Mare Mei

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Mare, il mare d'inverno.
Triste il mondo senza te,
e senza te son triste io
perchè tu sei il mio specchio,
tu l'anima fresca e mia profonda,
della mia essenza lo specchio mio.
La mia vita scorre via
lontana dal tuo movimento
ed il cor piange fiumi
che io so torneranno a te.
Dicono cuore e mente
vogliano sempre litigare
ma in te io trovo la pace,
le loro lotte le onde mitigano
ma io mi faccio cullare
dal tuo dolce rumoreggiare
che ora mi invade
mentre osservo la marcia
tenace verso quella tua scogliera
su cui sono seduto io
che penso agli anni miei
e a te, privo di affanni e di Era
a te che, per malata gelosia,
mare, proclamo mio.

E nevica, nevica sopra te oggi.
Quello che di te era volato via
torna lentamente a te,
con calma e stasi,
nell'immobilità del tempo
che ghiacciato accompagna
la metamorfosi dei fiocchi ,
che perdono la loro geometria
così perfetta nelle cime,
che non si lamentano
ma che contenti tornano a te
per iniziare,
realizzare e completare
quella trasformazione
da perfezione loro a tuo sublime.
E adesso gli occhi miei
sono come bufera che imperversa,
che permette alla neve
di attecchire al suolo di terra
ma non mai a te,
a cui invece io mi aggrappo,
che trovo nel tuo blu il mio re,
condottiero di eclatanti battaglie:
sconfitte rare
e innumerevoli vittorie.
Arruolami negli eserciti tuoi:
sarò il cavaliere che meglio erra,
cavalcherò i tuoi cavalloni,
fino a infrangermi contro gli scogli irti
insieme a loro fino ad esser goccia.
Io con le tue onde unito
come la nave e il capitano:
la nave affonda e il capitano resta,
negli abissi affonda e segue la casa;
l'onda si separa e si arena,
la sabbia prosciuga la mia vena
che non sangue, ma acqua trascina,
che non al cuore, ma al tuo abisso
è infine diretta.
Nevica, mare, e io smanioso ti fisso.

E mi avvicino, sento il tuo richiamo.
Pensavo non ci fosser più sirene
eppure odo un suono, una melodia
mi avvinghia e mi rapisce
e quasi mi stordisce
ed in pugno mi tiene.
Non so se per il tuo od il loro canto,
ma ora io silenzioso sto muto,
ammutolisco per il pianto
che mi nasce spontaneo,
un pianto che non di dolore
ma è dolce ed incolore.
Ogni sforzo per limitarlo è vano
ma come quando tu ti insinui
dentro i fiordi baltici,
le mie lacrime si apron la via
tra le labbra e la bocca mia
assapora e sente sapori sordi
che non sanno d'umano:
sento la terra umida
ed i castelli di sabbia caduti,
sento le alghe e il corallo,
sento la danza dei delfini,
sento il petrolio che ti inquina
e per cui io stesso muoio,
sento il tuo uragano ed il tuo intervallo,
che ti rende piatto,che fa paura
per quell'ansia che dura,
sento sulle mie labbra del sale.
Sì, perché io piango te, o mare.

E mi stendo qui, accanto alla risacca,
che forse, se materna,
leggermente un poco mi abbraccia.
Sento gli abiti rendersi pesanti
per quella che è la tua sostanza,
me li strappo di dosso
con impeto e violenza,
perché questa è una mia esigenza
e tutto ciò che posso fare,
affinché la tua frenesia sia
simile alla libertà mia,
io lo farò, mio mitico mare.
Mi sciacquerò via dal corpo
tutto ciò che ho di umano
e che mi fa gran torto.
Mi ergerò, di volontà e di fato,
sopra il limite della mia prua
e mi tufferò da lassù, in alto,
per poter toccare ancor più in basso.
Mi svesto di tutto,ma non dei sogni,
e lascio sulla riva incustoditi
orologio, vestiti ed apparenze
e mi accingo a non esser più asciutto.
Ti do il corpo, mare, il corpo che agogni.

E non ti ostacolerò mai,
non andrò contro la corrente,
ma trascinare mi farò a largo.
Il sole sta calando, è presto,
ma va in letargo.
Ti fa violenza e ti penetra affondo,
e io spettatore osservo
mentre mi culli
e mi domando ancora
se il rosso che si spande e che si estende
sia il sangue del tuo universo o
del regno della sfera che pretende
di scandire anno, mese ed ora
infino al mio, al tuo, al nostro finire.
Mi giunge repentina la risposta
e d'improvviso mi sento ora attore.
Il color porpora esce dalle mani,
che un tempo tenevano quel fluido
violento ma succoso,
che ora assorbono il tuo liquido
nobile che mi scorre dentro,
mi pervade e mi fa dimenticare,
mi rende diverso e mi invade,
mi nutre e muta il mio verso,
mi affoga e rende le parole mute,
mi sfoga e poi mi culla 
con quello ch'è un sussurro sottile
dovuto alle rosse ferite,
che nulla posson contro il tuo blu immenso
che rinasce perchè il sole ha perso,
e io, mare, rimango in te ancora immerso.

E lascio che gli arti vengano a galla
per fingermi morto sulla tua calma
dalla quale scorgo il cielo sereno
ed ammiro i corpi celesti:
la luna che insieme alle stelle balla.
La candida ambasciatrice di pace
nella guerra che deve dire invano
chi dei due sia il sovrano,
or brilla del ricordo del fratello,
ma ti cura i precedenti dolori
con un mantello bianco e argento,
che spesso viene smosso,
per un gioco, dal vento,
veloce, rapido e inafferrabile
che corre e loco non ha.
Dopo un silenzio istantaneo
nasce uno strano suono,
stavolta spontaneo.
I riflettori del palco del cielo
continuano a danzare
sopra la melodia che si crea
a causa dei soffi di zefiro
lento e elegante
e per la tua marea,
ma ora ho imparato a camminare.
Mi alzo sul tuo sostegno
e cerco le tue mani umide.
Di legno i miei piedi si muovono
a ritmo delle tue onde
coperte dal velo candido
che hai ricevuto in regalo stanotte,
ma che la luna sempre ti promette.
Uno, due, tre, un, due, tre, un, due, tre,
tu danzi nei miei occhi e io sopra te
fino al quarto, al quinto atto.
Balliamo la mia calma
e poi la tua tempesta,
andiamo ora a cercare
il nostro nascosto confine
che è lì, lì che sembra sparire
per la nostra eterna canzone,
mentre noi non accenniamo a far altro
che non sia gridare, o mare,
quella nostra travolgente passione.

L'alba irrompe violenta e incantevole
e il nostro passo, prima concitato,
adesso si fa più debole.
E sotto la luce del sole a oriente
scorgo il confine che prima volevo.
A metà tra l'eterno e l'infinito
ritrovo l'orizzonte,
che con un dito
mi apre gli occhi e mi accarezza la fronte.
Ritrovo quel filo sottile,
la cintura del mondo,
soltanto nel momento in cui il sonno,
prima profondo, diventa più mite.
Dopo esser stato cieco per il bagliore,
ora infine capisco.
Il sogno di un viaggio di furore
mi ha condotto per questa notte
con quelle visioni precise,
ma che forse ho solo sognato.
Mi guardo intorno, un poco spaesato.
Davanti a me tu,
stanca distesa immane,
ma cosa ancor più strana
è che mi scopro nudo
su questa distesa di rena piana.
Muto porto le mie aride dita
segnate e spoglie
sopra le soglie della mia bocca:
le mie labbra provo ad assaggiare,
scoprendole, o mare, un poco salate.

Piccoli passi (o l'Eco del Diluvio) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora