Io non entravo. Non volevo entrare in quella stanzetta fredda, e sapevo perfettamente il perchè.
Sapevo che se avessi visto da vicino i bei lineamenti del suo viso ora bianchi, gelidi e scavati e se avessi sentito quello stupido 'bip' ripetitivo della macchina per rilevare la frequenza cardiaca, non avrei retto.
Restavo a guardarlo da fuori, da dietro un vetro, fermo, non mi muovevo. Nemmeno lui si muoveva. Restavo lì giorno e notte, davanti a quel vetro. Apatico, non sentivo niente. Avevo spento tutte le emozioni, non mi sentivo più nemmeno il cuore battere nel petto. Avrei voluto si spegnesse anche quello.-
Due settimane prima lo avevo chiamato. Era notte, credo fossero più o meno le tre e lui dormiva. Io ero in sala prove, non avevo sonno e mi sentivo solo. Era un'altra di quelle notti in cui non dormivo e restavo a provare finchè non collassavo, stanco morto, ma quella notte non la volevo passare con me e me stesso. Che ironia, eh? Cercando la compagnia ho trovato la più assoluta solitudine.
Composi velocemente il suo numero di cellulare e lo chiamai, sdraiandomi sul pavimento di parquet e portandomi il telefono all'orecchio. La sua voce scazzata rispose dopo qualche attimo.
"Ho sonno, sto dormendo, richiamate più tar-"
Lo interruppi, sorridendo. "Hyung! Sono Jongin!"
Sentii sorridere anche lui. "Jongin, cosa ci fai in piedi a quest'ora? E perché mi hai chiamato? Abitiamo nella stessa casa...". La sua voce si riaddolcì.
"Si lo so, ma sono in sala prove, sai, non avevo sonno..." feci una piccola pausa e chiusi gli occhi; "ti volevo solo chiedere se potevi raggiungermi, mi sento un po' solo.."
Mi parve di sentirlo alzarsi di scatto dal letto e correre per la stanza. "Arrivo, ti amo."
Chiuse la chiamata prima che potessi rispondergli.
Questo rappresentava perfettamente il motivo per cui lo amassi, e per cui, segretamente, lo amo tutt'ora, il fatto che lui c'era sempre per me e per gli altri, avresti potuto chiamarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte e lui ti avrebbe sempre dedicato un po' del suo tempo, non importava per cosa, non importava cosa stesse facendo. Sinceramente, non mi sarei aspettato che venisse davvero, e nemmeno che si svegliasse. Era sempre impegnatissimo e non dormiva quasi mai, quello era uno dei pochi giorni liberi che avevamo e lui voleva spenderlo, come mi aveva detto ridendo un paio di giorni prima, dormendo.
E credo sia stato proprio il sonno a portarmelo via.Mi appoggiai il cellulare sul petto e distesi le braccia lungo i fianchi restando sdraiato per terra. I muscoli mi facevano male, bruciavano, e non osavo alzarmi dal pavimento. Anche se stavo male lui mi rallegrava sempre, con la sua voce chiara, il suo forte accento della Cina del sud da dove veniva, la sua fossetta, la sua risata contagiosa che esplodeva all'improvviso. Sorrisi pensando a lui e mi sentii sereno.
Credo che quello fu l'ultimo attimo che passai con un sorriso sulle labbra.
Mentre io lo pensavo e sorridevo, infatti, lui prendeva l'auto, usciva dal garage e accelerava più che poteva per le strade di Seoul. Bastarono quei pochi isolati che dividevano il dormitorio e la sala prove.
Correva sempre di più nel buio della notte e nel sonno che gli annebbiava la vista, il pensiero di vedermi non bastò a tenerlo sveglio. Gli si chiusero gli occhi, un attimo fatale.Dopo due ore che non avevo sue notizie mi allarmai seriamente. Il dormitorio non era lontano, non poteva impiegarci due ore per arrivare, neanche guidando ad una velocità media di tre chilometri orari. Iniziai a pensare a tutto e pensai pure a quello. Corsi fuori e presi l'auto, volevo tornare a casa per controllare se fosse lì. Mentre guidavo, notai alcune persone scendere in strada e correre spaventate tutte in una direzione. Le seguii, rallentando ed abbassando il finestrino. La piccola folla mi portò a girare e ad imboccare un'altra strada. Quello che vidi mi fece gelare il sangue e perdere i battiti.
Un'ambulanza, un camion dei pompieri, una vettura della polizia, un'auto praticamente accartocciata contro un muro.
La sua auto.
-Ce lo avevo davanti, con un'aria tuttavia serena, calma come al solito mentre più infermiere e medici correvano e si raggruppavano attorno a lui. I 'bip' erano aumentati di colpo, poi si erano fermati. Erano diventati un unico, lungo, 'bip'.
Ed io ero lì che lo guardavo, impotente. Non ero capace di fare nulla, mi sentivo stupido, inutile. E lo ero, ero stupido e inutile.
La gran corsa dei medici si fermò di colpo davanti ai miei occhi. Un'infermiera uscì e mi disse qualcosa. Non la sentii.
Lo guardavo. Lo guardavo mentre la vita gli scivolava via dalle mani, e con la sua anche la mia.
Non piansi. Né urlai. Menchemeno sbattei porte o presi a calci cose. Non dovevo prendermela con niente e nessuno, tranne che con me. Dopotutto di chi era la colpa, se non mia?
Restai fermo, ancora dietro a quel vetro, anche i giorni successivi. Tornavo sempre lì, ormai nessuno mi chiedeva più nulla. Tornavo lì e fissavo la stanza ormai vuota. Pulita. Esitante di essere riempita da altro dolore.
Stavo lì. Restavo, sperando ogni giorno, prima di prendere l'ascensore e salire al terzo piano, che quando sarei arrivato davanti a quel vetro, lui fosse ancora lì. Dove mi aveva lasciato. Dove ci eravamo lasciati. Ma ogni giorno, dopo aver preso l'ascensore ed essere salito al terzo piano, scoprivo sempre una stanza vuota.Una settimana e mezzo dopo, presi l'ascensore e salii al terzo piano. C'era qualcuno nella stanza, e c'era qualcuno al vetro. Mi avvicinai a lui. "Amalo.", gli dissi.
Almeno quanto ho fatto io, pensai.