Capitolo 1

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365 giorni, 8.760 ore, 525.600 minuti, 31.536.000 secondi; in parole povere un anno. Un po' di tempo era passato da quando avevo messo piede per la prima volta in quella città.
Tempo, ogni cosa nella vita, ogni azione, ogni gesto, ogni pensiero è tutto rivolto ad esso. C'è chi non ne ha, chi ne ha troppo, chi lo sfrutta e chi lo brama. Ma una cosa è certa, il tempo è l'unica cosa che accomuna tutte le persone del mondo, senza alcuna distinzione sociale, di razza o di religione. Passa allo stesso modo per tutti, lento e inesorabile, accompagnandoci nel nostro viaggio dalla nascita alla morte.
Pensando e ripensando, guardavo quel mozzicone accorciarsi ad ogni mio tiro. Un' aroma di erbe e spezie entrava nella mia bocca, andando a fondersi con i polmoni e riscaldando il mio cuore. Sentivo come dei piccoli svenimenti ogni volta che aspiravo, le gambe mi cedevano costringendomi ad aggrapparmi per un attimo alla ringhiera accanto a me. Tenevo lì, tra le dita, una delle più grandi gioie della mia esistenza, l'erba. La guardavo terminare mentre mi apprestavo a varcare la soglia del locale.

La notte era ormai calata sulla città, improvvisamente accesa grazie alle luci dei lampioni, delle insegne dei locali, delle case. Un misto di persone di tutte le età vagava per le strade; provenivano da ogni dove, da ogni zona, da ogni parte del mondo. Chi felice, chi triste, chi stanco, chi energico, chi camminava talmente veloce che sembrava dovesse vincere una gara e chi invece si crogiolava agli angoli della strada, tra una pinta di birra e una risata con gli amici, cercando una fuga momentanea dalla grigia e ripetitiva vita quotidiana. Non era una città qualunque, era la metropoli, la capitale; quella che ti accoglie come un figlio ma che improvvisamente può stritolarti e farti sparire nei suoi angoli più bui. In una sola parola: Londra. La mecca d'Europa; la Babele d'occidente; quattordici milioni di abitanti, trentatré diversi quartieri, sei aeroporti, oltre trecento lingue differenti parlate. Una città frenetica, caotica, sconfinata; dove conoscevi tutti e nessuno, dove ognuno tirava dritto per la propria strada senza voltarsi indietro, dove non c'era spazio per i sentimenti, dove i tuoi sogni potevano prendere forma e colore con la stessa velocità con cui potevano schiacciarti e lasciarti lì, solo, indifeso, debole come un granello di sabbia in una spiaggia.

A quel tempo ero un giovane come tanti, uscito dall'Italia per cercare un futuro migliore, un'esperienza di vita, un qualcosa da poter raccontare quando sarei diventato vecchio.
Si facevano lavori normali per mantenersi: cameriere, barista, cuoco, gelataio; insomma qualsiasi cosa andava bene purché entrasse del denaro; e nel contempo si sognava di diventare un giorno grandi attori, o cantanti, o imprenditori. Si studiava, si lavorava, si viveva in un posto nuovo, dove la gente parla, guida, pensa esattamente al contrario di come si era abituati a casa. Tra una fatica e l'altra, tra una bolletta da pagare e l'affitto in scadenza si trovava comunque lo spazio per andare fuori la sera, spegnere il cervello, abbracciare la notte, con tutte le sue promesse, le sue tentazioni, i suoi sogni, le sue avventure. Per trovare anche solo per poche ore una piccola pace interiore. Qualsiasi cosa che io e i miei amici facessimo, che si trattasse di lavoro, di vederci la sera, di andare a fare shopping, tutto quanto aveva un solo e unico fine: la droga. Guadagnavamo, spendevamo, risparmiavamo, a volte addirittura rubavamo, tutto quanto per poterci permettere la nostra dose giornaliera. A volte erano anche più di una; a volte ci si svegliava alla mattina e ci si faceva subito, e poi, appena finito l'effetto, il pomeriggio stesso via con un'altra dose, e poi un'altra, e un'altra ancora, fino a che il fisico reggeva, fino a che ancora si riusciva a stare in piedi. L'unica altra cosa che riusciva a interessarmi quanto la droga era il sesso: ad ogni serata, ad ogni festa, ad ogni grammo di stupefacenti che assumevo, corrispondeva la tale e quale ricerca del sesso, della carne, della penetrazione. Non m'importava di chi si trattasse, poteva essere la più ambita della città come la più ripugnante, quando mi facevo dovevo per forza trovare qualcuna, e svuotare tutte le mie emozioni con lei. Dovevo trovare una complice che avesse voglia di partecipare a quel gioco con me. Che si trattasse di un minuto, un'ora, un giorno, dovevo concludere lo sballo così, altrimenti sarebbe stato un fallimento totale, un amaro in bocca difficile da ripulire.
Ci facevamo di tutto: dall'oppio ai cartoni, dall'erba ai funghetti, passando per cocaina, ketamina, pasticche, acidi. Addirittura nell'ultimo periodo avevamo cominciato a mangiare medicinali scaduti. Niente ci poteva fermare; solo l'eroina un po' ci spaventava, vuoi per il prezzo elevato, vuoi per il rischio morte assicurato; ma ero convinto che di lì a poco avremmo iniziato anche con quella, ormai la solita roba non ci bastava più; la nostra era una fame continua, impossibile da saziare. Ma tra tutte queste droghe elencate, solo una per noi valeva più di tutte le altre messe insieme: l'MD. Sintetizzata negli anni settanta ed usata inizialmente come terapia nei soggetti malati di depressione, l'MD aveva avuto una grandissima rinascita tra quelli della mia generazione. La si poteva trovare in qualsiasi locale notturno della città; ed era probabilmente la più facile da nascondere: bastava scioglierla in una bottiglietta d'acqua e il gioco era fatto, nessuno avrebbe potuto scoprirci. Ci dava un effetto che nessun'altra droga sapeva eguagliare, quella sensazione di pace e armonia col mondo mischiata ad una instancabile voglia di ballare, muoversi, saltare da tutte le parti. La cosa che più mi piaceva era che durante l'effetto volevo bene al mondo intero; per qualsiasi persona mi passasse davanti, anche mai vista prima, provavo un affetto enorme. Era come se fossero tutti miei fratelli per un attimo.
Per un attimo, ogni persona di questo pianeta era bellissima.

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