in Saint-Simon qualcosa che vi avrebbe divertito.
E' nel volume sulla sua ambasceria in Spagna; non è dei migliori, in sostanza non è che un giornale, ma perlomeno un giornale scritto stupendamente, il che già lo distingue dagli spaventosi giornali che ci crediamo tenuti a leggere mattina e sera.
Non sono del vostro parere, certe volte la lettura dei giornali mi sembra molto gradevole..., interruppe zia Flora per far capire che aveva letto nel "Figaro" la frase sul Corot di Swann.
Quando parlano di cose o di persone che ci interessano! incalzò zia Céline.
Non dico di no, replicò Swann meravigliato.
Quel che io rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione ogni giorno a cose insignificanti, mentre non leggiamo che tre o quattro volte in tutta la vita i libri dove ci sono cose essenziali.
E poiché ogni mattina strappiamo febbrilmente la fascetta del giornale, allora bisognerebbe invertire le cose e mettere nel giornale, che so, i... "Pensieri" di Pascal! (egli isolò queste ultime parole sottolineandole con enfasi ironica per non avere l'aria pedante).
Mentre è in uno di quei volumi col taglio dorato che apriamo una volta ogni dieci anni, aggiunse dando prova dell'affettato disdegno per le cose mondane tipico di certi uomini di mondo, che dovremmo leggere che la regina di Grecia è andata a Cannes o che la principessa di Léon ha dato un ballo in costume.
Così le giuste proporzioni sarebbero ristabilite.
Ma, pentito d'essersi lasciato andare a parlare sia pure in tono leggero di cose serie: Stiamo facendo proprio dei bei discorsi, aggiunse con ironia, non so davvero perché abbiamo affrontato simili "vertici"; e volgendosi verso il nonno: Dunque, racconta Saint-Simon che Maulévrier (29) aveva avuto l'audacia di tendere la mano ai suoi figli.
E', sapete, quel Maulévrier di cui dice: "Mai altro ho visto in quella spessa bottiglia che malevolenza, zoticaggine e stupidità".
Spesse o no, conosco bottiglie che contengono ben altro, disse vivacemente Flora, che ci teneva a ringraziare a sua volta Swann poiché l'omaggio del vino d'Asti era indirizzato ad entrambe.
Céline si mise a ridere.
Swann, interdetto, riprese: Non so se per ignoranza o raggiro, scrive Saint-Simon, egli volle dar la mano ai miei figli.
Me ne avvidi in tempo per impedirglielo. (30) Il nonno si stava estasiando per "ignoranza o raggiro", ma già Mademoiselle Céline, nella quale il nome di Saint-Simon - un letterato - aveva impedito l'anestesia totale delle facoltà auditive, si stava indignando: Come! e voi ammirate un comportamento simile? Ma bene! davvero grazioso! Che cosa vorrebbe dire, poi: forse che un uomo non vale quanto un altro? Che importanza può avere che sia duca o cocchiere, se è intelligente e generoso? Aveva proprio un bel modo di educare i suoi figli, il vostro Saint-Simon, se non gli diceva di stringere la mano a tutte le persone oneste.
E' abominevole, semplicemente abominevole.
E avete il coraggio di raccontarlo?.
E il nonno, desolato, conscio dell'impossibilità, di fronte a un simile ostruzionismo, di ottenere che Swann gli raccontasse le storie che lo avrebbero deliziato, diceva alla mamma a bassa voce: Ti prego, ricordami quel verso che mi hai insegnato e che mi dà tanto sollievo in questi momenti.
Ah sì: "Quante virtù, Signore, tu ci fai detestare!". (31) Ah, com'è giusto!.
Con gli occhi non lasciavo mia madre, sapevo che, una volta a tavola, non mi sarebbe stato permesso di restare per tutta la durata del pranzo e che, per non contrariare mio padre, la mamma non si sarebbe lasciata baciare a più riprese davanti agli altri come se fossimo stati in camera mia.
Così mi ripromettevo, in sala da pranzo, quando si fosse cominciato a mangiare e io avessi sentito avvicinarsi l'ora, di fare in anticipo, riguardo a quel bacio che sarebbe stato così breve e furtivo, tutto ciò che potevo fare da solo, di scegliere con lo sguardo il punto della guancia che avrei baciato, di preparare il mio pensiero in modo da riuscire, grazie a quel mentale inizio di bacio, a consacrare per intero il minuto accordatomi dalla mamma a sentire il suo viso contro le mie labbra, simile a un pittore che, potendo contare solo su brevi sedute di posa, prepara la sua tavolozza e fa in anticipo a memoria, basandosi sugli appunti, tutto ciò per cui può a stretto rigore fare a meno della presenza del modello.
Ma ecco che prima che il pranzo fosse servito il nonno ebbe la ferocia incosciente di dire: Il piccolo ha l'aria stanca, dovrebbe andare a letto.
Stasera, del resto, si pranza tardi.
E mio padre, che non teneva così scrupolosamente fede ai trattati come la nonna e la mamma, disse: Sì, andiamo, vai a letto.
Feci per baciare mia madre, proprio in quell'istante risuonò la campanella del pranzo.
Ma no, via, lascia stare tua madre, vi siete già detti buonanotte a sufficienza, queste manifestazioni sono ridicole.
Coraggio, sali! E mi toccò andare senza viatico; mi toccò salire gradino dopo gradino la scala, come dice l'espressione popolare, di "controcuore", letteralmente contro il mio cuore che voleva tornare accanto a mia madre, la quale non gli aveva concesso, con il suo bacio, licenza di venire con me.
Quella scala odiatissima che imboccavo sempre con tanta tristezza esalava un odore di vernice che aveva in qualche modo assorbito, fissato il particolare tipo di sofferenza che io provavo ogni sera, e la rendeva forse ancora più crudele per la mia sensibilità perché, in quella forma olfattiva, la mia intelligenza non poteva più prendervi parte.
Quando dormiamo e non percepiamo ancora un mal di denti se non come una ragazza che tentiamo duecento volte di fila di salvare dall'acqua o come un verso di Molière che continuiamo a ripeterci senza sosta, è un vero sollievo svegliarci e liberare con l'intelligenza il mal di denti da ogni camuffamento eroico o cadenzato.
Era l'esatto rovescio di tale sollievo ciò che io provavo quando il dispiacere di salire in camera mia entrava dentro di me in un modo infinitamente più rapido, quasi istantaneo, insidioso e brusco al tempo stesso, attraverso l'inalazione - molto più tossica di un'infiltrazione morale dell'odore di vernice tipico di quella scala.
Una volta in camera, mi toccò bloccare tutte le uscite, chiudere le imposte, scavarmi da me la mia tomba sistemando le coperte, indossare il sudario della camicia da notte.
Ma prima di seppellirmi nel letto di ferro che avevano aggiunto nella camera perché d'estate avevo troppo caldo sotto le cortine di "reps" (32) del lettone, ebbi un moto di rivolta, volli tentare un espediente da condannato.
Scrissi a mia madre supplicandola di salire per una cosa grave che non potevo dirle per lettera.
Il mio terrore era che Franoise, la cuoca della zia, che era incaricata di occuparsi di me quando mi trovavo a Combray, si rifiutasse di consegnare il biglietto.
Supponevo che fare una commissione destinata a mia madre quando c'erano degli invitati dovesse sembrarle tanto impossibile quanto al portiere d'un teatro recapitare una lettera a un attore mentre questi è in scena.
Sulle cose che si possono o non si possono fare il codice al quale lei si atteneva era ferreo e circostanziato, sottile e intransigente riguardo a distinzioni oziose o inafferrabili (ciò che gli conferiva l'aspetto di quelle leggi antiche dove accanto a prescrizioni feroci, per esempio di massacrare i fanciulli al seno delle madri, si proibisce con delicatezza esagerata di far bollire il capretto nel latte materno o di mangiare il nervo della coscia di un determinato animale).
Era un codice che, a giudicare dall'improvvisa ostinazione con la quale lei si rifiutava di eseguire certe commissioni che le venivano affidate, aveva previsto, si sarebbe detto, complessità sociali e ricercatezze mondane che nulla, nell'ambiente di Franoise e nella sua vita di domestica di paese, poteva averle suggerito; e si era costretti a concludere che in lei era vivo un passato francese antichissimo, nobile e incompreso, come in certe città manifatturiere dove qualche vecchio palazzo testimonia la remota esistenza di una vita di corte e dove gli operai di una fabbrica di prodotti chimici lavorano in mezzo a fini sculture che rappresentano il miracolo di san Teofilo (33) o i quattro figli di Aimone. (34) Nel caso specifico, l'articolo del codice in base al quale era poco probabile che, salvo il caso di incendio, Franoise andasse a disturbare la mamma in presenza del signor Swann per un personaggio di scarso rilievo come me, non aveva altro contenuto che il rispetto da lei professato non solo per i genitori - così come per i morti, i preti e i re - ma anche per lo straniero al quale si sia data ospitalità, rispetto che mi avrebbe forse impressionato in un libro ma che in bocca a lei mi irritava sempre a causa del tono grave e commosso con il quale ne parlava, tanto più quella sera in cui il carattere sacro rivestito ai suoi occhi dal pranzo l'avrebbe spinta al rifiuto di turbare la cerimonia.
Ma per assicurarmi almeno qualche possibilità, non esitai a mentirle, dicendole che non ero assolutamente io a voler scrivere alla mamma ma era stata lei che, lasciandomi, mi aveva raccomandato di non dimenticare di farle avere una risposta a proposito di qualcosa che m'aveva pregato di cercarle; e si sarebbe certo molto arrabbiata se non le fosse stato consegnato il biglietto in questione.
Io penso che Franoise non mi abbia creduto, giacché, come gli uomini primitivi i cui sensi erano molto più acuti dei nostri, era capace di discernere immediatamente, da segni per noi impercettibili, qualsiasi verità le volessimo nascondere; per cinque minuti fissò la busta, come se l'esame della carta e l'aspetto della scrittura dovessero informarla circa la natura del contenuto o indicarle a quale articolo del suo codice far riferimento.
Poi se ne andò con un'aria rassegnata che sembrava significare: Che disgrazia, per dei genitori, avere un figlio così!.
Tornò dopo un istante a dirmi che erano solo al gelato, che il maggiordomo non poteva certo consegnare la lettera in quel momento davanti a tutti, ma che quando avessero portato i "rince-bouches" (35) avrebbe trovato il modo di farla arrivare alla mamma.
Subito la mia ansia cadde; adesso non era più fino a domani, come un attimo prima, che avevo lasciato mia madre, giacché il mio biglietto, non potendo non irritarla (e a maggior ragione in quanto quel maneggio rischiava di rendermi ridicolo agli occhi di Swann), mi avrebbe fatto entrare estasiato e invisibile nella sua stessa stanza, le avrebbe parlato di me all'orecchio; e quella sala da pranzo proibita, ostile, dove,
ancora un istante prima, lo stesso gelato - la "granita" -, gli stessi "rince-bouches" mi sembravano racchiudere voluttà malefiche e mortalmente malinconiche perché la mamma le assaporava lontano da me, mi si apriva simile a un frutto che, divenuto dolce, fa scoppiare il suo involucro, sul punto di sprizzare, di proiettare fino al mio cuore inebriato l'attenzione della mamma nel momento in cui avrebbe letto le mie parole. Adesso non ero più separato da lei; le barriere erano cadute, un filo delizioso ci univa.
E non era tutto: la mamma, certo, sarebbe venuta! L'angoscia che avevo appena finito di provare, pensavo che Swann se ne sarebbe senz'altro beffato se avesse letto la mia missiva e ne avesse indovinato lo scopo; e invece, come ho appreso in seguito, un'angoscia simile fu per lunghi anni il tormento della sua vita, e nessuno, forse, avrebbe potuto capirmi meglio di lui; a lui, quell'angoscia che si prova sentendo l'essere al quale si vuol bene in un luogo di piacere dove noi non siamo, dove non possiamo raggiungerlo, è l'amore che l'ha fatta conoscere, l'amore cui è in qualche modo predestinata, da cui sarà accaparrata, specializzata; ma quando, come nel mio caso, essa è entrata dentro di noi prima ancora che quello abbia fatto la sua apparizione nella nostra vita, allora, aspettandolo, fluttua libera e vaga, priva di una destinazione precisa, al servizio un giorno di un sentimento, l'indomani di un altro, ora della tenerezza filiale, ora dell'amicizia per un compagno.
E la gioia della quale io feci il primo apprendistato quando Franoise tornò a dirmi che la mia lettera sarebbe stata consegnata, Swann l'aveva conosciuta bene anche lui, quella gioia ingannevole che ci dà qualche amico, qualche parente della donna che amiamo quando, arrivando al palazzo o al teatro in cui lei si trova per qualche ballo o ricevimento o "première" dove l'incontrerà a momenti, ci vede, questo amico, che vaghiamo fuori, in disperata attesa di un'occasione qualsiasi di comunicare con lei.
Ci riconosce, ci abborda familiarmente, ci chiede che cosa facciamo in quel luogo.
E siccome inventiamo di avere qualcosa di urgente da dire alla sua parente o amica, lui ci assicura che non c'è niente di più semplice, ci fa entrare nel vestibolo e ci promette che ce la manderà entro cinque minuti.
Come l'amiamo - esattamente come io in quel momento amavo Franoise - quell'intermediario bene intenzionato che con una parola ci ha reso sopportabile, umana e quasi propizia la festa inimmaginabile, infernale, nelle cui spire credevamo che turbini ostili, perversi e deliziosi trascinassero lontano da noi, facendola ridere di noi, colei che amiamo! A giudicare da lui, dal parente che ci è venuto vicino e che è a sua volta un iniziato di quei crudeli misteri, gli altri invitati della festa non devono avere niente di così demoniaco.
Quelle ore inaccessibili e torturanti durante le quali lei avrebbe gustato piaceri sconosciuti, ecco che, per una breccia insperata, anche noi vi penetriamo; ecco che uno dei momenti la cui successione le avrebbe composte, un momento non meno reale degli altri, forse addirittura più importante per noi dal momento che la nostra diletta vi è più implicata, siamo in grado di rappresentarcelo, lo possediamo, vi interveniamo, l'abbiamo - quasi - creato: il momento in cui le diranno che noi siamo lì, lì giù.
E senza dubbio gli altri momenti della festa non dovevano essere di un'essenza così diversa da questo, non dovevano avere niente di più delizioso o tale da farci tanto soffrire, visto che il benevolo amico ci ha detto: Ma sarà felice di scendere! Le farà molto più piacere parlare con voi che annoiarsi lassù.
Ahimè, Swann ne aveva fatto esperienza, le buone intenzioni d'un terzo non hanno alcun potere su una donna che si irrita sentendosi inseguita anche a una festa da qualcuno che non ama.
Spesso, l'amico torna da solo.
Mia madre non venne, e senza riguardi per il mio amor proprio (impegnato a evitare la sconfessione della favola della ricerca di cui avevo preteso che lei mi avesse pregato di riferirle il risultato) mi fece dire da Franoise quelle parole: Non c'è risposta che così spesso, poi, ho sentito ripetere da portieri di grandi alberghi o da lacchè di case da gioco a qualche povera ragazza che si stupisce: Ma come, non ha detto niente, non è possibile! Eppure gliel'avete consegnata, la mia lettera.
Va bene, aspetterò ancora.
E - così come quella assicura invariabilmente di non aver bisogno della lampada supplementare che il portiere vuole accendere per lei, e se ne resta là, non sentendo più che le rare battute sul tempo che il portiere scambia con un fattorino al quale, accorgendosi a un tratto dell'ora, ordina di mettere in ghiaccio la bevanda di un cliente - io declinai l'offerta di Franoise di farmi una tisana o di restare accanto a me, la lasciai tornare nell'"office", mi misi a letto e chiusi gli occhi cercando di non sentire le voci dei miei parenti che prendevano il caffè in giardino.
Ma nel giro di pochi secondi capii che scrivendo quel biglietto alla mamma e arrivando, a rischio di farla arrabbiare, così vicino a lei che m'ero creduto ormai sul punto di rivederla, mi ero precluso la possibilità di addormentarmi senza averla rivista, e i battiti del mio cuore si facevano di minuto in minuto più dolorosi perché io stesso accrescevo la mia agitazione predicandomi una calma che equivaleva all'accettazione della mia sventura.
All'improvviso la mia ansia cadde, una felicità m'invase come quando un farmaco potente comincia ad agire e ci toglie un dolore: avevo preso la risoluzione di non cercare più di addormentarmi senza aver rivisto la mamma, di baciarla a qualsiasi costo - benché fossi certo che questo avrebbe significato sopportare a lungo le conseguenze della sua irritazione quando fosse salita a coricarsi.
La calma che risultava dalla fine delle mie angosce mi metteva in uno straordinario stato di allegrezza, non meno di quanto avviene per l'attesa, la sete e la paura del pericolo.
Aprii la finestra senza rumore e mi sedetti in fondo al letto; non facevo quasi nessun movimento perché da giù non mi sentissero.
Fuori, le cose sembravano anch'esse rapprese in una muta attenzione a non turbare il chiaro di luna, che raddoppiando e facendo indietreggiare ogni cosa per il fatto di stenderle davanti il suo riflesso, più denso e concreto della cosa stessa, aveva ad un tempo rimpicciolito e ingrandito il paesaggio come una mappa che, ripiegata fino a quel momento, venga distesa per intero.
Ciò che aveva bisogno di muoversi, il fogliame d'un castagno, si muoveva.
Ma il suo fremito minuzioso e totale, eseguito fin nelle minime sfumature e nelle più estreme delicatezze, non stingeva sul resto ne vi si fondeva, restava circoscritto.
Esposti al di sopra di questo silenzio che non ne assorbiva un'oncia, i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all'altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro "pianissimo", come certi motivi in sordina eseguiti dall'orchestra del Conservatorio così bene che l'ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l'impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati - comprese le sorelle della nonna se Swann aveva ceduto loro i suoi posti - tendevano l'orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise. (36) Sapevo che la situazione nella quale mi mettevo era fra tutte quella che poteva avere per me, da parte dei miei genitori, le conseguenze più gravi, molto più gravi di quanto un estraneo non potesse supporre, tali in verità ch'egli avrebbe creduto che solo qualche colpa davvero vergognosa fosse in grado di provocarle.
Ma nell'educazione che mi veniva impartita la gerarchia delle colpe non era la stessa che nell'educazione degli altri ragazzi, e davanti a tutte le altre (certamente perché non ce n'era alcuna dalla quale io avessi bisogno d'essere più attentamente preservato) ero stato abituato a collocare quelle di cui capisco ora che possedevano la caratteristica comune di essere commesse per cedimento a un impulso nervoso.
Ma allora questa espressione non veniva pronunciata, nessuno denunciava, di quelle colpe, un'origine che avrebbe potuto farmi credere di essere scusabile se vi cedevo o forse addirittura incapace di resistervi.
Io però le riconoscevo bene dall'angoscia che le precedeva non meno che dalla severità del castigo che le seguiva; e sapevo che quella di cui mi ero appena macchiato apparteneva, benché infinitamente più grave, alla stessa famiglia di altre per le quali ero stato punito con rigore.
Una volta che mi fossi fatto incontro a mia madre mentre saliva a coricarsi, e lei si fosse resa conto che ero rimasto alzato per dirle ancora buonanotte nel corridoio, non mi avrebbero più tenuto a casa, mi avrebbero messo in collegio sin dall'indomani, era sicuro.
Ebbene, avessi anche dovuto gettarmi dalla finestra cinque minuti dopo, preferivo agire così.
Quel che volevo, adesso, era la mamma, dirle buonanotte, ero andato troppo in là sulla via verso la realizzazione di questo desiderio per poter tornare indietro.
Sentii i passi dei miei parenti che accompagnavano Swann, e quando il sonaglio della porta mi avvertì che se n'era andato, mi affacciai alla finestra.
La mamma chiedeva a mio padre se l'aragosta gli era sembrata buona e se il signor Swann aveva preso dell'altro gelato di caffè e pistacchio.
A me è parso un po' banale, disse mia madre; credo che la prossima volta bisognerà provare un altro gusto. - Non saprei dire quanto Swann mi è parso cambiato, disse la prozia, ha un aspetto talmente vecchio! La prozia aveva una così radicata abitudine di vedere sempre in Swann il medesimo adolescente, che si meravigliava di trovarlo tutt'a un tratto meno giovane dell'età che continuava ad attribuirgli.
E tutti i miei parenti, del resto, cominciavano a vedere in lui la vecchiezza anormale, eccessiva, vergognosa e meritata degli scapoli, di tutti coloro per i quali si ha l'impressione che il gran giorno che non ha domani sia più lungo che per gli altri, perché il loro è vuoto e i momenti vi si sommano sin dal mattino senza poi dividersi tra un certo numero di figli. Credo che abbia molti dispiaceri con quel bel tipetto di sua moglie, tutta Combray sa che vive con un certo signor di Charlus.
E la favola della città.
Mia madre fece notare che da qualche tempo, tuttavia, lui aveva l'aria molto meno triste.
Fa anche molto meno spesso quel gesto, che ha sempre fatto come suo padre, di asciugarsi gli occhi e di passarsi la mano sulla fronte.
Io penso che in fondo non la ami più, quella donna.
- Ma naturale che non l'ama più, replicò mio nonno.
E già parecchio che ho ricevuto da lui una lettera su questo argomento, alla quale mi sono affrettato a non conformarmi, e che non lascia alcun dubbio circa i suoi sentimenti nei confronti della moglie, perlomeno per quanto riguarda l'amore.
Ecco, vedete?, non l'avete ringraziato per l'Asti soggiunse il nonno voltandosi verso le due cognate Come non l'abbiamo ringraziato? Credo anzi, sia detto fra noi, di essere riuscita a porgergli la cosa con una certa delicatezza obiettò zia Flora.
Sì, te la sei cavata molto bene: ti ho ammirata, disse zia Céline. - Ma anche tu sei stata bravissima. - Sì, ero piuttosto fiera della mia frase sui vicini gentili. - Come! è questo che chiamate ringraziare! proruppe il nonno.
Ho sentito anch'io, ma mi prenda un accidente se ho pensato che fosse per Swann.
Potete star certe che non ha capito niente. - Ma andiamo, Swann non è uno sciocco, sono sicura che ha apprezzato.
Non potevo mica dirgli il numero delle bottiglie e il prezzo del vino! Mio padre e mia madre rimasero soli, e si sedettero un istante; poi mio padre disse: Bene, se vuoi, possiamo salire a coricarci. - Se vuoi tu, amico mio, anche se io non ho nemmeno un'ombra di sonno; eppure non può essere stato quel gelato di caffè così innocuo a tenermi sveglia; ma vedo della luce nell'"office", e dal momento che la povera Franoise mi ha aspettata, le chiederò di slacciarmi il corpetto mentre tu ti spogli.
E mia madre aprì la porta traforata che dal vestibolo immetteva sulle scale.
Subito la sentii che saliva a chiudere la sua finestra.
Andai senza rumore nel corridoio; il cuore mi batteva così forte che facevo fatica a camminare, ma almeno non batteva più d'ansia, ma di spavento e di gioia.
Vidi nella tromba delle scale la luce proiettata dalla candela della mamma.
Poi la vidi, lei stessa, e mi slanciai.
In un primo momento lei mi guardò sbalordita, senza capire cosa fosse successo.
Poi il suo viso assunse un'espressione di collera, non diceva neppure una parola, e in effetti per molto meno di questo non mi veniva rivolto il discorso per parecchi giorni.
Se la mamma mi avesse detto qualcosa, sarebbe stato come ammettere che era possibile riparlare con me e d'altra parte la circostanza mi sarebbe forse sembrata ancora più terribile, il segno che di fronte alla gravità del castigo che si preparava il silenzio, il corruccio erano puerili.Una parola sarebbe stata la calma con la quale si risponde a un domestico una volta che si sia deciso di licenziarlo; il bacio che si dà a un figlio quando lo si spedisce ad arruolarsi, mentre non si esiterebbe a negarglielo se ci si dovesse accontentare di tenergli il broncio per due giorni.
Ma lei sentì mio padre che saliva dalla stanza da bagno dov'era andato a spogliarsi e, per evitare la scenata che lui mi avrebbe fatta, mi disse con voce soffocata dalla collera: Scappa, scappa, che almeno tuo padre non ti veda qui che aspetti come un folle!.
Ma io le ripetevo: Vieni a darmi la buonanotte, terrorizzato alla vista del riflesso della candela di mio padre che s'alzava ormai lungo la parete, ma sfruttando anche il suo avvicinarsi come strumento di ricatto e sperando che la mamma, per evitare che mio padre mi trovasse ancora lì se lei continuava a non cedere, mi dicesse: Torna in camera tua, vengo subito.
Troppo tardi, mio padre era davanti a noi.
Senza volerlo, mormorai queste parole che nessuno sentì: Sono perduto!.
Non fu così.
Mio padre mi rifiutava di continuo dei permessi che mi erano stati riconosciuti nei più larghi patti concessi da mia madre e da mia nonna, perché non si curava dei princìpi e non era questione, con lui, di "diritto delle genti".
Per una ragione affatto contingente, o addirittura senza ragione, mi sopprimeva all'ultimo momento una passeggiata così abituale, così consacrata che era impossibile privarmene senza spergiuro, oppure, come aveva fatto proprio quella sera, molto prima dell'ora rituale mi diceva: Coraggio, sali a coricarti, nessuna spiegazione!.
Ma allo stesso modo, poiché non aveva princìpi (nel senso della nonna), non aveva propriamente parlando - alcuna intransigenza.
Mi guardò un istante con
aria sorpresa e irritata, poi, quando la mamma gli ebbe spiegato l'accaduto con poche parole imbarazzate, le disse: Vai con lui dunque, visto che dicevi appunto di non aver voglia di dormire, rimani un po' in camera sua, io non ho bisogno di niente - Ma, amico mio, si oppose timidamente mia madre, che io abbia voglia o no di dormire non cambia niente, non si può abituare il ragazzo... - Ma non si tratta di abituare, disse mio padre scrollando le spalle, lo vedi bene che il piccolo soffre, ha un'aria disperata, povero ragazzo; insomma, non siamo mica dei carnefici! Quando sarai riuscita a farlo ammalare, bel progresso avrai fatto! Visto che in camera sua ci sono due letti, di' a Franoise di prepararti il letto grande e dormi accanto a lui, per stanotte.
Su, buonanotte, io che non sono nervoso come voi me ne vado a dormire.
Non si poteva ringraziare mio padre; lo si sarebbe soltanto infastidito con quelle "morboserie", come le chiamava lui.
Me ne stetti là senza azzardare un movimento; lui era ancora davanti a noi, alto, nella sua camicia da notte bianca sotto lo scialle indiano viola e rosa che da quando soffriva di nevralgie s'annodava intorno alla testa con il gesto di Abramo che, nella stampa da Benozzo Gozzoli regalatami da Swann, dice a Sara che deve separarsi da Isacco. (37) Sono passati parecchi anni da allora.
La parete delle scale lungo la quale vidi salire il riflesso della candela non esiste più da molto tempo. (38) Anche dentro di me tante cose sono andate distrutte che credevo dovessero durare per sempre, e altre nuove ne sono sorte facendo nascere nuove pene e gioie che quella sera non avrei potuto prevedere, così come quelle d'allora mi è ormai difficile capirle.
E da molto tempo a mio padre non è più possibile dire alla mamma: Vai col piccolo.
Quelle ore mi sono ormai inaccessibili.
Ma da un po' di tempo ho ricominciato a sentire molto bene, se mi concentro, i singhiozzi che ebbi la forza di trattenere davanti a mio padre e che scoppiarono quando, più tardi, mi ritrovai solo con la mamma.
In realtà, essi non sono mai cessati; ed è soltanto perché la vita si è fatta adesso più silenziosa intorno a me che li sento di nuovo, come quelle campane di conventi che il clamore della città copre tanto bene durante il giorno da far pensare che siano state messe a tacere e invece si rimettono a suonare nel silenzio della sera.
La mamma passò quella notte nella mia camera; proprio quando avevo commesso una colpa così grave da farmi credere che avrei dovuto andarmene via da casa, i miei genitori mi concedevano più di quanto avessi mai ottenuto da loro come ricompensa di una buona azione.
Persino nel momento in cui si estrinsecava in questa grazia, il comportamento di mio padre nei miei confronti conservava quel tanto di arbitrario e di immeritato che era la sua caratteristica e che si poteva riassumere nel fatto che a determinarlo erano piuttosto delle convenienze fortuite che non un piano premeditato.
Può anche darsi che quella che io chiamavo la sua severità, quando mi mandava a letto, meritasse tale definizione meno di quella di mia madre o di mia nonna, giacché la sua natura, per alcuni aspetti più divergente dalla mia di quanto non fosse la loro, probabilmente non aveva ancora intuito, fino a quel momento, la mia infelicità d'ogni sera, di cui mia madre e mia nonna erano invece ben consapevoli; ma loro due mi amavano tanto da non volermi risparmiare la sofferenza, da volermi insegnare a dominarla per attenuare la mia sensibilità nervosa e rafforzare la mia volontà.
Quanto a mio padre, che nutriva per me un altro genere d'affetto, non so se avrebbe avuto un simile coraggio: la prima volta che si era accorto che soffrivo, aveva detto a mia madre: Su, vai a consolarlo.
La mamma restò quella notte nella mia camera e, come se non volesse guastare con il minimo rimorso delle ore così diverse da quelle cui avrei potuto legittimamente aspirare, quando Franoise, resasi conto che succedeva qualcosa di straordinario vedendo la mamma che, seduta accanto a me, mi teneva la mano e mi lasciava piangere senza sgridarmi, le chiese: Ma signora, cos'ha il signorino da piangere tanto?, le rispose: Non lo sa neanche lui, Franoise, ha una crisi di nervi; preparatemi subito il letto grande e andate a dormire. Così, per la prima volta, la mia tristezza non era più considerata una mancanza da punire, ma un male involontario al quale era toccato un riconoscimento ufficiale, uno stato nervoso di cui io non ero responsabile; provavo il sollievo di non dover più mescolare degli scrupoli all'amarezza delle mie lacrime, potevo piangere senza peccato. (39) E non ero certo poco fiero, di fronte a Franoise, di questo rivolgimento del destino che, a distanza di un'ora da quando la mamma s'era rifiutata di salire in camera mia e mi aveva sdegnosamente fatto rispondere che dovevo dormire, mi innalzava alla dignità di persona adulta, facendomi raggiungere di colpo una sorta di pubertà della sofferenza, di emancipazione delle lacrime.
Avrei dovuto essere felice: non lo ero.
Mi sembrava che mia madre mi avesse fatto una prima concessione che doveva essere stata dolorosa, che si trattasse da parte sua di una prima abdicazione a quell'ideale che aveva immaginato per me, che per la prima volta lei, così coraggiosa, si confessasse vinta.
Mi sembrava di aver riportato sì una vittoria, ma contro di lei, di essere riuscito a piegare la sua volontà, a far cedere la sua ragione così come avrebbero potuto riuscirci la malattia, i dispiaceri o l'età, e che quella notte inaugurasse un'era e fosse destinata a restare come una data, ma una data triste.
Se ne avessi avuto il coraggio, adesso avrei voluto dirle: Non voglio, non dormire qui.
Ma conoscevo la saggezza pratica, realistica si direbbe oggi, che mitigava in lei la natura ardentemente idealista della nonna, e sapevo che, ora che il male era fatto, avrebbe preferito lasciarmene almeno gustare il pacificante piacere e non disturbare mio padre.
Certo, il bel viso di mia madre brillava ancora di giovinezza quella sera, mentre mi stringeva teneramente le mani e cercava di frenare le mie lacrime; ma mi sembrava, ecco, che fosse qualcosa che non avrebbe dovuto essere, e la sua collera sarebbe stata meno triste per me di quella dolcezza nuova che la mia infanzia non aveva mai conosciuta; mi sembrava di aver tracciato nella sua anima, con mano empia e segreta, una prima ruga, di averle fatto spuntare un primo capello bianco.
Questo pensiero fece raddoppiare i miei singhiozzi, e vidi allora che la mamma, che con me non si lasciava mai andare alla minima commozione, veniva di colpo conquistata dalla mia e si sforzava di trattenere una voglia di pianto.
Avvertì che me n'ero accorto, e ridendo mi disse: Guardatelo il mio stupidello, il mio uccellino, finirà col far diventare la mamma sciocca come lui se non la smettiamo tutt'e due. Su, visto che non hai sonno e la mamma neppure, invece di stare qui a struggerci, facciamo qualcosa, prendiamo uno dei tuoi libri.
Ma non ne avevo, in camera.
Non ci resterai male, dopo, se tiro fuori adesso i libri che la nonna deve regalarti per la tua festa? Pensaci bene: non sarai deluso, dopodomani, di non ricevere niente? Al contrario, ero felice, e la mamma andò a cercare un pacco di libri dei quali non mi fu possibile indovinare, attraverso la carta che li avvolgeva, che il formato basso e largo, ma che già sotto questo aspetto così sommario e velato eclissavano ai miei occhi la scatola di colori di capodanno e i bachi da seta dell'anno precedente.
Erano "La Mare au Diable", "Franois le Champi", "La Petite Fadette e "Les Matres Sonneurs".
La nonna, venni a saperlo in seguito, aveva scelto dapprima le poesie di Musset, un volume di Rousseau e "Indiana"; (40) infatti, così come giudicava le letture futili altrettanto malsane quanto le caramelle e i pasticcini, era convinta che i grandi soffi del genio non potessero avere sullo spirito, anche sullo spirito di un bambino, un influsso più pericoloso e meno vivificante di quello esercitato sul corpo dall'aria aperta e dal vento di mare. (41) Ma poiché mio padre l'aveva quasi trattata come una pazza quando aveva saputo che libri intendeva regalarmi, lei era tornata di persona dal libraio a Jouy-le-Vicomte perché io non rischiassi di restare senza regalo (era un giorno di caldo cocente e rientrando a casa aveva avuto un malore, tanto che il medico aveva avvertito mia madre di non lasciare che si stancasse a quel modo) e aveva ripiegato sui quattro romanzi campestri di George Sand. Figlia mia, diceva alla mamma, non potrei mai regalare al ragazzo qualcosa di mal scritto.
In realtà, non si sarebbe mai rassegnata a comprare qualcosa da cui non si potesse trarre un profitto intellettuale, in particolare quello che ci procurano le cose belle insegnandoci a cercare il nostro piacere lontano dalle soddisfazioni del benessere e della vanità.
Persino quando doveva fare a qualcuno un regalo cosiddetto utile, quando doveva regalare una poltrona, delle posate, un bastone, li cercava "vecchi", come se, cancellato ormai
dalla lunga desuetudine il loro carattere utilitario, apparissero disposti a raccontarci la vita di uomini d'altri tempi più che a soddisfare i bisogni della nostra.
Avrebbe voluto che io tenessi in camera mia le fotografie dei monumenti o dei paesaggi più belli.
Ma al momento di acquistarle, e benché l'oggetto rappresentato avesse un valore estetico, le sembrava che la volgarità, l'utilità riprendessero troppo presto il sopravvento nel modo meccanico della rappresentazione, la fotografia.
Cercava di giocare d'astuzia e, se non di eliminare del tutto la banalità commerciale, almeno di ridurla, sostituendola il più possibile con altra arte, inserendovi, per così dire, svariati "spessori" d'arte: invece delle fotografie della cattedrale di Chartres, dei giochi d'acqua di Saint-Cloud, del Vesuvio, si informava da Swann se qualche grande pittore li avesse effigiati, e preferiva regalarmi le fotografie della cattedrale di Chartres dipinta da Corot, dei giochi d'acqua di Saint-Cloud dipinti da Hubert Robert, del Vesuvio dipinto da Turner, il che rappresentava un grado d'arte in più. (42) Ma il fotografo, escluso dalla rappresentazione del capolavoro o della natura e sostituito con un grande artista, riacquistava i suoi diritti nel riprodurre quell'interpretazione.
Di fronte all'imminente scadenza della volgarità, la nonna tentava di rimandarla ancora.
Chiedeva a Swann se dell'opera non fosse stata fatta qualche incisione, preferendo, quand'era possibile, incisioni antiche e che presentassero qualche interesse supplementare, per esempio quelle che raffigurano un capolavoro in uno stato nel quale oggi non possiamo più vederlo (come la stampa della Cena di Leonardo eseguita da Morghen (43) prima della degradazione dell'affresco).
Bisogna dire che i risultati di questo modo di interpretare l'arte del regalo non furono sempre brillantissimi.
L'idea che mi feci di Venezia da un disegno di Tiziano che si suppone abbia per sfondo la laguna, era certamente molto meno esatta di quella che avrebbero potuto fornirmi delle semplici fotografie.
In casa, quando la prozia decideva di pronunciare una requisitoria contro la nonna, non si riusciva più a tenere il conto delle poltrone da lei offerte a giovani fidanzati o a vecchi sposi che, al primo tentativo di servirsene, erano istantaneamente crollate sotto il peso di uno dei destinatari.
Ma alla nonna sarebbe parso meschino occuparsi più di tanto della solidità di un mobile nel quale si distinguevano ancora un garbo, un sorriso, a volte una bella immaginazione del passato.
Anche ciò che in quei mobili, rispondendo a un determinato bisogno, aveva una foggia alla quale non siamo più abituati, l'affascinava, come quei vecchi modi di dire nei quali scorgiamo una metafora cancellata, nel nostro linguaggio moderno, dall'usura della consuetudine.
Ora, i romanzi campestri di George Sand che la nonna mi regalava per la mia festa erano appunto pieni, al pari di un antico mobilio, di espressioni cadute in disuso e ridiventate immagini, come non se ne trovano più che in campagna.
E la nonna li aveva comprati preferendoli ad altri così come avrebbe preso in affitto più volentieri una proprietà dove ci fosse stata una
piccionaia gotica o qualcun'altra di quelle vecchie cose che esercitano sullo spirito un benefico influsso regalandogli la nostalgia di impossibili viaggi nel tempo.
La mamma si sedette accanto al mio letto; aveva preso "Franois le Champi", (44) cui la copertina rossastra e il titolo incomprensibile conferivano ai miei occhi una personalità spiccata e un fascino misterioso.
Non avevo ancora letto nessun vero romanzo.
Avevo sentito dire che George Sand era l'archetipo del romanziere.
Questo mi disponeva, a priori, a immaginate in "Franois le Champi" qualcosa d'indefinibile e di delizioso.
I procedimenti narrativi destinati a eccitare la curiosità o la commozione, certi modi di dire che destano l'inquietudine e la malinconia, e che un lettore un po' istruito riconosce comuni a molti romanzi, mi apparivano semplicemente - a me che consideravo un libro nuovo non come qualcosa che ha molti omologhi, ma come una persona unica che ha in se stessa la sua sola ragione d'esistere - una sconvolgente emanazione dell'essenza propria di "Franois le Champi".
Sotto quegli eventi così quotidiani, quegli oggetti così comuni, quelle espressioni così correnti, io avvertivo come un'intonazione, un'accentazione strana.
L'azione prese avvio; e mi parve tanto più oscura in quanto allora, leggendo, io mi perdevo spesso, per pagine intere, dietro tutt'altro.
E alle lacune che questa distrazione apriva nel racconto si aggiungeva il fatto che la mamma, se era lei a leggermi ad alta voce, saltava tutte le scene d'amore.
(45) Così, tutti i bizzarri mutamenti che si producono nell'atteggiamento reciproco della mugnaia e del ragazzo, e che non trovano spiegazione se non nei progressi di un amore nascente, mi apparivano improntati a un profondo mistero la cui scaturigine io mi figuravo volentieri dovesse trovarsi in quel nome sconosciuto e così dolce, "Champi", che gettava, sul fanciullo che lo portava senza che io ne sapessi la ragione, il suo colore vivo, imporporato e incantevole.
Se mia madre era una lettrice infedele, era d'altra parte, per le opere nelle quali ritrovava l'accento d'un sentimento vero, una lettrice mirabile per il rispetto e la semplicità dell'interpretazione, per la bellezza e la dolcezza del suono.
Anche nella vita, quando erano creature e non opere d'arte a suscitare così la sua commozione o la sua ammirazione, faceva tenerezza vedere con quanto riguardo scartava dalla sua voce, dai suoi gesti, dalle sue parole quello scoppio d'allegria che avrebbe potuto ferire la madre alla quale tempo prima era morto un bambino, quell'accenno a una festa, a un anniversario, che avrebbe potuto indurre la persona anziana a riflettere sul peso dei propri anni, quel dettaglio di vita domestica che sarebbe riuscito molesto al giovane studioso. Analogamente, quando leggeva la prosa di George Sand, che respira sempre la bontà, la distinzione morale che la mamma aveva imparato dalla nonna a considerare superiori a
tutto nella vita, e che solo molto più tardi io le avrei insegnato a non considerare superiori a tutto anche nei libri, attenta a bandire dalla propria voce ogni leziosità, ogni
affettazione che avrebbe potuto impedirle di riceverne il flusso potente, infondeva a quelle frasi, che sembravano scritte per lei e che rientravano per così dire senza residui nel registro della sua sensibilità, tutta la tenerezza naturale, tutta l'ampia dolcezza con le quali esse reclamavano di essere pronunciate.
Per affrontarle nel tono giusto, ritrovava l'accento cordiale che ad esse preesiste e che le ha dettate, ma di cui le parole non danno alcuna indicazione; grazie a questo, smorzava di passaggio qualsiasi crudezza nei tempi dei verbi, dava all'imperfetto e al passato remoto la dolcezza che c'è nella bontà, la malinconia che c'è nella tenerezza, indirizzava la frase che finiva verso quella che stava per cominciare, ora accelerando, ora rallentando la marcia delle sillabe per inserirle, benché le loro quantità fossero diverse, in un ritmo uniforme, insufflava in quella prosa così comune una sorta di vita sentimentale e ininterrotta.
I miei rimorsi erano placati, mi lasciavo andare alla dolcezza di quella notte in cui avevo mia madre accanto a me.
Sapevo che una notte simile non si sarebbe mai ripetuta; che il desiderio più grande che io avessi al mondo, tenere mia madre con me, nella mia camera, durante le tristi ore notturne, contrastava troppo con le necessità della vita e con il volere di tutti perché l'esaudimento che gli era stato concesso quella sera potesse essere altro che eccezionale e artificioso.
Domani la mia angoscia sarebbe ricominciata e la mamma non sarebbe rimasta.
Ma quando le mie angosce si calmavano, io non le capivo più; e poi la sera del giorno dopo era ancora lontana; dicevo a me stesso che avrei avuto il tempo di trovare un rimedio, anche se quel breve tempo non mi avrebbe certo dotato di nuovi poteri, trattandosi oltretutto di cose che non dipendevano dalla mia volontà e che solo per l'intervallo che le separava ancora da me potevano apparirmi più evitabili.
E così, ogni volta che svegliandomi di notte mi ricordavo di Combray, per molto tempo non ne rividi che quella sorta di lembo luminoso ritagliato nel mezzo di tenebre indistinte, simile a quelli che l'accensione di un bengala o un fascio di luce elettrica rischiarano e isolano in un edificio che resta per le altre parti sprofondato nel buio: abbastanza largo alla base, il salottino, la sala da pranzo, l'imbocco del viale non illuminato dal quale sarebbe comparso il signor Swann, l'ignaro responsabile delle mie tristezze, il vestibolo nel quale mi sarei avviato verso il primo gradino della scala, che era così crudele salire e che costituiva da sola il tronco fortemente assottigliato di questa piramide irregolare; e, al vertice, la
mia camera da letto con annesso il piccolo corridoio dalla porta a vetri per l'ingresso della mamma; in breve, visto sempre alla stessa ora, isolato da tutto ciò che poteva esistere intorno, si stagliava, unica presenza nell'oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quelli che figurano in testa ai vecchi copioni teatrali per le rappresentazioni in provincia) al dramma della mia svestizione; come se Combray non fosse consistita che di due piani collegati fra loro da un'esile scala e come se non fossero mai state là, altro che le sette di sera.
Per dire la verità, a chi m'avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray comprendeva altre cose ancora ed esisteva anche in altre ore.
Ma poiché quello che avrei ricordato sarebbe affiorato soltanto dalla memoria volontaria, dalla memoria dell'intelligenza, e poiché le informazioni che questa fornisce sul passato
non ne trattengono nulla di reale, io non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray.
Per me, in effetti, era morto.
Morto per sempre? Poteva darsi.
Il caso ha gran parte in tutto ciò, e spesso un secondo caso, quello della nostra morte, non ci permette di aspettare troppo a lungo i favori del primo.
Trovo del tutto ragionevole la credenza celtica secondo la quale le anime di coloro che abbiamo perduti sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, un oggetto inanimato, perdute davvero per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all'albero o a entrare in possesso dell'oggetto che ne costituisce la prigione.
Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l'incantesimo si spezza.
Liberate da noi, hanno vinto la morte, e tornano a vivere con noi.
Così per il nostro passato.
E' uno sforzo vano cercare di evocarlo, inutili tutti i tentativi della nostra intelligenza.
Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale (nella sensazione che questo ci darebbe).
Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai.
Erano già parecchi anni che tutto quanto di Combray non costituiva il teatro e il dramma del mio andare a letto aveva smesso di esistere per me, quando, un giorno d'inverno, al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè.
Dapprima rifiutai poi, non so perché, cambiai idea.
Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano "petites madeleines" e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una "cappasanta". (46) E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè nel quale avevo lasciato che s'ammorbidisse un pezzetto di "madeleine".
Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me.
Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua causa.
Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell'amore, colmandomi di un'essenza preziosa: o meglio, quell'essenza non era dentro di me, io ero quell'essenza.
Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente, mortale.
Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura.
Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo nulla di più che nella prima, una terza che mi dà un po' meno della seconda.
E' tempo che mi fermi, la virtù del filtro sembra diminuire.
E' chiaro che la verità che cerco non è lì dentro, ma in me.
La bevanda l'ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, ma con sempre minor forza, la stessa testimonianza che io non riesco a interpretare e che vorrei almeno poterle chiedere di nuovo ritrovandola subito intatta, a mia disposizione, per un chiarimento decisivo.
Poso la tazza e mi volgo verso il mio spirito.
Trovare la verità è compito suo.
Ma in che modo? Grave incertezza, ogni volta che lo spirito si sente inferiore a se stesso; quando il cercatore fa tutt'uno con il paese ignoto dove la ricerca deve aver luogo e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla.
Cercare? Di più: creare.
Eccolo faccia a faccia con qualcosa che non esiste ancora e che lui solo può realizzare e far entrare, poi, nel raggio della sua luce.
Ricomincio a domandarmi che cosa poteva essere questa condizione ignota, che non adduceva alcuna prova logica, bensì l'evidenza della sua felicità, della sua realtà davanti alla quale le altre svanivano.
Cercherò di farla riapparire.
Retrocedo col pensiero al momento in cui ho sorbito il primo cucchiaino di tè.
Ritrovo lo stesso stato senza una chiarezza nuova.
Chiedo al mio spirito di fare un ulteriore sforzo, di richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge.
E perché niente possa spezzare lo slancio con il quale cercherà di riafferrarla, tolgo di mezzo ogni ostacolo, ogni idea estranea, metto al riparo le mie orecchie e la mia attenzione dai rumori della stanza accanto.
Ma quando m'accorgo che il mio spirito s'affatica senza successo, lo induco invece a prendersi quella distrazione che gli negavo, a pensare a qualcos'altro, a ritemprarsi prima di un tentativo supremo.
Per la seconda volta gli faccio il vuoto davanti, lo rimetto di fronte al sapore ancora recente di quella prima sorsata e dentro di me sento tremare qualcosa che si sposta, che vorrebbe venir su, come se fosse stato disancorato a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale lentamente; avverto la resistenza, percepisco il rumore delle distanze attraversate.
A palpitare così in fondo al mio essere sarà, certo, l'immagine, il ricordo visivo che, legato a quel sapore, si sforza di seguirlo fino a me.
Ma troppo lontano, troppo confusamente si dibatte; colgo a stento il riflesso neutro in cui si confonde l'inafferrabile vortice dei colori rimescolati; ma non arrivo a distinguere la forma, unico interprete al quale potrei chiedere di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, di spiegarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratta.
Giungerà mai alla superficie della mia coscienza lucida quel ricordo, quell'istante remoto che l'attrazione di un identico istante è venuta così da lontano a sollecitare, a scuotere, a sollevare nel mio io più profondo? Non lo so.
Adesso non sento più niente, si è fermato, forse è ridisceso; chi può dire se risalirà mai dalla sua notte? Dieci volte devo ricominciare, sporgermi verso di lui.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 12, 2016 ⏰

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