Parte 1 senza titolo

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La cosa più ovvia da dire era che non sarebbe stato facile.

Quattromilaottocento e passa metri verticali di difficoltà, uno dopo l'altro, oltre all'inevitabile ritorno. Un viaggio della mente, mi diceva Palmira; un inferno per la schiena e per le gambe e per i piedi, risponderei adesso, se non fosse tardi. Per non parlare dell'offesa alla mia sedentarietà: il mio bradipo interiore che si ferma a più riprese. La mia ascesa è una via crucis, eppure non la smetto. Non la smetto, non mi siedo e pure continuo a bestemmiare la mia imprudenza. La sostanza di chi è rammollito, mi ripetevo, è il fatto che preferisce non andare da nessuna parte e chi tradisce la propria natura, prima o poi, ne paga le conseguenze. Sempre.

Ho lasciato la macchina all'ultimo rifugio che ho potuto raggiungere, ma non sono riuscito a partire subito, non ho avuto cuore. Non sono animale di montagna, vivo ad altitudini diverse: sono un pesce fuor d'acqua e mi è mancato, per il momento, il coraggio. Dormire in montagna per la prima volta, senza aver ben chiaro il motivo per cui mi trovassi lassù, senza saper bene cosa ci fossi venuto a fare, senza nemmeno ricordarmi troppo di preciso tutto quello che lei mi aveva detto di fare una volta che fossi arrivato; passare la mia prima notte in alta montagna, in una bolla di silenzio sconosciuta, faccia a faccia con il buio più buio che ricordassi di aver mai visto è stato il mio primo passo.

Il buio più buio e la luce più luminosa. Tra le tante dimenticanze non c'erano gli occhiali da sole. Roba da poco, in effetti: pochi euro al grande magazzino ma comunque utili allo scopo. Utili a non rimanere abbagliati. Perché è possibile, sapete. Un abbaglio stereofonico che riempie la testa come gli occhi. Un tutto talmente affollato da risultare non meno difficile del nulla oscuro di quella prima notte. L'alba ha dita di rosa con unghie al cobalto e l'aria fine regala un'accuratezza digitale. Anche il mio cuore di collina rimane spiazzato.

La cosa più ovvia da dire era che non sarebbe stato facile, quella più sbagliata é che sia solo.

Vivo da solo quasi ogni secondo dei miei giorni. Conosco bene il silenzio, anche il silenzio della mia mente: chiudo le finestre e ogni rumore si spegne, giro un interruttore e pure la mia mente si quieta. Non mi ha mai spaventato. Questione di abitudine, certo, ma anche di attitudine. Molti vorrebbero farlo ma poi hanno i brividi: da solo non hai alibi. Io la cerco deliberatamente, la solitudine. Non è un vezzo, è qualcosa di biologico. Da solo e in silenzio.

Avevo pensato che quassù fosse l'ideale ma mi sbagliavo. Non c'è silenzio e, accidenti, proprio non sono solo. La realtà suona di per se stessa: un rumore, un suono, una musica – forse. Sicuramente non è silenzio. Mi par di uscire dalla miniera col suo buio ovattato e trovarmi sotto il cielo vivo di stelle. L'aria è piena di rumori come di cose; messaggi da migliaia di miglia come da pochi metri: l'aria stessa ha una sua voce anche senza vento. E poi non sono solo, assolutamente. La vita è un concetto arbitrario ma l'esistenza ha un ché di ineffabile: cosa distingue ciò che è vivo da ciò che non lo è? Quello che non si muove, non è vivo? L'immateriale è comunque presente? E' sensibile? C'è, in qualche modo?

Mamma mia, non venitemi a dire che queste montagne non hanno presenza, che non ci sono, che non sono qui, che non hanno un genere di vita anche loro. Mi guardano, a volte, altre mi ignorano del tutto. Hanno occhi ed orecchie in qualche modo. E' una nostra presunzione, quella di misurare tutto secondo noi stessi, di farci metro di tutto quanto: sarebbe una cosa da ridere se poi scoprissimo che tutto quanto è invece il paradigma di noi stessi. Quindi io credo che siano coscienti, in un qualche modo minerale. Una coscienza assai più forte della mia, perché sono sempre e comunque quello che sono, mentre io non riesco a stare dove sono, danzando fra quello che vorrei e quello che volevo fare. E' la stessa cosa con tutto il resto: ma del resto qui tutto è montagna, tutto tranne il cielo.

Questa mattina il cielo aveva un sorriso termonucleare e sembrava più vicino. Sembrava denso, sembrava una 'cosa' che potevi toccare, in cui potevi entrare. Avete presente l'oceano? Questa mattina ho fatto un tuffo sidereo, bagnandomi d'aria sottile.

Mi dispiace di darlo per scontato, il cielo. Ma spesso succede. Qui non è possibile. Proprio per niente. Qui il cielo non è aria, non è un effetto ottico più o meno speciale. Da questo punto di osservazione il cielo è semplicemente cielo. E' lì, lo vedi, lo senti lo annusi e quasi lo gusti proprio come cielo. Anche lui deve avere una specie di coscienza, la consapevolezza di essere se stesso. Di essere cielo, intendo.

Pensavo di andare a farmi un giro in montagna ubbidendo a chi non vuole vedermi seppellito fra le mie carte, non credevo di andare a ricevere una lezione di zen. Qui intorno sono l'unico che non riesce ad essere semplicemente quello che è. Sono l'unica eccezione nevrotica in un mare di pace esistenziale.

La cosa più difficile da fare è parlare delle nuvole.

Se il cielo e le montagne sono in qualche modo vive, le nuvole cosa sono? Le nuvole non sono cose. La nuvola non esiste. Si tratta di un qualche tipo di gas. Esiste il vapore, ma il vapore non ha forma. La nuvola ha una forma ma è fatta di qualcosa che non ne ha. La nuvola è una contraddizione. No, sicuramente la nuvola non esiste.

Da piccoli io e Palmira giocavamo con le nuvole.

Avete presente? Quello è un pesce; quello invece è un palazzo; quell'altro – guarda – è un domatore di circo con dei baffi a manubrio e l'alito puzzolente di sigaro... e così via. Ma le nuvole non sono niente, non sono nemmeno se stesse. Il gas che le forma non forma una nuvola, rimane sempre gas. Le nuvole nascono nella tua testa. Sei tu che crei le nuvole e le sue forme. Sei tu che crei il loro essere qualcosa. Le crei tu, non esistono da sole.

Se il cielo è la mente infinita, le nuvole sono i suoi pensieri incontrollati.

Chissà se anche del cielo posso dire la stessa cosa, ora che me ne sto qui a naso all'insù, sulla montagna, a contare le nuvole che diventano grigie.

Dove finisce il cielo? A quale distanza dal mio naso? Dopo un centimetro è già cielo? E quella foschia che inizia ad avvolgere tutto non è forse una nuvola? Che forma ha adesso la montagna? Che forma ha il cielo? Che forma ho preso io?

La cosa migliore da fare è stare a guardare.

Alla fine, anche in questo caso, è meglio che faccia ciò che so fare meglio: stare a guardare. Mentre in mezzo ad un mondo divenuto piccolo e grigio mi trascino per gli ultimi metri fino al rifugio, cercando di dimenticare di avere piedi e gambe schiena, penso di avere avuto una conferma. Non esiste nessun posto dove dobbiamo andare ma probabilmente ne esiste uno dove stare.

E' tutto a posto, non ci sono    

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