V. Prima colazione con Prèvert

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Uno di quei pomeriggi mi resi conto che non avrei potuto nascondermi in eterno da Anna. Avevo praticamente dimenticato che lei avesse una copia delle chiavi del mio appartamento, e un giorno, rientrando a casa, la trovai distesa sul sofà ad aspettarmi. Appena mi vide, accennò un sorriso severo. "Eccoti - disse, mettendosi a sedere - Ti ho seguito, sai?" Si alzò, e cominciò a vagare per la stanza evitando i miei occhi. "La vuoi, vero? Prenditela! - gridò gettando a terra un cuscino, e il suo seno sobbalzò - Ma lei ama un altro, non te! - il mio cuore si fermò - Hai idea di quanti prima di te l'abbiano già avuta? Non lo diresti - sorrise - così piccola, docile, innocente, eppure è già piena di esperienza - rise di cuore, poi si fece di nuovo seria - Vi vedrei bene insieme, come Gesù che salva Maria Maddalena dalla prostituzione!" In quel momento, con quella frase, Anna aveva ampiamente varcato il limite della mia pazienza. Il mio cuore esplose di rabbia, la afferrai per un braccio, la guardai con gli occhi pieni di sangue, spalancai la porta e con violenza la buttai fuori di casa, gridandole di non tornare mai più. Mi ero sfogato, respiravo affannosamente, poi tornai in me, tesi l'orecchio verso le scale e la sentii andare via di corsa singhiozzando, battendo rumorosamente i piedi sui gradini. Non credevo a nulla di ciò che mi aveva appena detto, eppure il dubbio si era insediato in me e serpeggiava fra i miei pensieri come il demonio. Ero confuso, arrabbiato, triste, e provai a trattenere le lacrime che, dalla collera, mi erano salite alla gola. Presi un libro qualsiasi dallo scaffale, lo guardai: "Paroles", di Prévert. Aprii una pagina a caso, lessi:
Sotto la pioggia
Senza parlare
Senza guardarmi
Mi presi la testa fra le mani, quasi come se stessi eseguendo un ordine
E ho pianto.
Anna mi aveva ferito, e nonostante avessi capito che il suo riferimento alla Maddalena fosse esclusivamente biblico, solo a sentir quel nome mi sentii morire dentro, ed ebbi una gran voglia di prendere a pugni il muro.
Per quanto riguarda questo nome, credo di dovervi dare qualche spiegazione. "Madeleine ne viendra pas". La mia Magdalena, lei era l'amore, l'unico che avessi mai avuto, la ragazza più bella che avessi mai visto. Ci conoscemmo ad una festa nella casa di campagna di un amico, e quella sera passammo tutto il tempo sdraiati sul pavimento gelido, con un cuscino sotto la testa, fissando il soffitto. Eravamo felicissimi insieme. Ricordo il giorno del suo quindicesimo compleanno, facemmo l'amore entrambi per la prima volta. Io avevo diciassette anni, due più di lei, e mi ero illuso che non avrei mai più avuto bisogno di cercare l'amore perché questo mi aveva ormai trovato, e sarebbe durato per sempre.
Era un pomeriggio di maggio quando, sei mesi dopo la nostra prima volta, si suicidò. Spesso mi parlava della sua depressione, mentre altri giorni era totalmente assente. "Sei l'unica gioia nella mia vita" mi ripeteva di continuo. Quando morì, assieme a lei una parte di me cessò di esistere. Mi rinchiusi molto in me, non avevo più voglia di mangiare, bere, vedere gli amici, mi sentivo come Humbert Humbert di Lolita, senza la sua Annabel, rischiavo di scomparire del tutto, eppure non mi dispiaceva. Quel dolore, stranamente, riusciva a darmi un ordine, una disciplina personale che mai più ho sentito in vita mia. L'unica cosa che riuscissi a fare era suonare il piano, il mio unico amico vero e fedele; lui, ne ero certo, non mi avrebbe mai lasciato. Insieme avremmo potuto superare ogni cosa, e fu infatti suonando che compresi che la cosa giusta da fare era rialzarsi, che avrei dovuto cambiare vita per sentirmi di nuovo vivo, così partecipai a quelle audizioni che mi permisero poi di accedere alla FOK. L'orchestra inizialmente mi dette speranza, accese una luce nella mia vita, forse nonostante quella perdita le cose potevano comunque andare bene, rimettersi a posto, potevo ancora realizzare i miei sogni.

Fumai una sigaretta dopo l'altra, camminando nervoso da un lato all'altro della stanza. Era davvero così importante essere amato da Sofia? Certo che lo era, ora era così chiaro, essere il suo oggetto del desiderio era la mia ragione di vita. Mi misi al piano, deciso a smettere di piangere come un bambino, e l'ultima lacrima che scivolò dal mio viso cadde su un tasto. Asciugandolo, involontariamente lo feci suonare, e questo emise un suono così dolce che la mia immaginazione percepì quella nota come un punto di partenza per la sonata che avevo intenzione di comporre. Una fonte di ispirazione così insolita, pensai. Decisi che l'avrei scritta appositamente per essere riprodotta in tonalità minore, avrei espresso amore e malinconia allo stesso tempo, e li avrei conciliati in una sequenza di suoni magnifica ed armoniosa.
Suonavo, e allo stesso tempo mi sentivo un disastro. In quei momenti tutte le vittorie della mia vita sembravano essere inutili ed insensate, dovevo avere Sofia, doveva essere mia, dovevamo essere felici insieme. Non avrei più potuto vivere senza di lei, perché ora avevo avuto solo un piccolo assaggio di ciò che era vivere con lei, ed era già fantastico.
Mi trovavo di fronte ad un bivio, da una parte c'era Anna, dall'altra c'era l'amore che tanto desideravo avere. Pensai però di meritare quella sciagura: in fondo, non era forse tutta colpa mia? Questo però non mi stupì, la cattiveria si era interamente riversata contro di me, ora. Anna aveva sofferto a causa mia fino a quel momento, e adesso era il mio turno. Sentii il bisogno di soffrire da solo. Amavo Sofia, era davvero un bel guaio.
Passai tre giorni in casa con le tende chiuse, e per non essere disturbato appesi alla porta un biglietto sul quale era scritto che non ero momentaneamente in città e che sarei tornato la settimana successiva, ma questo risultò del tutto inefficace poiché suonavo continuamente il piano e chiunque, dall'esterno, avrebbe potuto sentirmi. Più volte qualcuno, probabilmente Sofia o Anna, bussò alla mia porta, ma io non aprii mai, non avevo voglia di vedere nessuno. In quale direzione stava andando la mia vita? Fino a quel momento tutto era sempre stato sotto controllo, e ora mi ritrovavo invece al buio, solo come un bimbo in fasce abbandonato dalla madre in una giornata piovosa. Il mio cuore soffriva, eppure fu proprio in quei giorni che la mia ispirazione prese il volo e finalmente riuscii ad esprimermi al meglio. Il dolore era di nuovo quasi piacevole, uno strano calore ardeva in me, come una candela che bruciasse nel mio petto, riscaldandomi dal gelo della solitudine in cui mi ero immerso.
Una di quelle sere mi sentivo più ispirato del solito e così incominciai timidamente a suonare il mio dolore. Dopo qualche nota mi resi conto che qualcuno, accortosi della mia presenza in casa, stava bussando alla porta. Ero stato colto con le mani nel sacco, ero in trappola, ma invece di alzarmi ed aprire, suonai ancora più forte per sovrastare il brusio di quel fastidioso intruso della mia pace. Suonavo, ma continuavo a sentirlo bussare. Non voleva proprio arrendersi, così il nostro duello andò avanti per alcuni minuti, poi cessò. Avevo vinto io. Ringraziai il cielo, e ripresi a comporre in tutta tranquillità, senza pormi domande.
Quella stessa notte, però, non chiusi occhio. Ripensavo di continuo al mio componimento, e al misterioso individuo che bussava insistentemente alla porta.
Il mattino seguente mi alzai comunque presto, pieno di un'insolita vitalità, e decisi di uscire mentre gran parte della città stava ancora dormendo, in quel modo, forse, avrei potuto lasciarmi alle spalle quel sinistro pensiero. Mi feci un bagno, mi vestii ed aprii la porta di casa, ma una sorpresa mi attendeva proprio sull'uscio: Sofia dormiva lì, a terra, nell'angolo fra il muro e le scale, e stringeva fra le mani un libro. Scostai delicatamente il suo braccio per leggere di cosa si trattasse: "I dolori del giovane Werther" di Goethe. Mi tornò in mente quella prima conversazione nel bar, ed ebbi voglia di morire. Mi morsi il pugno per sfogare la rabbia istantaneamente, poi mi fermai un momento a ragionare. La presi in braccio come un padre fa con la propria bambina, la misi nel mio letto e la coprii per bene. Povera ragazza, chissà quanto freddo doveva aver preso quella notte. La lasciai riposare, uscii di casa e le comprai una brioche e un latte macchiato, ciò che ordinava ogni pomeriggio al bar. Tornando a casa pensai alla mia situazione, per tre giorni o forse più ero rimasto chiuso in casa ed avevo ignorato tutti, senza fornire spiegazioni a nessuno. Chiuso nel mio dolore, avevo sperato di essere riuscito, almeno un po', a soffocare il mio amore per Sofia. Invece, nel momento esatto in cui l'avevo presa in braccio, avevo capito che cercare di dimenticarla era stato come soffiare su una fiamma provando a spegnerla ed ottenere invece l'effetto contrario alimentando il fuoco.
Amavo Sofia, ero stato uno stupido in quei giorni. Come avevo potuto lasciarla fuori da casa mia con l'intenzione di dimenticarla? Io l'amavo con tutto me stesso, ora era più chiaro che mai.
Quando fui di nuovo nel mio appartamento quell'angelo era ancora lì, nel mio letto, nella stessa posizione in cui l'avevo lasciata circa mezz'ora prima. Silenziosamente chiusi la porta e le servii la colazione, ancora fumante, su un vassoio che adagiai a terra, vicino al letto. Mi misi al piano, e dolcemente cominciai a suonare una melodia gentile e delicata che potesse svegliarla nella pace più assoluta. Era così bella mentre dormiva, il respiro era delicato e regolare, i capelli le cadevano armoniosi sul viso. La studiai nei minimi dettagli: il suo corpo non era così generoso come quello di Anna, il suo seno era rimasto infantile, eppure in lei vedevo l'amore, l'amore e la disperazione insieme, allo stesso tempo. Che voglia di baciarla, avevo. Rimasi qualche istante, tentato da quel desiderio represso. Non se ne sarebbe mai accorta, in fondo, ma non avrei ricavato nulla da un bacio rubato, sarebbe stato inutile, così abbandonai l'idea e ripresi a suonare.
Non volevo crederci, ma le parole di Anna avevano piantato in me il seme del dubbio. E se davvero Sofia avesse avuto un amore, o addirittura più? Un amore con un nome diverso dal mio, un amore che non fossi stato io? Il mio cuore non avrebbe retto il colpo.
La meraviglia addormentata mosse un braccio, poi l'altro, poi sentii il fruscìo delle coperte mosse dalle sue gambe, e infine vidi i suoi occhi spalancarsi sorpresi, spaesati.
Il latte macchiato
la brioche
il parquet lucido dei mille passi di danza improvvisati
le gambe del piano
il mio volto illuminato dalla luce del mattino, ed ora anche dal suo sguardo.
"Buongiorno" dissi, sorridendole.
Non rispose. Si piegò sul busto, poggiando la schiena sul cuscino, si portò il vassoio sulle cosce e, in silenzio, cominciò a mangiare la sua colazione. Mi sentii un verme mentre la guardavo, l'avevo lasciata fuori dal mio appartamento come un animale non gradito, ma io l'amavo, l'amavo più d'ogni altra cosa al mondo, e questo lei non lo sapeva.
Mi fissò, senza dire una parola, sbadigliò, poi si alzò dal letto ed andò in bagno. Nel frattempo, io non mi ero mosso dal piano, ero imbarazzato, non sapevo né cosa dire né cosa fare. Guardai fuori dalla finestra e pensai, cosa avrebbe fatto una persona saggia al mio posto? Non ne avevo idea, così pensai a cosa avrebbe fatto Pavel, ma non servì a nulla. Quando mi voltai, con mia sorpresa, lei era di nuovo nel letto, nel misterioso silenzio di pochi minuti prima. Mi guardò, poi disse "Dammi una spiegazione a tutto questo." Non mi stava chiedendo di svelarle tutto, lo stava pretendendo, e giuro che lo avrei fatto volentieri se il destino non avesse deciso di remarmi contro. In quel momento, sentii la serratura girare, e la porta si aprì. Apparve Anna, e un silenzio di tomba scese in casa mia. I suoi occhi si iniettarono di sangue quando vide Sofia lì, distesa nel mio letto che tante volte avevamo condiviso, affusolata nelle lenzuola che lei stessa mi aveva regalato. Sicuramente pensò che avessimo passato la notte insieme, e che magari era proprio per quel motivo se da giorni non le avevo più aperto. Rimase come una statua sull'uscio a guardarci con odio, senza neanche dire una parola. "Tempismo perfetto" pensai. Gli occhi di Anna avevano parlato al posto mio, a Sofia non avrei dovuto spiegare nient'altro, era tutto così chiaro, e io mi facevo così schifo. Il silenzio fu il protagonista di quegli attimi, in quel triangolo. Vidi la porta chiudersi, e nella stanza fummo di nuovo io e Sofia. La guardai, spaventato, coperto di vergogna. Aveva capito tutto. Provai a parlare, ma le parole mi si bloccarono in gola. Avrei voluto dirle che l'amavo, che lei era la sola emozione positiva che riuscissi a provare, avrei voluto dirle che stavo scrivendo una canzone solo per lei, ma non ci riuscii, e tacqui. La vidi alzarsi, in silenzio, infilarsi le scarpe ed uscire dal mio appartamento, senza una parola o uno sguardo. Ma io l'avevo notato, aveva gli occhi gonfi, e in quel dolore capii che se ne era andata perché anche lei mi amava, ed era stata profondamente ferita dall'ingresso di Anna.
La porta si chiuse sbattendo, per la seconda volta in pochi minuti. Avevo perso entrambe le donne della mia vita in un solo colpo, nel modo peggiore che potessi scegliere. Presi il bicchiere del latte macchiato con il quale Sofia aveva bevuto, lo poggiai sul piano e, in controluce, lo osservai. Era l'ultima cosa che mi fosse rimasta di lei? L'impronta delle sue labbra sul vetro era così vivida, così vera, che avrei potuto guardarla per l'eternità senza mai stancarmi. Quell'impronta mi ricordava così tanto quelle lettere di addio profumate dei film d'amore sulle quali, spesso, le attrici lasciano come ricordo di sé lo stampo delle loro labbra rosse. Così, come per dire "Vado via per sempre, ma tu non dimenticarmi." E io non l'avrei dimenticata, mai.

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