La libertà si avvicinava. Nonostante la nota disciplinare di novembre, ero sulla buona strada per scontare soltanto tredici dei quindici mesi cui ero stata condannata, e sarei quindi uscita a marzo, grazie alla riduzione standard della pena per buona condotta. In gennaio avrei ottenuto l'idoneità al trasferimento in un centro di reinserimento sociale che si trovava nel cuore di Brooklyn, in Myrtle Avenue (o Murder Avenue, «il Viale degli Omicidi», secondo la versione delle ragazze del Campo). Stando alle voci di corridoio, appena superavi i test antidroga e trovavi un lavoro, ti mandavano a casa; sempre a patto che potessero reclamare il tuo stipendio. In Murder Avenue ci sarebbe stata Natalie ad aspettarmi. Salutai la mia socia all'inizio di dicembre. La sera prima che se ne andasse, non stavo più nella pelle e continuavo a farle domande, sporgendomi dal letto a castello per guardare di sotto, dove la mia amica avrebbe dormito per l'ultima notte. Natalie sembrava determinata a restare calma. L'indomani mattina, mentre salutava il gruppetto di donne che si erano radunate fuori per farle gli auguri, per la tensione io saltellavo in giro come una bambina piccola. Volevo essere l'ultima. Mi sforzai di mantenere il controllo, ancor più di quando era partita Yoga Janet. «Natalie, non so cosa avrei fatto senza di te. Ti voglio bene.» Era forse la frase più diretta che avessi mai detto alla donna orgogliosa con cui avevo vissuto a stretto contatto per nove mesi. Ancora una volta, stavo per perdere la battaglia con il pianto. Nell'ultimo mese ero diventata la regina delle fontane di lacrime. Lei mi abbracciò con delicatezza. «È tutto okay, socia. Ci vediamo presto. Ti aspetto a Brooklyn.» «Certo, Natalie. Tienimi il posto.» Sorrise e uscì dalla porta, a testa alta, per l'ultima volta. In gennaio anche Pop sarebbe stata trasferita in un centro di reinserimento, e il fatto che saremmo tornate a casa nello stesso periodo fu uno dei motivi
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che ci unì così tanto. Ma per lei, come per Natalie, tornare a casa significava qualcosa di assai diverso rispetto a me. Pop era stata dentro per più di dodici anni, dai primi anni Novanta. Si ricordava un mondo senza cellulari, senza Internet e senza agenti di sorveglianza cui fare rapporto se eri in libertà vigilata. Era nervosa da morire. Parlammo per ore e ore di come sarebbe andata: prima avrebbe trascorso sei mesi nel centro, poi sarebbe tornata nella casa dove viveva la sua famiglia. Suo marito era in carcere giù al Sud e l'avrebbero liberato di lì a tre anni. Pop aveva intenzione di lavorare in un ristorante e mi confidò che un giorno le sarebbe piaciuto comprare un chiosco di hot dog. Era in ansia per i computer, in ansia per il centro di reinserimento, in ansia per i figli e in ansia all'idea di lasciare il luogo che, nel bene e nel male, era stato la sua casa per oltre dieci anni. Anch'io ero in ansia, ma non perché stavo per uscire. La seconda settimana di dicembre mi era arrivata da Chicago una lettera di Pat Cotter, l'avvocato: uno degli imputati nel mio stesso caso, tale Jonathan Bibby, stava per essere processato ed era possibile che io venissi chiamata a testimoniare. L'avvocato mi ricordava che, in base alle condizioni stabilite dal patteggiamento, in caso di convocazione da parte del governo ero tenuta a rendere una testimonianza completa e attendibile. I federali, scriveva Pat, avrebbero potuto decidere di trasferirmi a Chicago perché comparissi in tribunale; anzi, ne avevano tutta l'intenzione. È ovvio che mi farebbe piacere cogliere l'occasione per rivederti, ma dai commenti di altri miei assistiti ho dedotto che il viaggio offerto dall'amministrazione penitenziaria può essere un'esperienza sgradevole e stancante per il detenuto. Un'esperienza che vorrei risparmiarti, se possibile. Ero sconvolta. Per me Jonathan Bibby era un perfetto sconosciuto. Non volevo andare a Chicago e di sicuro non volevo essere una testimone del governo, una spia. Io volevo restare lì dentro, nel Campo, a fare la verticale in palestra e a guardare i film con Pop il sabato sera. Chiamai l'avvocato e gli spiegai che Jonathan Bibby non l'avevo mai nemmeno visto, quindi non sarei stata in grado di riconoscerlo in un confronto all'americana. Se mi avessero portata a Chicago per il processo, avrei rischiato che il trasferimento nel centro di riabilitazione fissato per gennaio saltasse. Gli chiesi di fare qualche telefonata e perorare la mia causa, informando il procuratore generale che, non avendo avuto alcun rapporto personale con l'imputato, la mia testimonianza non sarebbe stata molto utile. «Ma certo» acconsentì lui.