primo capitolo

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Sono Egle Shannon Olsen, e mi piace dire in giro di avere una storia. Tutti ne abbiamo una, c'è chi ce l'ha più gloriosa e soddisfacente e chi invece nasce da un operaio e muore fabbro, ma comunque, assolutamente ed indipendentemente da tutto il resto, può andare in giro a raccontarla, saranno gli altri a decidere se ne vale la pena o meno ascoltarla e di solito un pubblico annoiato come la razza umana, non si tira mai indietro.

La mia comincia nel North Mainland, Shetland, un'immensa, estenuante, ininterrotta, infame brughiera scozzese, più precisamente nel casolare degli Olsen.

Sono nata il primo giorno di una lunga estate dove il cielo pareva aver scelto come unica variante di colorazione, il grigio.

Il che doveva essere sembrato davvero tanto scocciante e deleterio ai miei tanto che, quando quella mattina spuntai dalle gambe pallide norvegesi di mia madre e nel cielo spazió un miracoloso raggio di sole, fui inconsapevolmente destinata a dovermi sopportare il nome Egle che da antiche radici vuol dire "luce" e che pronunciato sembra uno stupido gingle promozionale dei periodi festivi, più che un semplice "Rose" o un banale "Kate".

Fin da quando ero una piccola quadrupede che a malapena gattonava e biascicava sillabe incomprensibili, sono sempre stata considerata un piccolo miracolo del cielo.

Mia madre, Patsy Wilson, un'estetista fallita che odora perennemente di tensioattivi e acetone alle fragole, sterile dalla nascita, si struggeva perennemente nel dolore di non poter avere intorno due o tre bambini urlanti e moccolosi, che sbucano da tutte le stanze e saltano per tutti i divani della casa.

Mio padre, vuoi per l'esasperazione provocatagli dalle lamentele di mia madre e vuoi per il non voler ricadere in uno dei suoi più grandi rimpianti, ha messo in giro l'idea della madre surrogata.

Gli capitó una donna bellissima, una ex modella che, dopo la misteriosa scomparsa del figlio di pochi mesi, decise improvvisamente di dedicarsi a regalare la felicità alle coppie impossibilitate.

Il mio vecchio Oiva mi dice sempre che sono riuscita a catturare nei miei occhi il suo sguardo brillante, mentre tutto il resto, dalla forma dei piedi al colore dei capelli, l'ho ereditato da lui, per fortuna di mia madre.

Certo che sarà stato terribile per lei camminare per strada con una bambina che segretamente non era figlia sua e doversi sopportare il "ma le assomoglia tanto" della gente inconscia, quando in realtà, di suo avevo solo la cadenza pronunciativa del posto in cui entrambe eravamo cresciute.

Ricordo di essere sempre stata una bambina curiosa, una piccola scozzese dai connotati norvegesi e dalla doppia madre che passava le sue giornate infruttuose a rincorrere capre e mucche al seguito di suo padre e di suo nonno, oppure a intrecciare fili di paglia con la nonna sotto il salice della prateria del suo casale.

Non posso dire di aver avuto una vita molto avventurosa e piena di emozioni, almeno non qualificabile in confronto a quelli che vivono in Africa insieme ai genitori missionari, o quelli che imparano a camminare tra le liane in qualche foresta in amazzonia, ma comunque non posso lamentarmi della mia quasi paradisiaca esistenza e del mio trascorso rettilineo.

Ma se ora sto annoiando ancor di più un pubblico di lettori già probabilmente abbastanza annoiato per essere finito a frugare tra le righe della vita di qualcuno che non abbia nome e fama, è perché penso che valga la pena conoscere la storia che vi sto per raccontare.

Tranquilli, non è la mia di storia, di me basta sapere che fin ora ho superato 19 inverni su questa fredda e immensa distesa di luce e vuoto verde, che vivo abbastanza lontana dalla forma di civiltà più vicina da sentirmi un'aliena e che passo le giornate con in grembo qualche libro a penzoloni di qualche vecchio ramo del Mainland, tutto il resto può anche essere omesso.

Questa è la storia di Niklas Mallory, il più fuggente, iracondo, celato, invalicabile, profondamente vuoto, silenzioso, rumoroso, glaciale e immensamente scottante ragazzo della Scozia del Nord.

Ma per arrivare a lui, mi duole dirvi che si deve partire da me, da dove e come tutto ha avuto origine.

Erano le idi di una primavera appena sbocciata, dove ancora le rondini non si erano infilate tra i cardini delle porte dei vecchi casolari e delle stalle, e dove ancora le cicale non gracchiavano abbastanza forte da essere insopportabili.
Tutto era sommessamente e fantasiosamente perfetto e nella mia vita, non sarebbe potuto esserlo più di così.

Ero nella mia mansarda con i piedi fuori dalla finestrella e le iridi puntate sotto il cielo di una Kirkwall limpidissima e silenziosa, mentre nelle orecchie mi esplodeva Billy Boyd del 68, l'annata migliore per altro, e bazzicanavo tra un brano e l'altro, mentre aspettavo che il sole calasse e la ford di mia madre facesse il suo lento e ostentato ingresso nella proprietà.

Ma quel giorno quel cielo così azzurro ed infinito sembrava non volere sparire mai e la sera era ancora un lontano desiderio.

Dopo aver passato in rassegna un intero archivio sulla carriera del cantante ascoltandone ogni brano immaginabile ed esistente, decisi che forse qualcosa non andava.

Mio padre era lontano da me mille miglia, in uno di quei suoi strani convegni fuori paese, che di tanto in tanto lo trattenevano via per un lasso di tempo che variava di volta in volta, e quando tornava a casa diceva sempre di trovare in me qualcosa di diverso.

Masticava nello stesso modo che aveva appreso nel luogo dove aveva passato gli ultimi tre o sei mesi, o addirittura pronunciava il mio nome in modo diverso, e mi piaceva sentirglielo dire.

Mia madre doveva essere a casa già da un pezzo, perché il barlume di sole sottile come un anello all'orizzonte mi suggeriva che il tramonto era ormai trascorso da un pezzo, così come l'ora in cui sarebbe dovuta essere ritornata.

Ma ho imparato che la brughiera che ho chiamato casa a lungo, dove sono cresciuta e caduta tante volte, sa essere cattiva, e quello che succede qua dentro, resta un segreto quasi per tutti, perché nessuno si imbatterebbe mai in un campo ininterroto quando il buio comincia a calare.
Nessuno se non chi ha avuto la maledetta sfortuna di doverci vivere.

Sta di fatto che quella sera il telefono squillo ininterrottamente finché la settima volta non lo sentii dal piano di sopra.

Mia madre aveva sbandato con la sua vecchia e cara Ford su di un piccolo gruppo di capre al pascolo apparse all'improvviso dal nulla, finendo per cento metri e più giù da una collinetta scoscesa.

Quando l'hanno trovata, sei ore più tardi tramite uno stupido gps nella batteria del telefono, era priva di conoscenza.

Ma nonostante ciò, dopo che le cure in terapia intesiva fecero il loro corso, venne spostata in psichiatria, con il sospetto di essere una donna in crisi di nervi che aveva tentato il suicidio.

Ma ora ho imparato a mie spese che nessuno crederà mai ad una donna che vive in un prato infinito, a 25 kilometri dal primo supermercato disponibile, senza avere il minimo rapporto con altri esseri umani se non la vecchia decrepita che deve accudire e il marito di questa, sua figlia che passa quasi tutto il suo tempo barricata nella sua strana bolla di interesse e un marito quasi del tutto assente, quindi, se ciò dovrà in qualche modo essere anche il mio inevitabile destino
-cosa alquanto probabile se qualcuno di natura divina non mi manderà un suo segnale sotto forma di miracolo-
Preferirei cominciare a pregare ora di non finire in qualche struttura per matti senza averne reale bisogno.

Ma per fortuna il mio miracolo è avvenuto, prima ancora che ne avessi di bisogno.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 12, 2016 ⏰

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