Quando mi ero addormentata, il pensiero di chiudere le tende non mi aveva neanche sfiorato. Anche perché faticavo a rimanere in piedi, quindi era già tanto se avevo trovato il letto.
Quando mi svegliai, però, avrei preferito averlo fatto. Magari avrei potuto dormire un po' di più: ne avevo un disperato bisogno, come dopo ogni plenilunio del resto.
Mi girai in modo da dare le spalle alla finestra e mi tirai le coperte fin sopra la testa lasciandomi sfuggire un gemito scocciato.
Qualcosa non andava però. Lo sentivo, c'era qualcosa di diverso. Anzi, più di una cosa. La prima era che ero vestita come il giorno prima, esattamente gli stessi vestiti, con tanto di rametti che si erano incastrati nel cappuccio della felpa dopo la mia corsa nel bosco. La seconda era che quella coperta aveva un odore diverso dalla mia: sapeva di pulito, come se fosse stata appena lavata con uno di quei saponi che non hanno un profumo specifico, ma che associ sempre al bucato. E aveva anche un colore diverso: era blu, non rossa.
La abbassai lentamente studiandola con gli occhi socchiusi. No, non era decisamente la mia. E quello non era il mio letto... Mi voltai di scatto e tirai un sospiro di sollievo nel constatare che l'altra metà del materasso era vuota. Eppure c'era ancora qualcosa che non tornava.
"L'odore di Adam!", realizzai di colpo. Dopobarba, carta di vecchi libri... Sì, era indubbiamene il suo. E io lo avevo addosso. Certo, si sentiva a malapena, però...
Improvvisamente mi tornò in mente cosa era successo quella notte, e tutti i pezzi trovarono il loro posto: la mia confusione quando mi ero ritrovata davanti alla casa di Adam senza aver deciso prima di andarci, la sua espressione preoccupata, le sue insistenze continue, il mio corpo premuto contro il suo in più di un'occasione, le sue mani intrecciate alle mie, il suo respiro tiepido che mi sfiorava la pelle, le sue parole rassicuranti dette a bassa voce... Per un qualche strano motivo, più del novanta per cento dei miei ricordi comprendeva anche lui.
Mi sdraiai sulla schiena e sospirai. In che diavolo di guaio ero andata a cacciarmi? Il soffitto sopra di me era scuro, fatto di legno massiccio come la maggior parte della casa, e non molto interessante. Mi guardai le mani: sui palmi era rimasto un po' di sangue secco, ma i tagli che mi ero fatta erano spariti completamente. Beh, tu non macchierai il divano di mia madre, aveva detto Adam quando li aveva scoperti e aveva presto il controllo della situazione. Era durato poco, ma, in un certo senso, avevo ammirato la sua determinazione.
Morivo dalla voglia di farmi una doccia, bermi un caffè e rilassarmi un po', però sapevo di non poterlo fare, non finché fossi rimasta a casa sua. Valutai varie opzioni -senza troppo impegno a dirla tutta- finché non decisi di uscire a prendere una boccata d'aria e stabilire a quel punto cosa fare.
Mi tolsi di dosso la coperta -che avevo preso dall'armadio visto che non mi andava di infilarmi nel letto di qualcuno che non conoscevo-, la ripiegai e la rimisi al suo posto prima di uscire dalla stanza. Cercai di non fare rumore: magari Adam stava ancora dormendo e non stava certo a me svegliarlo dopo tutto quello che aveva fatto per aiutarmi. Contro la mia volontà, questo sì, ma l'aveva fatto comunque.
Scesi le scale che, ovviamente, scricchiolarono ad ogni mio passo, attraversai il salotto e uscii dalla porta principale, lasciandola socchiusa. Mi ritrovai su un piccolo portico di legno, come quelli dei film. Non potei fare a meno di pensare che vivere lì sarebbe stato un sogno.
Feci qualche passo avanti fino ad arrivare abbastanza vicino alla ringhiera da poterci appoggiare le mani. C'era un vento leggero che muoveva i rami degli alberi facendoli frusciare piano. Il sole era già alto nel cielo, che era limpido e pulito. Sembrava che tutto il caos della notte prima appartenesse ad un altro mondo. Trassi un respiro profondo per assaporare l'aria umida di rugiada e muschio. Quel posto era meraviglioso, così calmo e pacifico... E mi aiutava a distendere i nervi. Chiusi gli occhi lasciando che il sole mi scaldasse il viso.
«Papà! Papà! Guarda, una margherita!» Esclamo correndo da lui e tenendo il piccolo fiore come se fosse chissà quale tesoro.
Miles si volta verso di me sorridendo. «Brava Scout, è proprio bellissima.»
Mi fermo davanti a lui, gli occhi fissi sulla margherita, bianca e delicata, che tengo tra le dita. Papà si inginocchia davanti a me e mi infila una ciocca di capelli sfuggita alla coda dietro l'orecchio. I suoi occhi azzurri mi osservano da dietro le lenti sottili degli occhiali.
L'erba mi arriva alle ginocchia, verde e fresca, in alcuni punti anche bagnata dai residui del recente acquazzone.
«Scarlett, che hai trovato?» Chiede mia madre, seduta sulla coperta a quadretti.
Alzo lo sguardo e le sorrido prima di sollevare il fiore. «Una margherita!»
Lei ricambia il sorriso, che diventa più luminoso quando papà si siede vicino a lei e l'abbraccia. I capelli di mamma brillano al sole, e lei sembra così felice...
«Credevo te ne fossi andata.» Mormorò una voce che conoscevo forse anche troppo bene.
Mi voltai e Adam era davanti a me, pallido e con i capelli arruffati, anche lui vestito come il giorno prima: jeans e maglietta a maniche corte grigia. Sembrava esitante, come se non avesse saputo decidere quanti rischi comportava avvicinarsi di più a me.
Sospirai e tornai a guardare la foresta dandogli un implicito via libera. «In effetti, ho preso in considerazione l'idea di farlo.»
Mi raggiunse e si appoggiò alla ringhiera con gli avambracci. «Ma sei qui.»
«Già. Ho pensato che avevamo qualcosa di qui parlare.» Replicai.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Sono nei guai, eh?»
«Tanto per cambiare.» Borbottai aggrottando la fronte.
Lui strinse le labbra. Le ombre violacee che aveva sotto gli occhi spiccavano sulla sua pelle chiara, ma, per una qualche ingiustizia divina, aveva uno strano fascino anche così. "Da quando in qua Adam ha fascino?", pensai, sorpresa da me stessa.
«Di cosa dobbiamo parlare?» Chiese dopo qualche secondo di silenzio.
Mi passai una mano tra i capelli resistendo all'impulso di rispondergli con un acido commento sarcastico. «Di tante cose. Ma credo che prima sarebbe meglio mangiare qualcosa.»
«Beh, qui non c'è niente da mangiare.» Rispose lui stringendosi nelle spalle.
«Quindi tu non hai neanche cenato ieri?» Domandai voltandomi a guardarlo e sentendo la preoccupazione nella mia stessa voce.
Erano ore che non mangiava niente, e aveva passato tutta la notte di luna piena con me: rischiava di svenirmi davanti agli occhi da un momento all'altro.
Sembrò un po' sorpreso dalla mia reazione. «Uhm... no.»
Sospirai alzando gli occhi al cielo. «Va bene, vuol dire che adesso andiamo a mangiare. Tutti e due. E non provare neanche a dire di no, chiaro?»
Spalancò gli occhi e mi studiò per qualche secondo. «Okay. Dove vuoi andare?»
"Mi odierò tanto", mi dissi, "ma devo farlo". Raddrizzai la schiena e ricambiai l'occhiata. «A casa mia.»
Si ricordava ancora l'indirizzo per fortuna: non credevo di essere in grado di spiegarli come arrivare a casa mia senza strozzarmi con le mie stesse parole.
Grazie al cielo non aveva fatto domande, né aveva protestato. E non si era neanche messo a ridere, eventualità che avevo messo in conto appena avevo aperto bocca. In effetti, la sua unica reazione visibile era stata un'espressione incredula, subito sostituita da una più neutrale che mi aveva fatto venire voglia di urlargli in faccia per farmi dire cosa pensava veramente.
Mi abbandonai contro il sedile del lato passeggero e sospirai pesantemente: come riuscivo a cacciarmi in situazioni del genere rimaneva un mistero persino per me.
«Tua madre non c'è?» Chiese Adam dopo un po'.
Scossi la testa, quasi grata a quella distrazione. «No, è via per lavoro. Di nuovo.»
«Se posso chiederlo... Che lavoro fa? Sembra che sia via spesso.» Replicò lui lanciandomi un'occhiata di sottecchi.
«Fa l'hostess, per questo viaggia spesso. In più arrotonda facendo da interprete per gli imprenditori o gli uomini d'affari che volano con la compagnia per cui lavora. Sai, ha studiato lingue per molti anni quindi se la cava.» Spiegai.
Annuì piano, come se fosse stato sovrappensiero. «Mm-mm.» Fermò l'auto davanti a casa mia e spense il motore. Trasse un respiro profondo e si passò una mano tra i capelli. «Qualunque cosa tu debba dirmi... puoi farlo anche qui. Se non te la senti, intendo.»
Una parte di me trovò quelle attenzioni rassicuranti, quasi tenere, e fui tenta di dirgli che sì, portarlo in casa mia mi rendeva incredibilmente nervosa. Ma non potevo, anche perché altrimenti rischiava di avere un calo di zuccheri... Drizzai la schiena, sperando di mostrarmi risoluta. «No. È una cosa che devo... dobbiamo fare. E poi non voglio che tu svenga mentre guidi: se succedesse Beth non me lo perdonerebbe mai.»
Inarcò un sopracciglio. «Quindi mi stai invitando a casa tua per colazione solo per mantenerti buona la tua migliore amica? Beh, suona parecchio strano. A parte questo, solo perché ho saltato la cena ieri non vuol dire che avrò una qualche specie di crisi, okay? Stai esagerando un pochino.»
Alzai gli occhi al cielo e dovetti resistere all'impulso di dargli una gomitata nelle costole. «Andiamo. Sto morendo di fame.»
Non protestò, cosa che apprezzai. Si limitò a seguirmi fino all'ingresso, ad aspettare pazientemente mentre litigavo con la serratura e a lasciarmi entrare per prima.
Tossicchiai nervosamente, più per fingere di avere altro da fare che per vera necessità. «Non è un granché, lo so, ma è casa.»
Lui si guardava intorno in silenzio, in viso un'espressione neutra che non tradiva la benché minima emozione. Mi sembrava così fuori posto... Come se la sua presenza in casa mia fosse stata in qualche modo sbagliata. Beth tornò a farsi prepotentemente spazio tra i miei pensieri, ma la ricacciai indietro: su una cosa Adam aveva ragione, non potevo ricollegare tutto a lei, dovevo essere indipendente e fare le mie scelte. Anche quelle sbagliate che mettevano a rischio la mia intera vita e che comprendevano il suo ragazzo dannatamente insistente.
Quando tornai a concentrarmi su Adam, lo trovai che osservava le foto che mia mamma aveva infilato nella cornice dello specchio posizionato sopra il cassettone nell'ingresso. In quel momento avrei voluto sparire, sprofondare sottoterra e rimanerci per sempre: quelle dannatissime foto risalivano ad anni prima, e non si poteva dire che fossi presentabile all'epoca.
Ce n'era una in cui abbracciavo il collo di un pony dopo aver fatto la mia prima lezione di equitazione a sette anni; un'altra dove una piccola Scarlett di due anni sorrideva tutta contenta in braccio alla migliore amica di mia mamma, Miranda; in un'altra ancora si vedeva mia madre che mi teneva tra le braccia pochi giorni dopo la mia nascita, e sorrideva con una tale gioia che la faceva sembrare pronta ad affrontare il mondo.
Mio padre, Miles, non compariva in nessuna foto. Anzi, si poteva benissimo dire che di lui non c'era assolutamente nessuna traccia in tutta la casa. Meglio così, lui non meritava neanche un briciolo dell'attenzione di mamma.
Non ci stavo prestando veramente attenzione, ma mi irrigidii lo stesso quando vidi Adam sorridere mentre continuava a guardare le foto, probabilmente in attesa che io facessi qualcosa in più oltre che starmene lì a sperare di fondermi con il muro. La cosa che mi sorprese di più, però, fu la dolcezza che riuscii a cogliere in quel breve sorriso che sembrava essere inconsapevole. "Oh per la miseria, qui sì che si mette male", pensai innervosita.
Mi schiarii la gola facendolo voltare di scatto verso di me. Aveva un'espressione quasi colpevole in viso, come se l'avessi beccato a rubare o qualcosa del genere.
«Sto ancora morendo di fame, e questo vuol dire che voglio ancora mangiare. E la cucina non è qui.» Il mio tono acido sembrò strano persino a me.
Lui distolse lo sguardo, a disagio. «Uhm... Sì, andiamo...»
Feci un cenno d'assenso piuttosto rigido prima di voltarmi sperando che mi seguisse senza che dovessi dirglielo io. Lo condussi in cucina, una stanza piccola resa accogliente e luminosa dalla finestra che lasciava entrare la luce del sole per la maggior parte del giorno.
«Siediti pure.» Aggiunsi mentre mi allungavo per prendere due tazze dalla credenza.
In condizioni normali mi sarei accontentata di quella con la renna e il pinguino, ma c'era lui e quindi non era una grande idea. Alla fine presi le due più sobrie, ovvero quelle a tinta unita: una azzurra e una verde.
Sentii il rumore di una sedia che veniva spostata, segno che si era seduto. Accesi la macchinetta del caffè per poi voltarmi verso di lui: sembrava un bambino che aspetta la sfuriata della mamma arrabbiata per un brutto voto o per una finestra rotta.
Teneva le mani in grembo, la testa china, lo sguardo basso, le spalle curve... Dovetti mordermi la lingua per non dirgli di rilassarsi e stare tranquillo.
Gli misi davanti il solito piatto con i biscotti al cioccolato che costituivano la mia colazione da anni. Lui li osservò, sorpreso, ma non fece nient'altro. Aspettai qualche secondo, poi scrollai le spalle e ne presi uno: il modo di dire "avere una fame da lupi" non è nato per caso.
Preparai il caffè e lo versai nelle tazze prima di porgergliene una. La prese mormorando un grazie e per un attimo le nostre dita si sfiorarono. Cercai di non farci caso: in fondo era solo un contatto innocente.
Posai sul tavolo il barattolo dello zucchero e un paio di cucchiai e mi sedetti di fronte a lui, che sembrava ancora un po' nervoso. E questo mi stupiva un po': la notte prima non si era fatto problemi a imporsi e a tenermi testa; adesso sembrava un cucciolo impaurito.
«Guarda che non ti mangio mica.» Borbottai inzuppando un biscotto nel mio caffè. «Sarò anche per buona parte lupo, ma preferisco i dolci.»
Sollevò lo sguardo su di me, sorpreso. «Uh, sì. Cioè, lo so.»
«Allora smetti di fissare il tavolo.» Sbottai.
Si morse il labbro e prese la tazza con entrambe le mani. «È complicato, Scar.»
«Scar?» Ripetei spalancando gli occhi.
Si lasciò sfuggire una smorfia. «Niente, dimenticalo. Comunque, che dovevi dirmi?»
Quel cambio di argomento così repentino non mi convinceva, e quella specie di nomignolo mi sembrava ancora più strano, ma non mi andava di approfondire. «Quello che hai visto l'altra notte... cioè, ieri notte... stanotte... Insomma, hai capito. Quello che intendevo è che hai visto l'apoteosi del licantropo, okay? La parte più pericolosa del nostro essere. E non era una cosa che volevo farti conoscere.»
I suoi occhi blu erano fissi su di me: sembrava che una tempesta stesse infuriando in quelle iridi tanto particolari. «L'avevo intuito, sì. Quindi... che intendi fare?»
Diedi un morso ad un altro biscotto prima di rispondere. «Il mio primo istinto sarebbe quello di strozzarti e ricoprirti di insulti visto che ti sei messo in pericolo con le tue stesse mani e hai approfittato della mia mancanza di controllo.» Sollevai una mano, intuendo che stava per ribattere. «Ma non lo farò. O meglio, non ti strozzerò, però niente mi vieta di insultarti.»
Scosse la testa e mi sembrò di vedere un accenno di sorriso sulle sue labbra. «Beh, è una buona notizia. Credo. Volevi dirmi solo questo?»
«No. Volevo anche farti giurare che non proverai mai e poi mai a rifare una cosa del genere.» Ribattei prima di prendere un sorso di caffè.
«Allora temo che tu abbia solo sprecato fiato.» Mormorò lui abbassando lo sguardo.
Ci mancò tanto così che soffocassi e mi rovesciassi addosso il caffè. «Eh?!»
«Andiamo, credi sul serio che adesso io possa dimenticare? Già prima era impossibile, ora è semplicemente improponibile.» Tornò a guardarmi negli occhi. «Non lo farò, sappilo.»
Tossii e posai la tazza sul tavolo un tantino troppo forte. «Ascoltami bene: questa cosa non ti riguarda. Proprio per niente. E solo perché ti sei ritrovato in mezzo ieri notte non vuol dire che adesso hai l'autorizzazione a prendere parte alla mia vita. Questa situazione è già complicata di suo, ci manca solo che tu ci metta del tuo.»
«Allora dovevi pensarci prima di venire da me, sai?» Replicò sfidandomi apertamente.
Una sensazione di calore che conoscevo fin troppo bene cominciò a farsi strada nel mio petto: rabbia. «Non sono venuta da te! Mi ci sono ritrovata. Stavo già perdendo il controllo e non ero molto lucida, è solo per questo. In condizioni normali non sarebbe mai successo.»
«Già, dev'essere stata proprio una coincidenza.» Il suo tono trasudava sarcasmo. «Che ti piaccia o no, questa cosa coinvolge tutti e due.»
Per un attimo trovai il tempo di considerare il termine "questa cosa" incredibilmente diminutivo e quasi buffo: quelle due parole avevano il compito di racchiudere la mia licantropia, la sua testardaggine e anche tutte le cose che aveva visto e saputo e che sarebbe stato meglio mantenere segrete.
«No, non mi piace per niente il fatto che tu sia coinvolto. E sì, che tu ci creda o meno è stata una coincidenza.» Ringhiai. «E come credi di essere coinvolto, scusa? Solo perché mi hai visto perdere il controllo non vuol dire che tu adesso...»
«Perché mi importa di te, dannazione!» Sbottò e fu come se il blu dei suoi occhi si infiammasse.
Mi bloccai, incapace di formare una pensiero coerente. Aprii la bocca con l'intenzione di dire qualcosa, ma l'unica cosa che uscì fu un mugolio strozzato: che diavolo stava succedendo? Gli importava di me? Ma che senso aveva?
«Cosa?» Riuscii a chiedere dopo diversi minuti di silenzio passati a reggere il suo sguardo diventato improvvisamente duro.
«Scordati che lo ripeta.» Borbottò. «E poi, hai capito.»
Mi presi la testa tra le mani rischiando di infilare un gomito nel caffè. «Ma non doveva andare così...»
«E come doveva andare allora? Tu schioccavi le dita e io magicamente mi dimenticavo di te?» Domandò lui, la rabbia che traspariva benissimo dalla sua voce. «Non funziona così.»
Non trovai niente da dire e qualcosa mi diceva che non c'era nulla che potessi dire che avrebbe funzionato sul serio: aveva ragione su tutti i fronti, ero io quella che aveva sbagliato permettendogli di conoscermi fino a quel punto. Mi ero illusa di avere tutto sotto controllo, di sapergli tenere testa, invece era stato un disastro fin dall'inizio. Ed era cominciato tutto per colpa mia visto che ero stata io ad andare da lui per parlargli credendo che bastasse rispondere ad un paio di domande per porre fine alla questione.
Gli lanciai un'occhiata di sottecchi: aveva la mascella contratta, le spalle rigide, lo sguardo fisso su qualcosa alla sua destra. Non aveva neanche toccato il caffè e questo un pochino mi preoccupava: era passato fin troppo tempo da quando aveva mangiato l'ultima volta.
Mi schiarii la gola per cercare di dare alla mia voce un tono accettabile che non facesse trasparire il tumulto di emozioni nel mio petto. «Dovresti... ecco, dovresti mangiare qualcosina...»
«Non cambiare discorso.» Ringhiò senza neanche girarsi a guardarmi.
Sospirai passandomi una mano tra i capelli. «Non sto cambiando discorso, okay? Sono sinceramente preoccupata per te. Sono ore che non mangi.»
«Ora capisci cosa intendo? Anch'io mi preoccupo per te.» Trasse un respiro profondo e mi sembrò che un po' della sua tensione si sciogliesse. «Non possiamo farcene una colpa, non ha senso. Capita che le persone tengano ad altre persone anche se non dovrebbero, anche se sanno che ci sono molte probabilità di farsi male.»
Giocherellai con un biscotto mentre assimilavo le sue parole, tanto vere quanto pericolose. E portatrici di guai. «Adesso che succede? Voglio dire...»
«C'è Elisabeth nel mezzo, sì, lo so. Quindi non succede niente. Puoi stare tranquilla.» Si alzò stando attendo ad evitare di incrociare il mio sguardo. «Ci vediamo la prossima settimana per le ripetizioni.»
"Cosa?!", pensai confusa e allarmata, "se ne va?". Feci per dire qualcosa, ma non riuscivo a trovare le parole. E prima che potessi anche solo provare a fermarlo, lui se n'era già andato.
Sentii la porta dell'ingresso chiudersi con un tonfo carico di rabbia repressa e frustrazione. Mi ritrovai da sola, disorientata, sgomenta e con un caffè a metà e uno completamente intatto.
Non ero mai stata un'amante della solitudine anche se mi illudevo del contrario visto che per la maggior parte del tempo ero sola. Non ne facevo una colpa a nessuno, non ne avevo il diritto, ma c'erano delle situazioni in cui mi avrebbe fatto molto piacere avere un po' di compagnia. Qualunque compagnia. In quel momento anche Cindy la Finta Bionda mi sarebbe andata bene: le sue infinite tiritere su vestiti e tacchi sarebbero state una piacevole distrazione da quel casino che era la mia vita.
«Uh, mi sembro un'adolescente depressa.» Borbottai coprendomi gli occhi con le mani.
Ed era tutta colpa... mia. Avrei voluto poter dire che era stato Adam a rendere tutto complicato, ma sapevo benissimo che ero stata io a combinare un guaio dietro l'altro. Certo, lui non aveva contribuito a facilitarmi le cose. Anzi, tutto il contrario, però sapevo che era comunque partito tutto da me.
Mi girai sulla pancia e affondai il viso nel cuscino del mio letto con un gemito frustrato. Com'era possibile che una sola persona riuscisse a mettersi contro chiunque solo aprendo bocca? Mi illudevo pure di avere le migliori intenzioni del mondo quando, alla fine, tutto quello che volevo era starmene nascosta nell'ombra, al sicuro dai cambiamenti e dalle altre persone.
Il mio cellulare scelse proprio quel momento per mettersi a squillare insistentemente. Imprecai mentalmente mentre allungavo un braccio alla cieca per prenderlo. Sbattei contro il comodino, che ricevette un paio di insulti contro sua madre -casomai ne avesse una-, prima di riuscire a prendere il telefono.
Premetti il tasto verde e me lo portai all'orecchio. «Pronto?»
Mi ricordai solo dopo aver parlato che il cuscino attutiva la mia voce.
«Scarlett!» La voce squillante di Beth mi fece quasi venire il mal di testa. «Sei raffreddata per caso? Ti sento strana.»
"Ma no, ho solo litigato con il tuo ragazzo e adesso ci sto peggio di quanto non dovrei", pensai lasciandomi sfuggire una smorfia. A quel punto, anche un'influenza sarebbe stata gradita: almeno avrei avuto un motivo per stare male che non mi avrebbe messo nei guai con la mia migliore amica. Peccato che le miracolose doti di guarigione fornite dalla licantropia mi impedissero di ammalarmi.
Mi girai sulla schiena prima di rispondere: «No, no, sto bene.» Mi schiarii la gola. «Allora, come mai mi hai chiamata?»
«Ho bisogno di un vestito nuovo.» Dichiarò con lo stesso tono con cui si annunciano cose importanti.
«Un altro? Ma se hai l'armadio pieno!» Esclamai.
«Questa volta è diverso, ho bisogno di qualcosa di spettacolare e anche un po' sexy.» Insistette lei.
«Vuoi chiedere ai tuoi di comprarti un'auto?» Tentai infilandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«No, quella me l'hanno promessa per il diciottesimo. Voglio stupire Adam.» Replicò tutta contenta.
«Oh... Beh, forte. Ma perché? Pensavo che tra voi fosse tutto okay. O no?» Domandai sperando che non intuisse quanto mi mettesse a disagio.
«Ecco, in realtà non proprio. Voglio dire, è come se ci fossimo un po' allontanati, lui è più freddo con me e anche io lo sono. Non so di preciso perché, ma so che voglio far tornare le cose come prima.» Spiegò. «Ci tengo sul serio a lui.»
Perché mi importa di te, dannazione! Trasalii silenziosamente quando quelle parole mi tornarono alla mente. «Oh, ehm, immagino. E ti serve una consulenza in fatto di shopping?»
«Sarebbe molto gradita, sì. Allora, ci stai?» Chiese.
Sembrava così speranzosa, così ben intenzionata... Come potevo dirle di no e spezzarle il cuore? Ma, nello stesso tempo, come potevo mentirle riguardo il suo ragazzo proprio mentre lei cercava di rimettere in sesto la sua relazione con lui?
«Sì, certo, che domande. Solo... mi serve un'ora per fare una doccia, okay?» Risposi maledicendomi mentalmente.
«Naturalmente. Ci vediamo tra un'ora al solito posto.» Ribatté. «E grazie, sul serio. Sei l'amica migliore che potessi desiderare.»
Chiusi gli occhi sperando di riuscire a non far tremare la voce. «Figurati. Per te questo ed altro.»
Riattaccai prima di poter compromettere tutto e appoggiai di nuovo il telefono sul comodino. Mi sentivo malissimo, come se fossi stata una spia che fa il doppio gioco tra due paesi e non sa a chi essere leale.
Ero divisa tra la mia migliore amica, l'unica persona al mondo che riusciva a portare un po' di normalità nella mia vita, e il suo ragazzo, tanto insistente quanto magnetico che sembrava nato per complicarmi l'esistenza. Mi sentivo una traditrice, una della peggior specie.SPAZIO AUTRICE: Ciao :3
Comincio col dire che non sono per niente soddisfatta di questo capitolo -che novità, eh?- e non so neanche perché, forse perché mi sembra vuoto. In questo periodo, infatti, non sono più contenta di ciò che scrivo e sono più autocritica del solito. Ma vaabbé, speriamo passi presto.
Che ne pensate del confronto tra Adam e Scarlett? Sono, finalmente direi, stati sinceri l'uno con l'altra e questo ha scatenato in Scarlett molti sensi di colpa.
Come pensate che andrà tra Adam e Beth? La loro storia continuerà o si lasceranno? Vi anticipo che nel prossimo capitolo saprete cosa ha deciso di fare Michael. A proposito, mi fa tantissimo piacere sapere che vi siete affezionati a lui *-*
Volevo anche ringraziarvi perché continuate a seguire la storia, siete meravigliosi!
A presto,
TimeFlies
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Under a Paper Moon (Completa)
Manusia SerigalaScarlett, diciassette anni appena compiuti e un segreto piuttosto scomodo da nascondere, non potrebbe essere più felice di stare nella sua adorata ombra, lontana da sguardi indiscreti e da problemi presenti e passati che non vuole affrontare Adam, r...