Amo, ma non posso

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Non mi hanno mai dato un nome, ma io ho deciso di chiamarmi Arete (in greco significa "virtù"), perché io sono umana, nonostante mi trattino come una bestia, io esisto come individuo che, dopotutto, pensa, soffre (molto), ama, ha paura, ma mantiene la dignità, l'unico elemento che mi ha permesso di rimanere in piedi, di non scappare dalla vita, di non arrendermi.

La mia vita è sempre stata difficile, ho conosciuto la gioia e la spensieratezza in prima liceo, mentre gli anni dell' infanzia sono rimasti coperti da una costante sofferenza, dalla paura, da un disperato desiderio di ribellione e di integrazione e non ho mai potuto fare tutte quelle cose che rendono dolce e indimenticabile l'infanzia di ogni bambino: giocare a palla, fare merenda insieme, ridere, stare con i genitori; perché tutto questo? A essere sincera non lo so ancora bene neanche io, ho solo 15 anni e il mio passato e le mie origini sono ancora incognite che mi perseguitano costantemente: so solo, grazie alla persona che mi è sempre stata amica in questi anni e che lo è ancora adesso, che i miei genitori sono stati rapiti in circostanze dubbie e, per ovvie ragioni, non avendo nessun altro parente, sono stata inviata in un orfanatrofio (sono nata nel XXXI secolo, probibìlmente verso il 3020), dove sono rimasta per circa sei o sette mesi della mia vita disgraziata, poi un uomo è venuto ad adottarmi. A quel tempo ero troppo piccola per capire, altrimenti mi sarei rifiutata di andare con lui, ancora oggi il momento in cui egli mi ha preso tra le braccia mi appare decisamente confuso, così come i mesi passati in quello squallido orfanatrofio, purtroppo i ricordi dell'infanzia passata in quella casa, il terrore e la sofferenza di quegli anni è ancora piuttosto nitida e ancora oggi, nel pieno di una disgraziata adolescenza, mi ossessionano e mi perseguitano.

Procediamo con ordine, però, perché siccome voglio scrivere una sorta di autobiografia della mia vita, deve essere tutto chiaro e quindi partiamo dal concetto che ho compreso, o meglio, sono stata costretta a comprendere, fin da subito: "non hai diritti, non ti è concesso di frequentare una scuola, non puoi avere un'istruzione, non puoi amare, né tanto meno avere contatti con l'altro sesso (maschile o femminile che sia, a seconda dei casi), non ti è concesso nulla, devi sottostare alle regole che ti vengono date, se le violerai sarai punita, se ti ribellerai sarai punita, se verrai picchiata non dovrai ribellarti e ti impegnerai sempre e comunque a servire la famiglia che ti ha portato via dall'orfanatrofio e che ti sta offrendo un futuro", non ho mai considerato neanche una delle parole di questa regola veritiera e mi sono spesso impegnata a non rispettarlo: talvolta con successo, altre volte (ogni giorno, direi) sono stata punita e l'ultima volta ho visto la morte.

I primi anni passati in questa casa, che poi si è rivelata una prigione, sono stati, se non lieti, almeno non tristi: ero piccola, molto piccola, non conoscevo il mondo e ovviamente non ero ancora in grado di lavorare, perciò fui affidata a una giovane ragazza, doveva avere al massimo 20 anni, che si prese cura di me con impacciata dolcezza, furono gli anni migliori della mia giovane quanto travagliata vita.

Così passarono sei o sette anni della mia vita: crebbi felice e spensierata, capivo che ci fosse qualcosa di strano nella casa dove vivevo, perchè c'erano tante persone che sembravano (ed era proprio così) non avere alcun tipo di legame, inoltre c'era quell'uomo, dall'aria maliziosa che pensavo essere mio padre, nonostante non si fosse mai preso cura di me, nè si fosse mai interessato a me.

Quando compii 6 o 7 anni capii finalmente che la mia vita non sarebbe stata come quella degli altri, avrei avuto molte difficoltà a inserirmi nella società e avrei dovuto sudare per conquistarmi un posto nel mondo, anche perchè nessuno me ne avrebbe mai dato l'occasione in quella casa. Fu a quell'età che conobbi Luca, il quale, avendo all'incirca 60 anni divenne come un nonno dolce e severo che mi aiutò molto a crescere e a sopravvivere in quella casa: egli aveva sempre vissuto lì, aveva conosciuto la solitudine e la depressione e sapeva cosa significasse passare gli anni della propria infanzia chiusi in una casa costretti a lavorare, fu per questo che decise di aiutarmi a frequentare clandestinamente la scuola, dalle elementari; fortunatamente, siccome molti nel passato si eran o suicidati costretti a condurre una misera esistenza sempre chiusi in quella casa, era stato deciso di concedere ai nuovi arrivati dei permessi mattutini con l'accompagnamento di uno dei "veterani", perciò io fui affidata a Luca che mi creò un'idendità segreta (in quella casa io non devo esistere come individuo: ero solo un numero, 6801, per la precisione) dandomi il nome di "Giulia" e mandandomi nella scuola "Giacomo Matteotti".

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