Com'è ormai tipico dei viaggi in aereo, di questi tempi, anche volare con la Con Air significava sopportare un sacco di tempi morti. Esattamente undici mesi dopo aver messo piede per la prima volta nell'ufficio Registrazione & Rilascio, mi ci riportarono. Rimasi in attesa. Una dopo l'altra, le guardie accompagnarono dentro altre donne. Una ragazza bianca, magrissima, dallo sguardo trasognato. Due sorelle giamaicane. Un'antipatica zoticona che aveva lavorato con me in manutenzione e stava tornando nell'ovest della Pennsylvania per un processo. Un donnone nero con l'aria da lesbica e una spaventosa cicatrice che le partiva dietro l'orecchio, girava attorno al collo e spariva sotto il bordo della T-shirt. Nessuna aveva molta voglia di parlare. Finalmente entrò una guardia che riconobbi perché lavorava al Campo. L'agente Welch era una delle addette al servizio ristorazione e conosceva benissimo Pop. Provai un po' di sollievo all'idea che si sarebbe occupata lei della nostra partenza; era molto meglio delle guardie che mi avevano accolta a Danbury. Consegnò a tutte una nuova uniforme: la stessa divisa da ospedale arancione e le pantofoline di tela da sfigata che avevo dovuto indossare al mio arrivo. Mi dispiacque rinunciare agli scarponi da lavoro, anche se ormai avevano le suole crepate. Poi, una alla volta, cominciò a legarci: una catena intorno alla vita, un paio di manette che venivano agganciate alla cintura, ceppi alle caviglie uniti tra loro da una catena lunga una trentina di centimetri. Non ero mai stata ammanettata in vita mia, fuori da una camera da letto. Quella volta, però, non avevo voce in capitolo. Mi avrebbero immobilizzata comunque, sia che avessi collaborato, sia che avessero dovuto sbattermi faccia a terra con un ginocchio puntato nei lombi o un anfibio premuto sul petto. Guardai la signora Welch che si avvicinava. «Tutto bene, Kerman?» mi chiese. La sua preoccupazione sembrava autentica, e in un lampo di lucidità mi resi conto che eravamo alla mercé del sistema, pronte per essere spedite nel grande ignoto. La Welch sapeva cosa mi avrebbero riservato le poche ore
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successive, ma il resto, probabilmente, era un mistero per lei quanto lo era per me. «Sì» risposi con una voce insolitamente sottile. Avevo paura, ma non di lei. Iniziò la procedura chiacchierando, per distrarmi, un po' come un'igienista dentale che sa di procurarti un fastidio. «Come va così? Stringe troppo?» «Un pochino sì, attorno ai polsi.» Detestai la gratitudine nel mio tono, però ero sincera. Avevamo già «consegnato i bagagli»: dopo i controlli della guardia carceraria (a me era capitato lo stesso gnomo beffardo del primo giorno), i nostri effetti personali erano stati messi da parte. L'unica cosa che potevamo portare con noi in viaggio era un foglio con l'elenco degli oggetti di nostra proprietà. Sul retro avevo scritto tutte le informazioni importanti che mi riguardavano: il numero di telefono dell'avvocato, l'indirizzo dei miei genitori e degli amici. Scarabocchiati in tante grafie diverse c'erano anche i recapiti delle mie amiche del Campo: quelle che sarebbero uscite presto mi avevano lasciato un indirizzo; quelle che invece dovevano restare dentro ancora a lungo, il loro numero di matricola. Era doloroso scorrere la lista. Mi domandai se avrei mai più rivisto qualcuna di loro, poi infilai il foglio nel taschino della casacca, insieme alla carta d'identità. In fila indiana ci avviammo fuori dall'edificio, trascinando i piedi nel tintinnio delle catene verso un grosso pullman senza scritte che veniva utilizzato per il trasporto dei prigionieri. Quando hai le caviglie legate, sei costretta a fare dei passettini corti corti, sulla punta dei piedi. Mentre aspettavamo in uno degli spazi recintati all'esterno della prigione, arrivò a tutta velocità il furgoncino del Campo. Jae saltò giù, con alcune sacche di tela. La lesbica nera si illuminò. «Cugina?!» Jae la fissò attonita. «Bloody Mary? Cazzo ci fai qui?» «Cazzo ne so.» Ci scortarono di nuovo dentro per controllare i bagagli di Jae e legare ben stretta anche lei. Si sarebbe unita alla nostra variopinta combriccola, ed ero molto contenta di avere un'amica per il viaggio. Sotto la minaccia delle armi, le guardie ci fecero salire sul pullman e partimmo, uscendo finalmente nel mondo esterno. Fu disorientante vedere il Connecticut delle periferie scorrere fuori dal finestrino, e poi cedere il passo all'autostrada. Non avevo idea di dove stessimo andando, anche se l'ipotesi più probabile era Oklahoma City, lo snodo principale del sistema federale di