Capitolo 5.

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Il mio sonno venne interrotto dal rumore sordo della testiera di un letto che batteva contro il muro di mattoni, quello che separava la mia stanza da quella della mia migliore amica.
Jocelyn era rientrata e non era sola, purtroppo. Anche attraverso la parete che ci divideva riuscivo a sentirla, non mi fu difficile capire quello che stava facendo, e non era particolarmente piacevole.

Dovevo ricordarmi di comprare dei tappi per le orecchie, o potevo chiedere a mio padre di farmi insonorizzare la camera e, magari, di fare lo stesso con la sua. Ancora meglio, potevo fare tutte e tre le cose: giusto per non correre rischi.

Mi tirai su e mi misi a sedere appoggiando la schiena contro la struttura di legno del letto, con la mano chiusa a pugno iniziai a colpire la parete che condividevo con la mia migliore amica.

«DATECI.UN.TAGLIO», intervallai ogni parola con un colpo.

«Scusa», gridò per farsi sentire, - come se fosse necessario, le pareti erano spesse dieci centimetri, - prima di scoppiare a ridere.

Certo, ridiamo pure! Sbuffai spazientita.

Non c'era proprio nulla di divertente, la cosa si ripeteva un po' troppo spesso per i miei gusti.

Non avevo nulla contro il suo stile di vita, era suo e io non avevo alcun diritto di giudicarlo, ma non per questo mi andava bene che portasse a casa degli sconosciuti. Io non permettevo nemmeno ai ragazzi con cui uscivo di venirmi a prendere a casa, non riuscivo nemmeno a considerare l'idea di concedere loro il permesso di riaccompagnarmi. O di entrare.

Girai la testa verso il comodino accanto al letto e staccai il cellulare dal caricabatteria, erano solo le quattro del mattino. Troppo presto per andare a correre a Central Park, ma non sarei riuscita a riaddormentarmi.

Posai il telefono e presi l'Ipod, infilai le cuffie e premetti il tasto di accensione. Qualche secondo dopo misi in play e la riproduzione dei brani riprese da dove l'avevo interrotta prima di uscire.

Dagli auricolari, direttamente nelle mie orecchie, risuonarono le note di Sweater Weather dei The Neighbourhood.

Era grazie a Jared se li avevo scoperti, un giorno di tre anni prima. Lo stesso giorno del diploma, quello prima di partire, Hunter –che era tornato a casa per assistere alla cerimonia-, mi aveva costretto ad andare a cena da loro. Come al solito, ero entrata senza bussare e l'unica persona in casa in quel momento era lui. Stava seduto sul divano con la testa appoggiata contro lo schienale e gli occhi chiusi, dalle casse si diffondevano le note di quella che era diventata una delle mie canzoni preferite, e lui ne seguiva il ritmo tamburellando con le dita sopra il bracciolo.

Quello era un Jared che non conoscevo, calmo e rilassato. Quello con cui avevo a che fare io, invece, era sempre arrabbiato. Restai a guardarlo in silenzio fino a quando la canzone non finì poi, raggiunsi Hunter in camera sua. Non ne avevo mai parlato con nessuno.

E adesso Jared era a New York, la mia città. Com'era possibile?

4488,46, questo era il numero di chilometri che mi ero premurata di mettere tra di noi. Un intero paese. Quasi sei ore di volo. Che cosa ci faceva lui sulla costa orientale? Amava Los Angeles, il caldo, il sole, la spiaggia, la sabbia fine che si infilava in tutti i posti più improbabili, e l'oceano dove poteva praticare surf. Che cosa lo aveva spinto così lontano da casa?

Non mi importa! Non doveva importarmi. Non poteva importarmi. Se mi fosse importato gli avrei dato potere, ed era l'ultima cosa di cui avevo bisogno: concedergli di nuovo quel potere.

Feci partire la canzone da capo. Odiava il freddo, le grandi città affollate e piene di traffico. Gli piaceva guidare la sua auto con i finestrini abbassati anche d'inverno, ma soprattutto amava la sua macchina: era impensabile che avesse deciso di abbandonarla.

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