Più amiche mi facevo, più qualcuno mi voleva rimpinzare: era come avere cinque o sei mamme ebree. Non ero il tipo da rifiutare una seconda cena, dato che non potevi mai essere sicura di quando te ne avrebbero servita un'altra decente; ma nonostante la dieta ad alto contenuto calorico, stavo diventando abbastanza brava con lo yoga, sollevavo sacchi di cemento da trentacinque chili tutti i giorni e correvo almeno quarantotto chilometri alla settimana, perciò non ingrassavo. Depurata e ripulita da droghe e alcol, immaginavo che nell'istante esatto in cui avessi rimesso piede fuori mi sarei data alla pazza gioia, oppure sarei diventata una salutista fanatica come Yoga Janet. Janet l'avrei persa molto presto. Siccome di lì a poco sarebbe stata di nuovo una donna libera, mi esercitavo in sua compagnia appena potevo, ascoltando attentamente i consigli sulle posizioni e cercando di applicarli. Prima di allora non avevo mai provato sentimenti contrastanti per la partenza di qualcuno – era un momento così felice! –, invece la prospettiva di separarmi da Janet mi sembrava una terribile perdita personale. Non l'avrei mai ammesso perché mi vergognavo, ma avevo ancora più di quattro mesi davanti a me e non credevo di potercela fare senza la sua presenza stimolante e confortante. Yoga Janet era la mia guida per affrontare la prigione senza abbandonare me stessa. Da lei avevo imparato a operare in condizioni tanto avverse con grazia e carisma, pazienza e gentilezza. Era un modello di generosità che potevo soltanto sperare di eguagliare, prima o poi. Ma era anche una donna tosta, di certo non una sempliciotta. Il suo «giorno del dieci per cento», cioè il momento in cui un detenuto ha diritto a essere trasferito in un centro di reinserimento sociale, era passato da tempo e lei stava sbarellando perché non le avevano ancora comunicato la data del rilascio. Capitava a tutte di agitarsi prima di tornare a casa. Quei numeri, quelle date, erano appigli cui aggrapparsi. Finalmente Yoga Janet poté andare a casa, o meglio, in una «casa di
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riabilitazione» nel Bronx. Quella mattina, durante l'ora della colazione andai in sala visite, da dove escono tutte le detenute in partenza, attraverso la porta principale del Campo. Per qualche motivo la tradizione voleva che l'autista del carcere parcheggiasse il pulmino bianco lì davanti, dove si radunava una piccola folla per i saluti, e poi che Toni accompagnasse per una cinquantina di metri le donne che stavano per essere liberate giù dalla collina. La maggior parte di loro usciva da quella porta soltanto con una scatola di effetti personali, lettere e fotografie. Le amiche di Janet – suor Platte, Camila, Maria, Esposito e Ghada – erano lì per dirle addio. Ghada continuava a piangere e singhiozzare; perdeva sempre la testa ogni volta che qualcuno che le piaceva tornava a casa. «No mamacita! No!» piagnucolava con il viso rigato di lacrime. Ancora non avevo idea di quanto fosse lunga la condanna che doveva scontare, ma che fosse lunga era plausibile. Di solito amavo gli addii. Quando qualcuno tornava a casa, era una vittoria per tutte noi. Quel momento mi rendeva così felice che andavo a salutare anche persone che non conoscevo molto bene. Ma quella mattina, per la prima volta, capii cosa provava Ghada. Non mi sarei gettata ai piedi di Yoga Janet in lacrime, però l'istinto c'era. Mi concentrai intensamente su quanto fossi felice per lei, per il suo fidanzato tanto carino, per chiunque riconquistasse la libertà. Janet si era messa un vestitino rosa di maglia che le aveva confezionato qualcuno come regalo di addio (un'altra tradizione che sfidava le regole). Desiderava così disperatamente andarsene che dovette fare appello a tutta la sua pazienza – e ne aveva tanta – per salutarci a una a una. Quando arrivò il mio turno, l'abbracciai e la strinsi forte, premendole il naso contro il collo. «Grazie Janet! Grazie infinite, mi hai aiutata tantissimo!» Non riuscii a dire altro, perché scoppiai a piangere. Un attimo dopo se n'era andata. In lutto, nel pomeriggio scesi in palestra. C'erano un televisore e delle videocassette di esercizi, tra cui un paio di yoga. In particolare una che a Janet piaceva fare da sola. «Soltanto io e Rodney» sospirava. Era il video di Rodney Yee, un popolare istruttore. «L'oggetto delle mie fantasie dietro le sbarre!» diceva Janet. In copertina c'era un tizio con una lunga coda di cavallo nella posizione della "sedia". Aveva un'aria familiare. Infilai la videocassetta nel lettore. Sullo schermo apparve una meravigliosa spiaggia hawaiiana. Le onde del Pacifico lambivano la battigia, ed ecco Rodney, un cinese dalla bellezza armoniosa, con un paio di slip neri aderenti. All'improvviso lo riconobbi. Era il tizio che avevo visto in TV nell'hotel di Chicago dove io, Larry e la mia