Ero una grande fan della mia collega Allie B. Mi faceva ridere di continuo. Sembrava una ragazza spensierata, sempre che non fosse incazzata per qualcosa; diciamo che il suo umore oscillava in maniera un po' folle. Allie non portava addosso i pesanti segni che ti lascia il carcere, benché non fosse la prima volta che finiva dentro: era una criminale, in effetti, e ciò non stupiva, considerato che era anche una tossica. Siccome però non era stata condannata per un reato legato alla droga, non le fornivano alcuna terapia per disintossicarsi. «Dai, adesso sei pulita, e lo sei stata per tutto il tempo che hai passato qui dentro» le dicevo. «Che senso avrebbe tornare indietro?» Lei inclinava la testa e sorrideva. «È chiaro che non hai la più pallida idea di cosa stai dicendo, Piper. Non vedo l'ora di farmi una dose. E poi una bella scopata.» Una cosa era certa: Allie adorava farsi tanto quanto adorava il sesso. Sussurrava a mezza voce esilaranti commenti spinti su qualsiasi esemplare maschio le passasse sotto gli occhi e stuzzicasse la sua fantasia: guardie, impiegati in giacca e cravatta, l'occasionale e ignaro tizio delle consegne che entrava nel nostro campo visivo. A volte mi chiamava «mogliettina», al che replicavo: «Puoi sognartela, Allie», e le venivano degli attacchi di finto (credo) arrapamento durante i quali mi rincorreva per il Dormitorio B urlando volgarità e cercando di tirarmi giù i pantaloncini grigi da corsa mentre io strillavo come un'aquila. Presto le nostre vicine si stancarono di tutto quel casino. Dal modo in cui parlava e scriveva, e nonostante la passione per Fear Factor, un reality orrendo, avevo intuito che Allie era più istruita della maggior parte delle detenute. Senza farle domande personali, che erano tabù anche tra amiche, dedussi che i numerosi periodi trascorsi dietro le sbarre fossero dovuti alla tossicodipendenza. Ero preoccupata per lei: ovviamente speravo che non vedesse mai più una cella, ma ancor più di quello, temevo
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che potesse finire male. Mi preoccupava allo stesso modo la sua amichetta del cuore, Pennsatucky, che era stata dipendente dal crack (lo si capiva dal fatto che aveva gli incisivi neri). Diversamente da Allie, però, lei non sognava di farsi una dose appena rimesso piede fuori. Pennsatucky voleva riavere sua figlia. La bimba, un angioletto di tre o quattro anni, viveva con il padre, e a lei avevano tolto ogni diritto genitoriale. Non era «a posto», sostenevano le donne al Campo, una cosa che si diceva di chi soffriva di problemi comportamentali o, a volte, di una vera malattia mentale. Le condizioni di vita in carcere di certo non rendevano le cose più facili a chi doveva fare i conti con quelle difficoltà. Adesso che conoscevo e lavoravo con Pennsatucky da un po', pensavo che fosse più in gamba di quanto si credesse. Era perspicace e sensibile, ma faceva molta fatica a esprimersi in un modo che non risultasse sgradevole e, se aveva l'impressione di non essere rispettata – il che accadeva spesso –, si arrabbiava e alzava la voce. In lei non c'era niente di sbagliato, nulla che le avrebbe impedito di avere una vita perfettamente felice, ma i suoi problemi la rendevano vulnerabile alle droghe e agli uomini che potevano offrirgliele. Se la tossicodipendenza ti porta a infrangere la legge, rischi di finire a disintossicarti sul pavimento di una prigione di contea. Al trasferimento nel penitenziario definitivo, la prima cosa che fanno è valutare le tue condizioni psichiche... e poi ti prescrivono dei farmaci, cioè droghe. A Danbury, la fila che si formava due volte al giorno all'ora della medicina era sempre lunga, e dall'ambulatorio medico si snodava fino all'ingresso. Ad alcune donne i farmaci erano di enorme aiuto, ma altre finivano per assomigliare a zombie, fatte fino al midollo. Mi spaventavano: cosa sarebbe successo quando fossero uscite, senza più possibilità di prendere la pillola magica? Quando avevo varcato i terrificanti cancelli del carcere, sette mesi prima, io non avevo certo l'aspetto della gang-ster, ma la mentalità, quella sì. A un gangster interessa solo e soltanto di se stesso e dei suoi. Provavo un rimorso opprimente per il trauma che avevo provocato alle persone che amavo e per le conseguenze che stavo affrontando. Persino quando dovetti consegnare i miei abiti e sostituirli con la divisa arancione avrei riso dell'idea che la «guerra alla droga» fosse qualcosa di più che una barzelletta. Avrei sostenuto che, nel migliore dei casi, le leggi antidroga del governo si dimostravano inefficaci ogni giorno, e che nel peggiore erano proprio sbagliate in partenza: si concentravano sull'offerta piuttosto che sulla domanda, venivano concepite a casaccio e applicate in modo iniquo e discriminatorio in base alla razza e all'estrazione sociale; insomma, erano un totale fallimento intellettuale