Nel carcere di Chicago ogni giorno cominciava sempre allo stesso modo: alle sei del mattino i detenuti della sezione maschile (che avevano la possibilità di svolgere un lavoro) portavano i carrelli della colazione al dodicesimo piano, superando le massicce porte di metallo fino al braccio femminile. Poi, il secondino di turno, nonché l'unico, faceva il giro per aprire le celle. Appena le serrature scattavano, le donne saltavano giù dai letti e si fiondavano fuori per mettersi in fila. Non era un momento allegro: nessuno parlava, i volti erano duri o semplicemente apatici. Di solito la colazione consisteva in cereali, un quarto di litro di latte freddo e a volte qualche mela ammaccata, distribuita da una detenuta di nome Princess. Ogni tanto c'erano le uova sode. Era chiaro perché tutte fossero così veloci ad alzarsi: come a Oklahoma City, quello era l'unico pasto commestibile su cui si potesse contare fino al giorno dopo. Poi, con la stessa rapidità con cui si era riempita, la stanza si svuotava. Quasi tutte le donne tornavano a letto. A mangiare, oppure a mettere da parte il cibo per dopo, tenendo il latte in fresco in qualche contenitore recuperato alla meglio. Per diverse ore regnava la calma, finché a un certo punto le prigioniere si svegliavano, accendevano i televisori e cominciava un'altra deprimente giornata nel grattacielo-fortezza. Tutte le persone che mi volevano bene desideravano pensarmi innocente, convincersi che fossi stata raggirata, ingannata, presa alla sprovvista. Ovviamente si sbagliavano. Tanti anni prima, avevo voluto provare il brivido dell'avventura, un'esperienza fuori dal comune, e il fatto che fosse illegale la rendeva ancora più esaltante. Nora poteva anche avermi usata, ma io ero stata più che pronta ad accettare la sua offerta. Le donne conosciute a Danbury mi avevano aiutato a confrontarmi con le cose sbagliate che avevo fatto e con quelle che avevo fatto nel modo sbagliato. Avevo dovuto prendere atto non solo della mia scelta di
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commettere un'azione immorale e disonesta, ma anche dei miei modi «da lupo solitario», del mio vizio di isolarmi, che avevano contribuito a quegli errori e spesso reso le conseguenze ancora più dolorose per i miei cari. Così, smisi di pensare a me stessa nei termini usati da D.H. Lawrence per descrivere il carattere dei miei connazionali: «L'anima d'America è scabra, isolata, stoica e assassina. E non si è ancora sciolta». Donne come Allie, Pom-Pom, Pennsatucky, Jae e Amy avevano sciolto la mia. Riconobbi di cosa ero capace e come le mie decisioni si ripercuotevano sulle persone di cui sentivo la mancanza; non soltanto Larry e la mia famiglia, ma tutte le compagne di prigionia che avevo incrociato lungo la strada durante quella stagione all'inferno. Da tempo avevo accettato il fatto di dover pagare le conseguenze delle mie azioni. So commettere errori tremendi, ma so anche assumermene le responsabilità. Eppure bisognava comunque trovare la determinazione per non credere a ciò che il carcere – le guardie, le regole, talvolta persino le altre detenute – voleva farti pensare di te stessa: e quella era la parte più dura. Quando decidevi di opporti, cioè quando agivi come una persona degna di rispetto e con rispetto trattavi te stessa, a volte lo facevano anche gli altri. Se il dubbio, la vergogna o pensieri ancora peggiori mi si insinuavano in testa, le lettere, i libri e le visite degli amici, dell'uomo che amavo e della mia famiglia mi dimostravano in modo eclatante che ero una brava persona e funzionavano meglio di un amuleto, un talismano o una pillola per tenere lontani i brutti pensieri. A Chicago, però, era tutta un'altra storia. Strappata a coloro che, dentro e fuori la prigione, mi avevano aiutata ad andare avanti, mi sentivo completamente persa. La desolazione delle donne che mi circondavano mi faceva stare male, così come l'inutilità di ogni giorno trascorso lì dentro e la totale indifferenza e mancanza di rispetto con cui venivamo trattate. In realtà, le guardie erano gentili, per quanto non professionali, ma non potevano fare nulla per noi. Interagire con «l'istituzione» era come fissare un muro di cemento. Le domande non ricevevano risposta. Le mutande non venivano fornite. Il mio senso d'identità, le fondamenta stesse della mia persona, rischiavano di sbriciolarsi. L'unico punto di riferimento stabile in quel nuovo universo era il cibo, a volte commestibile, che veniva distribuito a orari regolari. Le telefonate a Larry e ai miei genitori assunsero toni disperati. Per la prima volta in un anno dietro le sbarre pronunciai le parole: «Dovete tirarmi fuori di qui».