Capitolo 37

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Interi pomeriggi e sere passati a studiare. Notti insonni, occhiaie che mi avevano scavato la parte del viso sottostante agli occhi; sguardo assente, irritabilità, non avere la voglia di interagire con il mondo esterno. Labbra screpolate, trucco colato per le crisi improvvise di pianto. Le mie giornate di studio si svolgevano in questo modo: ero capace di rimanere ore e ore incollata ai libri senza sosta, ripetendo le stesse parole per interminabili minuti in modo da farle assorbire da quel cervello spossato che avevo, in mano una penna, sul tavolo un block notes scarabocchiato con schemi, collegamenti e mappe concettuali di ogni tipo, riguardanti ogni argomento.
Tre, quattro ore di fila, spesso con una sola, piccola, misera pausa dopo di esse; poi tornavo a studiare di nuovo, a volte solo fino alle 23.30, altre anche fino all'una. Non mi ero mai spinta oltre quell'ora, soprattutto per il fatto che smettevo di studiare quasi unicamente per sfinimento, quando sentivo letteralmente la testa esplodermi, quando a forza di rimanere incollata alla sedia mi assaliva un dolore insopportabile alla schiena e alle gambe per via del brutto vizio che avevo di sedermi sulle sedie piegata in ginocchio.
Ormai studiavo per inerzia.
Tutti mi dicevano che ero impazzita a sfruttare questa strategia, ma io ero decisa a difendere la mia causa: ero decisa a prendere il massimo dei voti - o quasi -, e nessuno mi avrebbe mai fermata.
Durante la settimana uscivo raramente, avevo quasi smesso di farlo.
Era ormai da settimane o forse mesi che non vedevo Aurora. Non ero certa di quanto tempo esattamente fosse trascorso; non mi ero mai interessata a contarlo.
I miei rapporti con lei si erano visibilmente incrinati: ci evitavamo a vicenda, non per odio o per cattiveria. Avevamo paura di avvicinarci l'una all'altra, e se ci incrociavamo per sbaglio raramente ci salutavamo, e raramente se una delle due osava fare il primo passo non era detto che il saluto sarebbe stato ricambiato.
Tutto era rovinosamente degenerato, io non c'ero più per lei e lei non c'era più per me. Non ci trovavamo più a casa mia per parlare delle ultime cose accadute, non veniva più da me per risollevarmi il morale, per ridere e scherzare assieme. Non ci incrociavamo più fuori da casa per andare a scuola assieme, non andavamo più a fare colazione da Starbucks o a fare shopping a Times Square. Non avrei più potuto pattinare sul ghiaccio con lei, spingerla a terra e farla scivolare su di esso per poi scoppiare a ridere come due dannate, anche perché un inverno a New York non l'avrei mai più passato.
Sarei tornata a casa a settembre e tutto sarebbe finito. Seppur fossimo entrambe italiane i rapporti si sarebbero definitivamente recisi e tutto sarebbe inesorabilmente tornato come prima.
Avevamo entrambe costruito una facciata del muro che ci divideva. Lo avevamo entrambe decorato di nero filo spinato per far sì che nessuna delle due riuscisse a scavalcarlo. E che se ci avessimo in qualche modo provato, ci saremmo fatte molto male. Ci saremmo ferite in profondità, fino a sanguinare.
La relazione tra me e Tristan andava avanti perché era così che doveva andare. Andava avanti per inerzia, perché io cercavo di mantenerla a tutti costi con la speranza che anche lui aprisse gli occhi davanti a questo amore cieco.
Non capivo se la mia fosse dedizione o paura verso i suoi confronti; forse ero solo una ragazza debole che cercava qualsiasi sostegno per andare avanti.
Avevo maturato l'idea che stesse con me semplicemente perché gli faceva comodo. Ero diventata il suo antistress personale per ogni volta che aveva la giornata storta o che voleva sfogarsi.
Io? Io non reagivo. Lasciavo correre, zitta, convinta che sarebbe tutto andato bene, un giorno.
Fortunatamente però l'unica arma con cui continuamente mi feriva erano le parole. Non aveva mai più osato sfiorarmi.
Ma d'altronde la violenza psicologica può essere persino peggiore a volte di quella fisica.

Il tempo di pace che mi avanzava preferivo sfruttarlo dormendo, che ne avevo davvero bisogno; avevo smesso di mangiare a cena o nel break pomeridiano, ma nonostante ciò per sfogarmi mi abbuffavo durante i miei brevi break sui peggiori alimenti esistenti. Non capivo se fossi dimagrita o ingrassata, fatto sta che durante quel periodo la mia vita aveva preso una piega maniacale verso lo studio irrefrenabile.
Non capivo quale fosse la driving force che mi spingeva a continuare a tenere la testa incollata al libro. Forse il motivo giaceva nel fatto che ero stata abituata sin da piccola ad essere ambiziosa, a voler ottenere risultati significativi nei campi in cui mi applicavo.
Ero terribilmente insaziabile e impossibile da soddisfare; i buoni risultati che ottenevo non mi alleggerivano l'animo, non mi tranquillizzavano. Al contrario, mi facevano sentire profondamente insoddisfatta di me stessa e, affidandomi sempre alla logica che avrei potuto ottenere ancora di più, cercavo di ottenere ancora di più.
Cercavo, ma invano.

Teal and Orange (sospeso) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora