Capitolo 1

62 5 3
                                    


Sentivo il vento tra i capelli, mentre attraversavamo a tutta velocità la strada principale della cittadina di Galls, nello stato del Praecepta. Mi carezzava il volto, il braccio teso sul finestrino abbassato. Gli alberi ci sfrecciavano accanto, e tutti i colori si mischiavano, dando vita a un dipinto verdeggiante. La strada era larga, a doppia corsia, e le macchine che ci passavano accanto, mi sembrava rallentassero solamente per guardare "i nuovi arrivati". I Davies. «Ti prenderai la febbre, Beth!» mi disse per l'ennesima volta Henry. Mio fratello Henry è sempre stato abbastanza iperprotettivo da quanto ci eravamo trasferiti. Noi, e i nostri due fratelli più piccoli Carl e Daisy. «Non mi importa niente della febbre! Finalmente oggi c'è il sole, e intendo godermelo!» gli sibilai contro. Essendo il più grande, Henry aveva il potere su di noi, nonostante stessi per compiere diciassette anni. «Beth, se non tiri su immediatamente quel finestrino, proseguirai a piedi» mi disse fissando la strada di fronte a lui. «Bene» gli dissi e mi slacciai la cintura. Lui mi guardò sbigottito, mentre mi allontanavo verso il nuovo appartamento. Cominciava a fare freddo, ma non mi lasciai condizionare dal tempo, ma lo sfruttai a mio vantaggio. Sciolsi la coda di cavallo, in cui tenevo raccolti i capelli, lasciandoli cadere sulle spalle, mentre il vento li scompigliava. Li sistemai di lato, e mi incamminai verso l'ultimo incrocio. Mi preparai ad attraversare, ma ad un tratto, vidi una macchina venirmi addosso. Gridai e mi abbassai istintivamente, anche se sapevo che non era la soluzione migliore. La macchina sbandò, ma riuscì a non investirmi. Mi alzai spaventata e corsi fino alla porta di casa. Non badai neanche a salutare i miei fratelli, e corsi in camera mia. L'unica parte della casa in cui riuscivo a trovare me stessa. Un luogo dove lasciare spazio alla fantasia per scappare dalla realtà, pensai. Mi buttai sul letto, incapace di fare altro. Nel silenzio della mia stanza, sentivo il cuore martellarmi nel petto, ancora sotto pressione per la paura. Notai che non avevo ancora disfatto gli scatoloni del trasloco, nonostante fosse avvenuto all'inizio dell'estate. Ne avevo un paio sulla scrivania, uno dentro l'armadio e tre sotto il letto. Mi alzai con calma, misi le cuffie e le collegai al cellulare, e feci partire la musica. Passai di fronte allo specchio, e lì mi fermai. Henry diceva sempre che ero un piccolo sole, ma non gli avevo mai dato retta. Ma dovevo ammettere che rispetto a quando ero piccola ero cambiata molto. In meglio. Avevo lunghi capelli ambrati, mossi, come piacciono a me. Gli occhi color terra circondati da lunghe ciglia, mai truccati. Un piccolo naso, che mia madre chiamava "petalo di rosa", e il labbro inferiore leggermente più pieno di quello superiore. Soprattutto quando facevo a botte con Carl. Cominciavo a considerarmi una bella ragazza. Presi uno degli scatoloni sotto il letto e lo aprii. All'interno trovai delle vecchie foto e un vecchio album. Lo aprii, appoggiandolo con le fotografie sulle mie ginocchia, e trovai all'interno le foto di persone che non avevo mai visto. Ridevano. Giocavano. Un paio ricordavano Henry e Carl, ma soltanto vagamente. A un tratto, nelle ultime pagine, riconobbi mia madre, giovane. Chiusi l'album, incapace di sopportare l'ondata di ricordi che mi avrebbero invasa se avessi visto il resto delle foto. Mi alzai di scatto, e le foto caddero, sparpagliandosi sul pavimento. Mi soffermai su una foto in particolare. Il giorno della nascita di Daisy. Mentre la osservavo, le lacrime cominciarono a rigarmi le guance. Esattamente tre settimane dopo quel giorno, Claire e Frank Davies erano morti, lasciando soli i figli. Le lacrime cominciarono a cadere sulla fotografia, e le asciugai immediatamente per non rovinare l'immagine. Ma evidentemente, quelle non erano state le prime lacrime. L'inchiostro li sciolse al passaggio della stoffa della mia manica, e uno dei pochi ricordi dei miei genitori si dissolse nel nulla. Trattenni il fiato, sperando che se avessi aspettato, sarebbe tornata come prima. Ma non lo fece. Lentamente, mi alzai da terra, raccogliendo le altre foto, senza guardarle. Le infilai nell'album e misi tutto sopra l'armadio, più in alto rispetto alla portata di Carl e Daisy, e troppo nascosto rispetto all'attenzione di Henry. E troppo infelice rispetto alla mia forza. Non mi accorsi neanche dei colpi alla porta, sempre più insistenti, e della voce di mio fratello che mi ordinava di scendere a cena. O di prepararla. Spensi la musica e tolsi le cuffie, e ricacciai lo scatolone sotto il letto prima di scendere in cucina. «Ehi, guardate chi ci ha onorati della sua presenza!» mi schernì Carl mentre entravo in cucina. In risposta, io gli misi la testa nel piatto con una sberla. «Bettie» cominciò Henry. «Non chiamarmi così!» sbottai. Mi feci cadere sulla sedia e iniziai a mangiare. Henry e Daisy si scambiarono un'occhiata e cominciarono a mangiare. Io inzuppai una fetta di pane nel sugo della pasta che Henry aveva cucinato. O almeno cercato di cucinare. Quello che avevo nel piatto era un insieme di quella che avrebbe dovuto essere pasta, che in realtà era una massa informe di un materiale colloso inondato di un sugo rosso che riconobbi come pomodoro. «Henry, cosa dovrebbe essere?» chiesi alzando gli occhi al cielo. Non volendo una risposta mi alzai prendendo il piatto, e lo svuotai nella spazzatura, facendo lo stesso con i piatti dei miei fratelli. Mi misi ai fornelli e iniziai a cucinare. «Grazie Beth» disse Henry, cercando il mio sguardo. Come sempre pensai. Da quando mi ricordavo, avevo sempre cucinato io per i miei fratelli, e non si erano mai lamentati, nonostante come cuoca fossi abbastanza scarsa. «Io non ho fame» annunciai mettendo i piatti in tavola. Henry mi lanciò uno sguardo di disapprovazione, che ricambiai con un'occhiata assassina, mentre Carl e Daisy ci osservavano. Decisi che non mi importava di quello che pensava mio fratello e salii di nuovo in camera. Mi rimisi le cuffie e rifeci partire la musica. Ricominciai a svuotare gli scatoloni, trovando all'interno soprattutto vestiti, che riposi nell'armadio. Solamente uno scatolone richiamò la mia attenzione. Conteneva molti trofei, tutti quelli delle gare a cui avevo partecipato. Da piccola seguivo un corso di lotta, perché mio fratello continuava a ripetermi di essere forte dopo la morte dei nostri genitori, e io l'avevo interpretata come una forza fisica. E mi impegnavo al massimo, partecipavo a gare, e vincevo. E ogni volta che portavo a casa un trofeo, mi chiudevo in camera e iniziavo a piangere, pensando a cosa avrebbero detto i miei genitori se fossero stati ancora vivi. Poi mi asciugavo le lacrime e andavo a festeggiare con i miei fratelli. Più tardi, capii quello che Henry intendeva dire, ma non smisi mai di lottare, mentalmente e fisicamente. Sistemai i trofei e le medaglie sullo scaffale, in ordine di importanza, ma al centro misi il trofeo delle Nazionali. Era quello di cui andavo più fiera. Era stato quattro anni prima, ed ero riuscita ad arrivare prima, dopo anni di allenamento. I miei ricordi si interruppero bruscamente, quando Henry mi strappò gli auricolari. «Cosa vuoi?» gli gridai contro. «Siediti Elisabeth» mi ordinò. Io cercai di opporre resistenza, ma mio fratello mi prese per un braccio e mi costrinse a sedermi. «Cosa vuoi?» ripetei seccata. «Beth, sei pronta per domani?» domandò. «Certo, perché non dovrei? È solamente il primo giorno di scuola» dissi acida. «D'accordo» si alzò e si avvicinò alla porta. «Chiudo?» chiese. Io annuii e lui mi lasciò sola. Decisi che non valeva la pena restare sveglia a pensare, così mi misi in pigiama e andai a dormire, senza fare altro. Mi addormentai poco dopo, schiacciata dal peso della giornata, e per una volta, fu una notte tranquilla, senza sogni né incubi.

WarriorsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora