Run and don't look back.

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Il primo giorno di scuola è quasi sempre il peggiore.
Nuovi compagni, nuove classi, nuovi insegnanti, nuove regole, tutto sembra diverso e familiare allo stesso tempo.
Charlotte aveva imparato a generalizzare e ad esaminare i casi specifici, come il suo professore di filosofia le aveva insegnato al primo anno. Dai casi specifici bisogna cogliere il generale, e dal generale bisogna saper riconoscere un caso specifico.
Per questo tutto nella sua nuova scuola le sembrava nuovo, diverso, ma anche non del tutto una novità. Era passata attraverso diversi licei, e ormai non si lasciava più stupire troppo da ciò che le sembrava differente rispetto al precedente.
Era arrivata al suo ultimo anno, e negli ultimi quattro aveva cambiato scuola almeno sette volte, per colpa del lavoro di suo padre, che viaggiava continuamente.
Nel suo nuovo liceo, c'era uno scuolabus che faceva un percorso dall'abitazione più lontana alla scuola, cosicché tutti arrivassero in tempo.
Nella sua nuova classe, quella di greco, materia che non aveva mai fatto se non per i primi anni, c'era una strana disposizione dei banchi.
Nella sua nuova palestra, c'erano diverse aree che erano dedicate a quasi tutti gli sport.
Nel suo nuovo laboratorio di chimica, i tavoli erano fatti per occupare gruppi di sei persone.
Erano novità banali, cui lei si sarebbe abituata così in fretta da non farci quasi caso, anche se, all'inizio, l'avevano lasciata un po' smarrita.
«Ti verrà affidato un tutor perché tu riesca a metterti in pari con le lezioni» le disse l'insegnante di lingua, che le stava facendo fare il tour della scuola, e che Charlotte stava ascoltando distrattamente. «Questa è la classe della tua prima lezione, matematica.» Le aprì la porta di un'aula e le fece cenno di entrare, mentre la professoressa di matematica aveva interrotto la sua spiegazione.
Charlotte fece un timido sorriso, ma fu subito congedata dalla donna, che sembrava molto impaziente di continuare la lezione.
Andò a sedersi all'unico posto libero, all'ultimo banco accanto alla finestra, dove era già seduto un ragazzo che stava guardando distrattamente fuori.
Non aveva tirato fuori alcun libro, non aveva neanche un foglio o una penna per prendere appunti davanti a sé. Se ne stava semplicemente lì, con il mento posato sulla mano e lo sguardo perso verso un punto indefinito del giardino, mentre sembrava sforzarsi di guardare ancora più lontano, come se potesse raggiungere un posto a lui caro solo perdendosi con i pensieri fuori dalla scuola.
Charlotte cercò più volte di richiamare la sua attenzione, dandogli qualche gomitata e sussurrandogli qualche parola, ma sembrava impossibile fargli distogliere la mente da chissà che ricordo, immagine o sogno stesse cercando di afferrare. Tutte le sue forze erano dedicate solo a quel qualcosa fuori dalla finestra, fuori dal presente.
Anche quando l'insegnante lo chiamò per chiedergli di ripetere la spiegazione, lui non si mosse, non un solo muscolo del suo viso guizzò, niente in lui sembrava accennare che avesse sentito, o capito che qualcuno stava parlando con lui.
La professoressa sospirò e proseguì, senza prestare più di tanta attenzione al ragazzo.
Ma Charlotte, anche quando la lezione finì, non poté fare a meno di continuare a pensare a quel ragazzo, alla sua espressione distratta dalla realtà, ma attenta a chissà che altro. Tutto in lui risvegliava la sua curiosità, la attirava a cercare di capire cosa lo facesse sembrare così distaccato, così distante, lontano, irraggiungibile.
Girava per i corridoi con quella stessa aria fra le nuvole, senza guardare dove andava, dove metteva i piedi, contro chi andava a sbattere per colpa della sua distrazione.
Charlotte non l'aveva mai sentito scusarsi o rispondere ai richiami degli altri ragazzi o degli insegnanti.
Quando, al ritorno a casa, prendevano tutti lo scuolabus, lui si sedeva in fondo, poggiando la fronte contro il finestrino e guardando le case che scorrevano davanti ai suoi occhi, anche se, Charlotte ne era certa, lui non le stava veramente guardando. Teneva solo lo sguardo posato lì, senza una reale attenzione indirizzata verso ciò che passava per il suo campo visivo. Chissà quali immagini si muovevano, invece, davanti a lui, quali immagini lui vedesse.
Alla settima fermata, scendeva, con le mani in tasca, aspettava pazientemente di poter attraversare e, una volta raggiunto il marciapiede, iniziava a correre verso casa. Correva e non si fermava neanche dopo aver aperto il portone ed esserselo chiuso alle spalle.
Ridevano di lui, tutti. Tranne Charlotte. Non capiva cosa ci fosse di divertente in un ragazzo che corre. Ma, a quanto pareva, per gli altri era davvero molto divertente, forse troppo.
Per settimane, lo osservò correre e guardare fuori dalla finestra, e continuò a sedersi sempre al suo fianco, sperando di riuscire a strappargli una parola.

Erano passati almeno tre mesi da quando quel nuovo liceo non era più tanto nuovo per Charlotte, e sedersi accanto al suo inespressivo e distratto compagno era diventata un'abitudine. Non aveva più cercato di parlargli, la curiosità che aveva inizialmente provato verso di lui stava svanendo, o era svanita del tutto, lei non avrebbe saputo dirlo.
Quando entrò in classe, lo trovò seduto al banco, come ogni mattina. Arrivava prima di tutti e si sedeva a fissare fuori, ancora senza un apparente motivo.
Prese posto accanto a lui e poté giurare di aver visto i suoi occhi guizzare verso di lei per un istante, prima di concentrarsi ancora fuori.
Charlotte tirò fuori i suoi libri ed iniziò a ripassare, lanciando ogni tanto un'occhiata al ragazzo.
«Subisce bullismo» disse lui tutto ad un tratto. Aveva la voce roca, come se non parlasse da tanto. «Subisce bullismo da quando ne ho memoria.»
La ragazza aggrottò la fronte e scosse la testa, confusa. Non sapeva se era più sorpresa dal fatto che lui le avesse parlato o più confusa dalle sue parole. «Cosa?» domandò, sperando che non decidesse all'improvviso di non parlarle più.
Il ragazzo sospirò. «Mia sorella» continuò. «Subisce bullismo. La picchiano, le rubano i soldi, una volta l'hanno violentata.» I suoi occhi si fecero lucidi, ma neanche quando una lacrima gli cadde sulla guancia lui osò chiuderli o spostare lo sguardo dal giardino.
«M-mi dispiace» balbettò Charlotte, senza sapere cosa dire. «Se posso fare qualcosa...»
Lui rise amaramente, mentre piangeva, ma quella risata triste fu interrotta da un singhiozzo. «Non c'è niente che si può fare» replicò. «Ho già provato di tutto. Per questo corro. Ogni volta che scendo dal bus. So che ridete. Ma l'unica cosa che posso fare, ormai, è correre.»
«Io non capisco» mormorò lei. «Cosa vuoi dire?» Ma lui non aggiunse altro.

«Cory, torneresti gentilmente tra noi?» domandò il professore di chimica guardando il ragazzo accanto a Charlotte che, invece di creare composti e cercare di far scoppiare qualcosa come qualunque altro studente nel laboratorio, se ne stava a guardare fuori, con le braccia lungo i fianchi, in piedi accanto alla finestra. Il camice troppo lungo per lui gli avrebbe dato un'aria buffa, ma Charlotte non faceva che trovarlo estremamente deprimente. Sembrava così trasandato, così smarrito e perso...
Ovviamente, lui non rispose né accennò a cambiare la sua posizione.
Da quel che Charlotte aveva sentito, Cory non aveva mai risposto ad un solo insegnante, e tutti continuavano a chiedersi come facesse ad essere promosso ogni anno, senza un reale apparente motivo.
«Ehi, Cory» bisbigliò Charlotte, cercando di non farsi sentire dal professore. «So che probabilmente non mi risponderai, o che magari non ti va proprio di parlare, forse ti sto persino antipatica, ma non è questo il punto. Voglio solo che tu sappia che non ho mai riso. Mai. E mai lo farò.»
Cory rimase impassibile, ma la ragazza ebbe l'impressione che qualcosa in lui fosse cambiato, che il suo viso avesse avuto un tremito, che lui l'avesse ascoltata.
Suonò la campanella, e mentre gli studenti iniziavano a togliere i camici e a prendere le cose per andare via, Cory si voltò lentamente verso Charlotte e le strinse una mano attorno al polso, fissando un punto sopra la sua testa.
«Non voglio che muoia» disse, a bassa voce. «Io... sto facendo il possibile perché non muoia.»
Charlotte abbozzò un sorriso. «Perché dovrebbe morire?» replicò, piuttosto allegra, cercando di buttare la situazione sulla risata.
«Ci ha già provato» continuò Cory, senza ascoltarla. Annuì un paio di volte, poi singhiozzò, piano. «Tre volte. Dal tetto, con le pillole, e con quella... quella lama...» Il ragazzo tremò. «Non voglio che muoia» ripeté. «Tu sei tanto intelligente, lo so. Tu sai tutto, lo so. Tu hai sempre una soluzione ai problemi, lo so. Ma per questo? Una soluzione per questo ce l'hai?» Strinse la presa attorno al polso della ragazza, come se avesse avuto paura avrebbe potuto scappargli.
Charlotte gli asciugò una lacrima con il pollice dell'altra mano. «Andrà tutto bene, Cory» cercò di rassicurarlo. «Se ti vuole bene davvero, non ti lascerà...»
Lui sembrò irrigidirsi e diventare quasi più smarrito di prima. «Se mi vuole bene davvero?» ripeté. «Mi vuole bene davvero?» Serrò le dita e Charlotte boccheggiò per il dolore.
«Sì» rispose. «Te ne vuole no?» Il ragazzo non rispose, continuò solo a stringere. «Cory, mi fai male!» gridò lei ad un tratto.
Lentamente, lui la lasciò andare, senza guardarla, ed uscì dall'aula per andare a prendere lo scuolabus.
Charlotte rimase a fissare il punto in cui era sparito, per poi spostare gli occhi sul suo polso, con un'espressione ancora stupita dipinta sul viso. Aveva un braccialetto rosso che glielo circondava, e che si sarebbe presto trasformato in un livido viola.
Con lo sguardo sempre fisso sul suo braccio, lasciò per ultima il laboratorio e raggiunse il parcheggio dello scuolabus, per vederselo passare davanti, costringendola a tornare a piedi fino a casa. Ed era tutta colpa di Cory, del ragazzo distratto che correva fino a casa e aveva paura che la sorella morisse.

Il giorno dopo, non c'era ombra di Cory.
Charlotte lo cercò praticamente ovunque, sul bus, nelle classi, chiese persino in segreteria se si era presentato quel giorno, ma la risposta fu sempre negativa.
Aveva paura. Ora, era lei ad averne.
Non sapeva esattamente perché, dopotutto lei e Cory non erano amici, né si conoscevano, e l'unico ricordo vero che lei aveva di lui era un livido.
Eppure si sentiva quasi responsabile nei suoi confronti. Lei era forse una delle poche persone cui lui avesse rivolto la parola in quella scuola, e probabilmente una dei pochissimi a sapere perché avesse sempre quell'aria assente sul volto, perché si trovasse sempre con la testa da tutt'altra parte, perché sembrava provenire da un altro pianeta, perché corresse sempre.
Alla fine, poteva dire di aver capito il senso delle parole che Cory le aveva detto come se fossero una chissà che grande confidenza. "Per questo corro". Correva perché voleva tornare a casa il prima possibile, per poter bloccare la sorella prima che lo lasciasse. Correva perché aveva paura che lei morisse.

«Il signorino Germer è ancora assente?»
Queste furono le uniche parole di interesse che gli insegnanti rivolsero a Cory, che ormai non veniva più da una settimana.
Gli altri studenti, invece, non gli avevano rivolto alcuna parola e, Charlotte in cuor suo ne era consapevole, neanche un pensiero.
"Magari è malato" si diceva. "Magari sua nonna si è ammalata, o gli è morto il cane, potrebbe essere rimasta incinta sua madre..."
La ragazza non poteva fare altro che cercare scusanti all'improvvisa scomparsa del suo compagno di banco, qualcosa che le potesse dare un minimo di speranza, quel che le bastava per non preoccuparsi troppo.
Però, dopo una settimana di assenza, Cory tornò a scuola.
Si sedette al suo solito posto, era in ritardo.
Guardò Charlotte distrattamente, con degli occhi vuoti che le fecero venire i brividi. Profonde occhiaie nere glieli cerchiavano, e aveva la sclera arrossata, gonfia.
Posò i palmi aperti sul banco e chiuse gli occhi, isolandosi per qualche istante, poi li riaprì e continuò a fissare davanti a sé. Adesso, il muro sembrava avere molta più attrattiva della finestra e del giardino.
La giornata passò come le altre, Cory non rispondeva ai richiami o alle domande, né alle gomitate o alle parole di Charlotte. Le lezioni erano noiose come sempre, ed il ragazzo si muoveva come uno zombi in giro per i corridoi.
In lui, però, qualcosa di diverso c'era. Charlotte l'aveva notato.
Era sempre il solito studente distratto e con la testa da un'altra parte, ma non sembrava più trovarsi tra le nuvole, o su un altro pianeta. Dava l'impressione di avere più i piedi per terra, di non trovarsi più come in un sogno o in un incubo. Sembrava essere finalmente piombato nella realtà.
«Sai, avevi ragione» disse tutt'ad un tratto Cory, durante la lezione di inglese, rivolgendosi a Charlotte e senza neanche preoccuparsi di parlare a bassa voce, beccandosi un'occhiata dalla povera insegnante che stava cercando di declamare l'Amleto.
La ragazza continuò a guardare la professoressa, fingendosi interessata. In realtà, avrebbe voluto solo tapparsi le orecchie e scappare: quella donna era decisamente una pessima Ofelia. «Ragione su cosa?» domandò, assicurandosi di non essere sentita.
«Se mi vuole davvero bene, non mi lascerà» rispose Cory, lo sguardo fisso sul muro. «Non lo farà, mai.»

Charlotte salì sullo scuolabus. Sentiva di avere il cuore più leggero, ora che Cory era tornato e sembrava più positivo riguardo sua sorella.
Il ragazzo si sedette in fondo come sempre, ma non poggiò la testa contro il finestrino, preferendo abbandonarla sul poggiatesta, osservando il sedile davanti a sé.
Le porte si aprirono alla settima fermata e lui scese, le mani in tasca. Attraversò la strada come sempre e, raggiunto il marciapiede, imboccò la via per casa sua, lentamente.
Charlotte lo fissò fino a quando il bus non ripartì.
Lo guardò prendere il mazzo di chiavi, scegliere con estrema calma quella del portone e chiuderselo piano alle spalle.
Impiegò qualche istante a realizzare cosa in lui le sembrava diverso.
Aveva smesso di correre.

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