VII. Sonata

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Passarono i giorni e, nota dopo nota, ero finalmente riuscito a portare a termine la mia opera. L'avevo riguardata e risuonata parecchie volte nelle ultime ore, tutto mi sembrava al posto giusto, tutto era perfetto. In quella melodia c'ero io, la mia anima vi era stata impressa, c'era certamente Sofia, lei l'aveva ispirata, c'era Pavel, e c'era Praga. Certamente, di Anna, non c'era alcuna traccia, lei doveva sparire dalla mia vita. La mia opera era frutto del dolore, e in quei momenti nulla mi dette più gioia del rendermi conto che i fiori più graziosi e profumati non crescono solo nei prati verdi ma anche nelle terre più tristi e desolate, e di queste subito diventano l'elemento principale, facendo quasi dimenticare a chi li osserva il contesto che li circonda. Avevo trovato una distorta felicità nel mio dolore, ed attraverso essa ero riuscito ad esprimere al meglio il mio stato d'animo, le mie sconfitte e le mie speranze. Quando passavo i miei pomeriggi a ripensare a lei ed a cosa avrei dovuto fare, spesso diventavo triste, apatico, perdevo il desiderio di mangiare o uscire. Dedicandomi totalmente al componimento musicale, invece, ero riuscito a placare quell'istinto, a seppellire l'amore per Sofia nei cortili del mio cuore, ma non sapendo mentire troppo a me stesso ero assolutamente cosciente che sarebbe bastato incontrarla - magari per caso, fra la gente, o vederla dietro alla vetrina di un bar mentre beveva il suo latte - perché quell'amore si disseppellisse autonomamente e venisse a prendermi un'altra volta. Se questo fosse successo, sapevo, non avrei più avuto scampo perché non si può fuggire per sempre dall'amore, è una regola.
Arrivò il Natale, la neve e quindi il concerto con l'orchestra. Il maestro, quell'anno, decise che avremmo suonato all'aperto davanti a centinaia di persone. Probabilmente pensò che sarebbe stato un innovatore e che, per questo, il pubblico lo avrebbe acclamato. Chi avrebbe mai detto, invece, che quella sarebbe stata la mia serata, la svolta della mia vita?
Non ero molto motivato a partecipare, ma era il mio dovere, così, quando fummo tutti pronti, presi il mio posto al piano. A causa delle dimensioni ridotte del palco mi ritrovai vicino al limite e quindi alla folla sotto di me, e se si osservava l'intera orchestra da lontano poteva sembrare che io fossi il protagonista della scena, invece, come al solito, ero un semplice strumento di accompagnamento, uno come gli altri.
Il concerto ebbe inizio, il pubblico apprezzava, applaudiva tenendo in braccio i bambini con lo sguardo assonnato. Guardai più volte la folla, cercando un viso amico, una ragione per cui valesse la pena essere lì, ma non notai nessuno. Mi rassegnai all'idea che quel Natale mi avrebbe portato forse un po' di fama, mi ritenni fortunato per la mia posizione strategica sul palco grazie alla quale la gente, forse, avrebbe potuto riconoscermi, ma questo non mi condusse a nessuna felicità.
I fiocchi di neve cadevano lenti a terra e sulla folla, e quel contatto li faceva sciogliere tutti, uno per uno, come se il nostro mondo li contaminasse, li uccidesse in fretta e senza pietà. Il freddo mi congelava le dita, le nocche erano diventate rosse, ma per fortuna non dovevo suonare nulla di particolarmente impegnato, quindi il clima non rappresentò un grande problema. Cos'era per me il Natale, se non avevo un amore da nutrire? Mi chiesi dov'era Sofia, dov'era Anna. Non le vedevo entrambe dallo stesso giorno, eppure con quest'ultima sembravano essere passati mesi e mesi, forse addirittura anni, e non riuscivo a capire perché.
Suonammo per più di un'ora, eravamo giunti alla fine, e fra gli applausi molte persone volevano che continuassimo, volevano ascoltarci ancora, rimanere immersi in quella magia che è la musica. Il maestro però, forse per il freddo, non dette ascolto a quelle persone e, inchinandosi, lasciò il palco. Nonostante me lo sia chiesto svariate volte, non riesco ancora a capire perché si comportò in quel modo, davvero, ma in fondo devo ringraziarlo ancora, perché se non lo avesse fatto probabilmente non sarei qui a raccontarvi la mia storia.
Lo spettacolo era quindi finito. I componenti dell'orchestra, uno per uno, sfilarono sul palco e, con un inchino, tornarono dietro le quinte. Rimasi solo, era giunto il mio turno di ringraziare ed andarmene, così mi alzai in piedi, raggiunsi il centro del palco e volsi il mio sguardo verso la folla. Ciò che vidi questa volta, però, mi frantumò il cuore dalla gioia, e lo sentii finalmente pulsare di nuovo nel mio petto. Sofia. Il suo viso delicato era lì, i miei occhi avevano ceduto al magnetismo dei suoi e così i nostri sguardi si erano incontrati, in mezzo a centinaia di altri. Era imbarazzata, era chiaro che non si sentisse a suo agio fra la gente, era diversa da tutti gli altri, ed io e lei lo sapevamo. Alle sue spalle vidi Pavel che accortosi di me subito sorrise, come per dire "Ce l'ho fatta, l'ho portata qui solo per te, amico mio!". E mi aveva reso davvero felice. Sorrisi, e in quel momento capii perché con Anna sembravano essere passati mesi dall'ultimo incontro: non avevo più pensato a lei perché non era mai stata così importante per me, io amavo Sofia, lei non era mai andata via neppure un attimo dalla mia mente, e anche quando tentavo di tenerla lontana dai miei pensieri, indirettamente questi erano rivolti a lei.
Era lì, chissà da quanto, ed io avevo fra le mani l'occasione più grande della mia vita. Non ci pensai due volte, non avevo più niente da perdere. Presi un microfono, mi sedetti al piano e dissi "a Sofia". La folla era confusa quanto i miei compagni dietro le quinte, nessuno, a parte me, sapeva cosa stessi per fare. Volevano continuare ad ascoltare la musica? Io gli avrei dato ciò che tanto chiedevano. Vidi lei, che mi fissava incantata, abbassai lo sguardo sull'avorio e ripensai a quella lacrima caduta qualche settimana prima sul piano, a casa mia. Toccai quel tasto, ed eseguii la mia sonata. Non avevo mai pensato ad un titolo, ma nulla mi sembrò più adatto di "a Sofia". Sulle prime note il pubblico rumoreggiava, chiedendo chi fosse quel ragazzo che ora suonava da solo, al piano, davanti a centinaia di persone. In realtà io stavo suonando solo per lei, e nella mia mente nulla era cambiato, mi trovavo nel salotto del mio appartamento a guardarla ballare sulle mie note. Poco dopo calò il silenzio fra la gente, tutti erano misteriosamente curiosi di ascoltare la mia sonata, ne erano visibilmente incantati, rapiti, e non sarebbero andati via per nessuna ragione al mondo. Suonai, senza neppure sbagliare una nota, il cuore batteva rapido nel mio petto come il tamburo di un mitragliatore. Ero confuso, ma stavo facendo la cosa giusta, di questo ne ero certo. Sofia mi guardava ferma, di pietra, come le statue del Ponte Carlo. La fissai, le mani andavano avanti da sole, i suoi occhi erano il mio pentagramma, quella melodia era stata composta grazie a loro, grazie al suo sorriso, grazie ai suoi passi di danza e alla sua voce, in lei riuscivo a leggere la musica. Mi amava, mi aveva sempre amato, ora era chiaro. Ancora una volta avevo ragione, mi era bastato vederla perché si risvegliasse da quel sonno, perché il mio amore tornasse ad essere vivo e perché io tornassi ad esserlo. Andai avanti indisturbato fino alla fine, toccai l'ultimo tasto, l'ultima nota, poi il silenzio. La gente rimase immobile, era ancora stupita, sotto l'incantesimo del mio amore per Sofia. Mi alzai, nella quiete più assoluta, più di cento persone immobili, avevo fermato il tempo, avevo fermato Praga, per un istante, con la mia musica. Mi inchinai, ripetendo "A Sofia".
Un battito di mani
Un altro battito
Quattro, forse cinque battiti contemporaneamente

Il pubblico, il mio pubblico, applaudì.
Rimasi qualche secondo con il capo chinato, e quando lo risollevai la vidi guardarmi scossa, come se si fosse appena svegliata da una magia, poi disse qualcosa a Pavel, e si allontanò confondendosi tra la folla. Lui mi guardò, sorrise ancora. "Grazie mille, amico mio" pensai. Non c'era più motivo di rimanere in vista al centro del palco, così mi voltai ed andai anch'io dietro le quinte. Qualcuno mi abbracciò e mi coprì di complimenti, qualcun altro, come il maestro, mi guardò con odio, o forse con un pizzico d'invidia. D'improvviso mi sentii esausto, così mi allontanai dagli altri, presi le mie cose e mi incamminai verso casa, avevo davvero un gran bisogno di riposare. Cominciai a sentirmi rilassato, quasi ubriaco, spensi il cervello, non volevo pensare, realizzare ciò che era appena successo. Non volevo correre il rischio di pentirmene, quel che era fatto era fatto, e ne avrei affrontato le conseguenze.

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