Fort Island, Qatar.
29 Luglio 1999
Intorno, solo sbarre di ferro e cemento armato. Una prigione a cielo aperto con mura alte quasi tre metri.
Najeeb e Qasim, iracheni, sui trent'anni, camminavano da oltre due ore sotto un sole che cuoceva a quarantacinque gradi centigradi. Facevano avanti e indietro lungo il perimetro. Né uomini, né rumori, né un anelito di vento ad accompagnare il loro incedere nella sabbia.
«In quante lingue lo dici?» chiese ironico Qasim.
Erano fradici di sudore, i vestiti gli stavano incollati addosso.
«Tante. Jag älskar dig» replicò ansimante Najeeb.
Il cartello che avevano incrociato poco prima diceva: un chilometro alla fine del lato.
Qasim parlò a fatica, «Ich liebe dich!»
«Te iubesc!» esclamò Najeeb.
I loro passi alzavano polvere, gli occhi erano stretti, le braccia sollevate sulla testa per farsi ombra.
Qasim lo incalzò: «Is breá liom tú».
«волим те!» ghignò l'altro.
«Je te aime » replicò Qasim d'un fiato.
Najeeb gli lanciò un'occhiata diffidente: «я тебе люблю».
«Ma dài, Jeeb, te lo sei inventato, che lingua è?».
«Ucraino».
«Tu non conosci l'ucraino» affermò Qasim.
Najeeb ridacchiò: «I aad u jecel yihiin.»
«Cazzo!» sussurrò Qasim.
«Stai bleffando» ansimò l'amico, «era italiano e non hai detto ti amo, hai detto–».
«Cazzo!», Qasim stavolta aveva urlato.
Alzarono gli occhi. All'orizzonte: un Beechcraft C-12J diretto verso di loro.
«Via, via, sta arrivando! Al riparo!»
Corsero sotto a una lastra di metallo che fungeva da panca, proprio in mezzo al perimetro sterrato. Ascoltarono il rombo del rotore del velivolo militare sorvolare l'area, virare, abbassarsi.
«Se sopravvivi» sussurrò Qasim, «devi trovare lei, lei è la chiave».
«Lo farò», replicò Najeeb, rannicchiato.
Un boato più forte seguì una raffica di colpi. Una mitragliata rimbalzò sulla superficie metallica, una seconda scarica li colpì.
***
La stanza era claustrofobica, due metri per tre, senza finestre. La lampadina penzolava appesa a un gancio illuminando di taglio Kaleb ed Ernesto. I due erano seduti sul pavimento, contro la parete, uno davanti all'altro.
«Molto rumore per nulla» disse Kaleb, un uomo alto quasi due metri, le spalle come la superficie di un armadio. Afgano.
Ernesto non rispose. Era un italiano di trent'anni addestrato per sparire, non per il corpo a corpo. Per questo era così asciutto, basso: era veloce, non forte. Ma in quel barattolo di cella la velocità serviva a poco.
«Molto rumore per nulla» ripeté Kaleb.
Ernesto concluse che avrebbe fatto meglio a rispondere, sebbene non avesse idea di cosa Kaleb stesse parlando.
«Io non sento nessun rumore. A parte noi che respiriamo.»
Il gigante si accigliò. «Non caveranno un ragno dal buco».
Forse riteneva di essersi spiegato ma Ernesto indirizzò lo sguardo su quei miseri trenta watt a forma di pera e non replicò. Meglio non mostrare debolezza, si disse, e meno che mai stupidità.
Kaleb si sporse verso di lui, «Tu non sei d'accordo?» domandò.
La sua stazza occupava gran parte dello spazio, troppo ingombrante per ignorarla.
«Non lo so, amico, può essere».
«Ma di dove sei? Il tuo inglese è terribile» ridacchiò Kaleb.
«Magari non ti piace il mio accento, ma io scapperò da questo inferno e tu no, uomo afgano.»
Chi se ne frega se lo avrebbe ammazzato, il suo destino era quello. Presto sarebbe finito con lui dentro all'arena, avrebbero camminato per ore e poi sarebbero stati crivellati da un caccia o roba simile, per cui chi se ne frega di far incazzare il gigante.
Ma il gigante non s'incazzò.
«Quei due iracheni, quelli di ieri, ho sentito dire che uno di loro ha un piano» spiegò Kaleb.
L'apertura improvvisa della porta generò un'eco stridula e permise a una figura sottile e armata di stagliarsi controluce lungo il pavimento.
«Tocca a voi!»
«Chi ce l'ha fatta?» domandò temerario Kaleb.
La figura rispose: «Qasim».
Kaleb si mise in piedi, una colonna d'Ercole nella tana del coniglio.
Disse: «Sono contento. L'altro mentiva, si capiva che mentiva», lanciò un'occhiata obliqua su Ernesto, «Io odio i bugiardi» finì.
Ernesto preferì non rimuginare sull'ultima affermazione dell'afgano.
«Muovetevi» ordinò la figura controluce.
***
Il volto di Eve era coperto da molle bagnate e corvine che le cadevano pesanti sulle spalle.
Avevano ficcato lei e l'altra donna sotto a una doccia perenne, tiepida, dentro a un quadrato due metri per due. I polsi legati dietro alla schiena. Vestite.
Si decise ad aprire gli occhi e li orientò sulla barriera d'acqua. La figura di Katia, l'italiana, appariva scontornata, al di là del muro di pioggia. Aveva i bicipiti di un peso medio che non ha mai perso un round.
«Sei giordana?» udì.
Eve si limitò ad annuire.
«Sei bona, ti faranno la festa, prima di ammazzarti.»
Eve la fulminò con lo sguardo: «Odio le feste».
Il sorrisetto le si spense lentamente.
Poi un rumore metallico. Le ultime gocce caddero come rintocchi, prima di piombare le due donne nel silenzio fradicio dell'attesa.
Una figura sottile si affacciò. Il fucile a tracolla, il volto coperto, disse: «Alzatevi in piedi. Tocca a voi».
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Island
AdventureUna fortezza nel deserto del Qatar. Una cellula terroristica adotta la strategia della tensione sequestrando civili ovunque nel mondo per carpire i loro segreti e generare una falla nel sistema capitalistico internazionale. Alcuni prigionieri però n...