Parte prima

333 24 19
                                    


#wattys2017 

Se la storia ti piace, nominami qui! *-* https://www.wattpad.com/389709666-concorso-2017-info-e-regolamento/comment/2796315529 

Dedicato a Francesca R.


Se mai decidessi di andare davvero in terapia da uno psichiatra,
non ti accetto se torni diversa
e non mi ricordi, ogni tanto, che you should have come to Shiratorizawa.
Ti voglio bene.


La teoria dei limiti
(Da applicarsi all'amore)


Parte prima


Pronunzio il tuo nome

nelle notti scure,
quando sorgono gli astri
per bere dalla luna
e dormono le frasche
delle macchie occulte.
E mi sento vuoto
di musica e passione.
Orologio pazzo che suona
antiche ore morte.


Mia madre mi ha cresciuto com'è cresciuta anche lei: duro come il legno degli alberi della foresta amazzonica, leggero per restare a galla sull'acqua se mi fossi trovato in una tempesta. Quando divenni abbastanza grande da capire, lei era già nelle grazie della sacerdotessa del Macumba, culto mistico che abbraccia la pietà della religione cristiana, del tempo in cui gli schiavi africani venivano deportati nelle terre feconde che oggi sono le nostre case. Era la Yabassé, unica responsabile degli alimenti sacri ed esperta guaritrice.
Non mi ha mai costretto a recarmi in chiesa, a credere in qualcosa in cui non riuscissi a trovare fede spontaneamente; d'altronde lei in chiesa non ci andava, ma partecipava alle sedute della sacerdotessa per parlare ai santi e agli spiriti.
Cercava di parlare con mio padre: era morto inghiottito dal mare.
Lo cercava: il suo amore era un'eco infinita che s'acquietava solo quando amava me. Raquel, Raquì, madre mia: piccolina, con due spalle larghe da chi è abituato a portare un grande peso di vita e lavoro, gli occhi grandi, neri e i capelli ricciuti, le braccia scure e forti. Sono proprio come lei, ma ho preso l'altezza dal padre che non ho mai veduto. Prima di sposarsi, colui che conosco col nome di Noè Maior Araùjo aveva comprato una piccola casa di legno da riempire di gioia e di figli. Erano rimasti una moglie e un figlio con una casa di legno benedetta: il fatto di possederla permise a mia madre di garantirmi di proseguire almeno fino alla terza elementare. Ed in Brasile, in cui tanti miei coetanei sono rimasti analfabeti fino alla morte, era un lusso.
La maestra che mi chiamò genio per la prima volta era inglese, bionda e delicata. Parlò a mia madre con parole semplici, piano, perché il suo aspetto sporco e terreno faceva credere a quegli stranieri là che non potesse capire parole come quoziente intellettivo notevole e media altissima.
Mia madre, però, queste cose le capiva, anche se solo in astratto, e annuì forte quasi a voler conficcare il mento in una certa parte d'aria, perché forti erano tutti i suoi movimenti.
Vinsi, ogni anno, borse di studio che mi sarebbero bastate anche per proseguire all'università. Nel mio quartiere povero ero un re; tutti avevano riguardo di non farmi finire troppo spesso tra il fango quando giocavamo a calcio, quasi avessi avuto il potere di punirli e decidere la loro sorte. Tra i re ero lo schiavo africano di duecento anni prima e che doveva essergli sempre sottomesso. Loro scambiarono il mio timore taciturno per un permesso a farsi spazio nella mia vita, per coltivare un'amicizia fatta di serate di cui non ricordavo mai la fine, compiti passati e una persona in più da salutare per strada. Erano contenti di venirmi a trovare nel mio quartiere: le ragazze che fino a quel momento morivano per me morivano per loro.
Ed io ne ero sollevato.
Alla fine dell'ultimo anno, mentre loro fumavano l'oppio e parlavano delle donne che avevano avuto nel letto, finirono per guardarmi tutti nello stesso istante. Dovevano farmi un regalo, dicevano. Dovevano rendermi finalmente un uomo.
Ero timido, e d'accordo, ci sono donne che impazziscono per i tipi così e con gli occhiali piccolini sulla punta del naso come li porti tu. Ma devi sapere com'è che si fa.
Lo devi vivere.

Mi portarono in un edificio pieno di divani e ragazze svestite; una bella ragazza, che non doveva raggiungere ancora i trent'anni, mi condusse in una stanza lontana da tutte le altre, senza porta, che non mostrava l'interno solo perché l'entrata era coperta da una tenda filata. Mi fece segno d'accomodarmi, ed io mi sedetti sull'orlo del letto a baldacchino. Lei sorrise d'un qualcosa che assomigliava alla tenerezza.
«Prima volta?» chiese.
Feci un colpo di tosse. «Sì. Non sono mai stato qui.»
«Non era quello che intendevo.» E mentre mi porgeva una sorta di album fotografico, il suo sorriso s'allargò.
L'aprii e subito lo richiusi, con il fiatone, pieno di vergogna.
Mi alzai dal letto e la donna mi posò una mano sul petto.
«Dove vai?» fece, con voce dolce. «Non temere. Non ti accadrà niente di brutto. I tuoi amici hanno pagato abbastanza perché tu possa avere tutto quello che desideri, senza eccezioni.»
La sua mano mi scese in vita. «Desidero andarmene, signora.»
«Signora? Io non mi sposerò mai. Il mio destino è segnato, mio caro studentello che non sa niente del mondo, ma non il tuo.» Non scese più giù, ma con l'altra mano mi accarezzò il viso e fece in modo che la guardassi nei suoi occhi scuri, ornati di ciglia troppo lunghe per essere vere. «Andrà tutto bene.»
Mi lasciò solo e, dall'esterno, separato solo da quella tenda sottile, sussurrò qualcosa come: portami il più giovane.
Subito dopo entrò un ragazzo. Era nudo, se non per il tessuto che gli copriva le parti intime, ed era bianco. Biondissimo e con due occhi di ghiaccio, mi fissò con uno sguardo incuriosito che si trasformò in consapevole. «Ciao, Sebastião. È questo il tuo nome, giusto?»
Deglutii. «Sì. Questo è il mio nome. Sebastião Maior Horta.»
«Shhhh...» Si avvicinò e mi posò un dito sulle labbra, un sorriso a increspare le sue. M si sedette accanto e la sua mano restò ancorata al mio viso. «Non dovresti mai dire il tuo nome completo in posti come questi. Potrebbero ricattarti.» Restai in silenzio. Il cuore mi batteva troppo forte, come se fossi sul punto di andare all'altro mondo. «Ma tu sei una brava persona, non puoi saperlo,» aggiunse.
Presi fiato. «Tu come ti chiami?»
«Se avessi continuato a sfogliare il menu, avresti visto che mi chiamano desejo de gelo.» Desiderio di ghiaccio. «Ormai, qui, mi chiamano tutti a quel modo, Desejo.» Sospirò sul mio volto e chiusi gli occhi. «Clara aveva ragione. Tu desideri questo.» La sua mano scese laddove la donna, Clara, aveva avuto giudizio di fermarsi. Non avrebbe trovato niente di quello che in quel momento trovò il ragazzo di ghiaccio, il desiderio di ghiaccio.
Gemetti.
«Ma certo, lei capisce sempre tutto... le basta guardarvi, le basta guardarci... sei bello, Sebastião. Vuoi toglierti gli occhiali o vuoi guardarmi mentre lo faccio?»
«Io... io non lo so...» Era terribile: ero lì tra le braccia di un uomo, pronto a fare qualcosa che avevo idea accadesse solo tra uomo e donna, e non sapevo cosa dire, cosa fare. Sapevo solo che avevo paura. «Non dirlo a nessuno... i ragazzi non devono saperlo...»
«Quando uscirai di qui potrai raccontare ciò che vuoi,» mormorò, caldo il suo respiro. Cominciò ad aprirmi le braghe. «E potrai dimenticarti di me.»

La teoria dei limiti (da applicarsi all'amore)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora