Cado.
Precipito da molto, forse minuti, ore, giorni: ho perso la cognizione del tempo.
Ormai ho smesso di cercare, invano, degli appigli a cui potermi aggrappare: attorno a me pare esserci solo uno scuro, nero, vuoto. Sforzo la mente, ma non ricordo come sono caduto. Non ricordo nulla. Solo un nome è fisso ed impresso nella mia memoria, sin da quando mi sono trovato in questo buio, sin da quando sono consapevole di esistere, di precipitare. Un nome semplice, quasi banale, ma che non so associare a nessun volto: "Lisa Brown".
È l'unica cosa che fa mantenere il controllo, in questo momento: sapere che forse ho un passato, e che ne possiedo un frammento.
Mi continuo a guardare intorno. Già da tempo i miei occhi si sarebbero dovuti abituare all'oscurità, ma non vedo altro che buio, nero. Sono circondato dal nulla. Non sento suoni né voci, mi trovo immerso nel silenzio più totale.
Costringo il mio cervello a fare mente locale:
Sto precipitando nel vuoto.
Non so chi sono.
Riesco a percepire il mio respiro affannato, le mie mani scontrarsi con altre parti del corpo.
Sono un uomo, un ragazzo forse.
Lisa Brown. Un semplice nome che ho in testa, forse l'unico pezzo rimasto della mia vita.
Non ricordo nulla di quello che mi è successo prima di precipitare.
Non so quando e se atterrerò.
Non so verso quale luogo, cosa o chi sto cadendo e perché.
Beh, fantastico. Ottimi risultati. Direi che so molto di più di quanto mi aspettassi.
Continuo a precipitare.
Questo silenzio mi sta facendo impazzire. La sola voce che sento è quella dei miei pensieri: non un solo fruscio.
Buio, buio, buio. Quando finirà questa caduta nel vuoto?***
Sento freddo.
Mi accorgo all'improvviso che indosso dei vestiti: riconosco al tatto una felpa morbida e dei ruvidi jeans. Continuo però a sentire un brivido traditore lungo la schiena, e le mie mani si fanno gelate.
La temperatura si è drasticamente abbassata. Ancora vuoto, nero, buio.
Di colpo le mie dita sfiorano qualcosa di liscio e ghiacciato. Una parete?
Abbasso lo guardo verso quella che credo sia la direzione in cui sto precipitando, e vedo ancora vuoto. Non mi arrendo, e continuo a tenere gli occhi aperti. Nero, nero, nero e nero, in tutte le sue cupe ed uguali sfumature.
Sento le dita congelare, non percepisco più le articolazioni dei polpacci e dei piedi. Un formicolio attraversa le gambe: il freddo le ha velocemente indolenzite.
Poi, una luce.
Un bagliore minuscolo, tenue, che sembra soffocare, in tutto quel buio. Man mano che precipito, mi avvicino alla lucciola amica. Pensavo che sarebbe stata presto inghiottita dall'oscurità, ma questa diventa invece sempre più grande, quasi ad inglobare il vuoto, tutto il buio che mi circonda.
Una vampata ustionante di calore si diffonde intorno al mio corpo, quasi ad avvolgerlo nel suo eccessivo tepore. Improvvisamente provo paura: quella minuscola luce amica, familiare ed apparentemente innoqua, che ho notato solo poco fa, si sta trasformando sotto i miei occhi in una gigantesca sfera di fuoco.
Mi sembra di accellerare la velocità di caduta, e in una manciata di secondi sprofondo in quell'enorme ed accecante bagliore.
Urlo per il calore che questo sprigiona, urlo, forte come non avevo mai fatto, e le mie orecchie si circondano di questo grido di terrore.***
Mi alzo di scatto e mi ritrovo in un letto, con le gambe ancora immerse dentro il piumone, morbido ed accogliente.
Mi guardo intorno. Disordine, vestiti sparsi per terra, libri e poster.
La finestra è stranamente spalancata, fuori tira un vento gelido: dovrei aver avuto freddo stanotte, ma mi accorgo di essere sudato ed accaldato. Scotto come se avessi la febbre.
Mi tocco il viso e, al contatto con la guancia, le dita quasi si ustionano.
Abbasso lo sguardo e noto di essermi addormentato con ancora i vestiti del giorno prima: riconosco infatti la mia felpa e i miei jeans consumati.
Cerco di non pensarci e, invece, mi costringo di nuovo a fare mente locale:
Matteo. Mi chiamo Matteo.
Ho fatto un incubo molto, molto strano, che sembrava essere reale: precipitavo nel vuoto. Sentivo freddo, poi mi scottavo e... no, oltre a questo non mi torna in mente molto.
Piano piano, ricordi familiari riaffiorano: sono in terzo liceo. Oggi è il mio primo giorno di scuola.
L'orologio sul comodino segna le 8:02. Sono in ritardo.
-"Sono in ritardo!" Realizzo all'improvviso. Scosto velocemente le coperte dalle gambe, infilo le ciabatte e, con gli occhi stanchi ma spalancati, strascico i piedi sul parquet e mi dirigo in salotto, per fare colazione. È buio, ma riesco a vedere quello che ho davanti agli occhi grazie alle prime luci dell'alba, che si intravedono dalla finestra semiaperta. Il solito: latte al cioccolato e un po' di biscotti. Mescolo silenziosamente, facendo tintinnare il cucchiaino sul bordo della tazza.
Mia madre, sporgendo la testa dalla porta della cucina, mi guarda con aria preoccupata.
-"Tutto bene, Matti?" È così che mi chiama, fin da bambino. Soprattutto quando mi vede triste, preoccupato o stanco.
-"Si, mi sono soltanto agitato nel sonno." Dico, cercando di sembrare più convincente possibile.
-"Sicuro?" Missione fallita. I suoi occhi color nocciola mi fissano, colmi di apprensione.
-"Certo."
Silenzio. Lascio cadere un biscotto nel latte, producendo grandi onde marrone scuro in quel mare di cioccolato che è la mia tazza.
Sorseggio la bevanda calda e sgranocchio l'ultimo biscotto alle mandorle, che si sbriciola velocemente nella mia bocca.
Poi mi alzo, do un bacio alla mamma, corro a vestirmi con maglietta e pantaloni puliti ed infilo lo zaino. Pazienza, i denti me li laveró più tardi.
Apro la porta della stanza per cercare il cellulare, ma a sbarrarmi la strada c'è la mia piccola sorellina, Ginevra, ancora in pigiama.
-"Mattiii, quando torni a casa?" I suoi grandi occhi blu mi fissano con insistenza.
Io e lei siamo gli unici in famiglia ad avere lo stesso colore di occhi di nostro padre. Un padre eroe, un padre da ammirare, un padre che ha vinto molte medaglie per il suo sacrificio, medaglie che lui non vedrà mai. Un padre invisibile, che io non ho mai conosciuto.
Da tempo ormai ho smesso di credere al paradiso, non mi fido più delle frasi che, dopo la morte di mio padre, ognuno degli amici, parenti e conoscenti, mi propinava: "Lui veglia su di te", o anche: "Ora è felice, lassù in cielo". Fin da bambino ho imparato a non riporre le mie speranze in queste parole, e sono diventato grande troppo in fretta.
Ho poche certezze su mio padre, ed una di queste è che tutto quello che mi rimane di lui sono due pozze blu, piantate nella mia faccia e in quella di mia sorella.
-"Ginny, non sono nemmeno uscito" Sorrido e le scompiglio delicatamente i capelli castani, uguali a quelli della mamma.
-"Ufffff, allora ciaociao" Sbuffa, soffiando via dalla sua fronte un ciuffo bimbantello della sua capigliatura riccia e scompigliata.
-"Ciao, ciao"
-"Ginevra! Lascia andare a scuola Matteo, è già in ritardo!" Una voce proveniente dall'altra stanza rimbomba nelle mie orecchie.
-"Va bene, mammi"
-"Ciao Ginny, ciao mamma, a stasera!"
Chiudo la porta alle mie spalle e mi
accorgo di aver dimenticato il cellulare.
"Beh, pazienza" Penso, mentre cammino a passo svelto verso la scuola.

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Linee parallele
FantasyCado. Precipito da molto, forse minuti, ore, giorni: ho perso la cognizione del tempo. (...) Buio, buio, buio. Quando finirà questa caduta nel vuoto?