VII

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Cloe stava dormendo sul divano. Ormai erano due settimane che viveva da me, e la sua presenza, per me, ormai era diventata essenziale.
Lei non mi faceva domande riguardanti il mio lavoro o il mio passato, nonostante abbia già letto tutto da quel diario.
Ero tranquillamente seduta sulla poltrona accanto al divano, a guardare il TV, quando un telefono iniziò a suonare: il mio.
Lo presi in mano, il display segnava un numero sconosciuto.
«Pronto?»
«Nina...»
«Scusi, ma chi parla?»
«Sono tuo padre Nina
Sentii la rabbia percorrermi il corpo.
«Pezzo di merda! Non sei ancora morto?!»
Mi tremavano le mani da quanto ero furiosa.
«Nina... Che succede? Perché stai urlando?»
Intanto Cloe si era svegliata e mi guardava mentre uno sbadiglio le fece aprire la bocca.
«Nina, chi c'è li con te
«Questa é davvero bella! Adesso ti importa di con chi é tua figlia? Davvero divertente, complimenti!»
Sentii un sospiro provenire dall'altra parte del cellulare.
«Come sta Eleonor
Al suono di quel nome, gli occhi mi si riempirono di lacrime.
«Vaffanculo stronzo! Non ti é mai fregato niente, ne di me ne della mamma, quindi smettila di cercarci e facci il favore di morire e lasciarci in pace, per una fottutissima volta!»
Non chiusi neanche la comunicazione e buttai il telefono per terra, con tutta la forza che avevo il corpo.
Mi passai entrambe le mani nei capelli, premendo con le unghie sulla testa, e sicuramente la mia espressione non era delle più tranquille.
Ero ferma in piedi con le mani sui capelli con un viso disperato, le lacrime continuavano a scendere e il mio labbro non smetteva di tremare.
«Nina, che é successo?»
Cloe si era alzata e mi stava venendo incontro e cercò di sfiorarmi con una mano.
«Non toccarmi!»
Urlai. Ero fuori controllo. Avevo paura, ero arrabbiata, e troppo, troppo agitata.
Dovevo vedere Noah.
Dopo essermi sbloccata andai verso l'uscita, ed andai a battere violentemente la mano contro la porta del biondo.
«Noah... Ti prego...»
La rabbia aveva lasciato il posto al terrore e alla tristezza.
Quando la porta si aprì mi trovai davanti un ragazzo dai capelli castani ricci e gli occhi azzurri. Oliver.
Lo abbracciai senza pensarci due volte, mentre le lacrime non osavano fermarsi.
«Nina, che hai?»
Mi aggrappai con tutte le mie forze alla sua maglietta; da dentro all'appartamento di Noah si sentiva della musica, i ragazzi erano tornati e stavano suonando, ecco il perché della presenza di Oliver.
«Dov'é... Dov'è Noah?»
La mia voce era spezzata dai singhiozzi e il bruno non poté far altro che accarezzarmi la schiena con l'intento di tranquillizzarmi.
«Stavamo provando, vieni.»
Mi prese sotto braccio, mentre io non ne volevo sapere di staccarmi da lui.
Sorpassammo il corridoio ed arrivammo nella piccola sala insonorizzata che usava la band per provare.
Appena vidi il biondo, ognorai tutti gli sguardi curiosi dei musicisti, mi staccai dalle braccia di Oliver e mi piombai tra quelle di Noah, che erano decisamente più robuste e confortevoli.
Ad ogni problema andavo da lui. Da lui e dalle sue braccia. Volevo solo quello. Solo sprofondare sul suo petto.
«Piccoletta, cos'è successo?»
«Ho paura Noah... Ho terribilmente paura...»

Lui sapeva come risollevarmi il morale, andammo nel nostro bar preferito l''Ibiscus'; aveva un nome estivo, fresco e pulito; ed era decisamente un tocco di vita in mezzo a questa città grigia.
«Due cioccolate calde con panna, e un muffin ai mirtilli.»
Il biondo sorrise alla cameriera che arrossí palesemente, e dopo essersi ripresa andò verso il bancone a comunicare la nostra ordinazione.
«Allora, ora mi dici cos'è successo?»
Sospirai e alzai gli occhi nei suoi; il mio verde nel suo smeraldo.
«Mi ha chiamata mio padre, non so come abbia fatto al avere il mio numero e non mi interessa, ma sono spaventata; ho paura che mi possa fare del male.»
Noah non sapeva tutta la storia, gli avevo solo raccontato che non ero in buoni rapporti con i miei, e che non volevo parlare con loro, ma la verità era ben diversa.
«Ti ho detto che mio padre aveva problemi di droga, no?»
Annuì.
«Ecco, io da bambina non capivo perché lui a casa non c'era quasi mai, e mia mamma non sapeva che spiegazioni darmi; così stava zitta con lo sguardo perso nel vuoto, e aspettavo sempre ed impazientemente l'arrivo di mio padre. Stavo a fissare la porta di casa per ore. E gli anni della mia infanzia passarono così, finché mio padre non decise di andarsi a curare, dopo aver ucciso un uomo per prendergli della coca.» La mia paura era dovuta a questo avvenimento, era successo una volta, poteva succedere ancora. Guardai Noah e nel suo sguardo c'era comprensione.
«Restò in una comunità per quattro anni, e io e la mamma potevamo vederlo solo una volta ogni sei mesi. Io ero triste, perché gli volevo bene e mi mancava, ma l'unica cosa che potevo fare era spettare. Quando compii quattordici anni uscì e mi promise un sacco di cose: che non si sarebbe più drogato, che non avrebbe più bevuto, che mi avrebbe voluto sempre bene... Tutte cazzate.
Qualche mese dopo essere uscito a mia mamma venne diagnosticata una malattia orribile, cominciò a dimenticare poco a poco le cose; e nello stesso periodo trovai delle siringhe sul letto di mio padre, e non era difficile capire che cosa contenessero... »
La conversazione venne fermata dalla cameriera che tornò con le nostre ordinazioni, alzai gli occhi qualche secondo sul biondo e la sua espressione era indescrivibile: un misto tra lo sconvolto e il triste.
«Mio padre andò via di casa senza dire nulla, e rimasi sola con mia mamma in ospedale. Gli assistenti sociali vennero a sapere di questo fatto e mi portarono in una casa famiglia contro la mia volontà, li odiavo ma non potevo oppormi. Rimasi li fino ai miei diciassette anni, quando decisi di scappare; non so nemmeno io come ci riuscii, ma andò bene. La prima cosa che feci fu andare all'ospedale in cui era ricoverata mia mamma...»
Gli occhi mi erano diventati lucidi, fissavo il liquido scuro che era nella tazza che tenevo tra le mani per riscaldarle.
«... Quando mi vide mi chise l'ultima cosa che avrei voluto mi dicesse: "Chi sei?"... Si era dimenticata di me, pensavo di aver ritrovato la mia famiglia, ma in realtà persi tutto... Ed è stata proprio la sera di quell'orribile giorno che ti incontrai, Noah. Ti ricordi?»
Qualche lacrima scappò al mio controllo mentre alzai lo sguardo sul biondo che mi guardava con un sorriso triste.
«Certo che mi ricordo, piangevi come una disperata sul ciglio della strada; eri sporca di fango e tremavi come una foglia, e c'era un sacco di gente che mentre ti passava di fianco ti guardava e faceva finta di niente. Mi facevano proprio schifo. Mi avvicinai a te, ti sfiorai una guancia e tu mi saltasti al collo continuando a piangere. E ora che so il perché di tutte quelle lacrime, stai certa che non te ne farò versare più, Piccoletta.»
Mi sorrise e mi commossi ancora di più. Cosa avrò mai fatto nella mia vita precedente per meritarmi una persona come lui al mio fianco?

Capitolo estremamente essenziale. Okay, avevo voglia di piangere... Va beh! Allora ragazzuoli miei, fatemi felice con un commentino :3

Kiss Me Under The Light Of A Thousand StarsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora